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La notte passò quietissima, tranne il rumore indispensabile che dovette farsi nel trasportare a bordo ai due legni le provvigioni, tanto vivamente desiderate dal generale. I due commissari respiravano e potevano ritenersi salvi, ma la paura fatta loro da Garibaldi era stata ben grossa, e non poteva scuotersi in un baleno.
Uno de’ commissari si chiamava Pietro Bovi, ed era bolognese: l’uomo d’infaticabile attività, prontissimo ai ripieghi, e capace, all’occasione, di trovare il latte di gallina in mezzo al deserto di Sahara. Di lui Garibaldi solea dire: «Quando c’è Bovi, non mi manca mai nulla». E diceva così, avendolo sperimentato bene nella campagna dell’anno 1859 in Lombardia. Pietro Bovi aveva una mano sola; l’altra (non rammento se la diritta o la manca) l’avea lasciata tra le mani del cerusico, non so se sul campo o in casa propria. Pareva che Dio l’avesse creato apposta per trovare le robe e gli fosse stato generoso del mirabile istinto del cane da tartufi.
Essendomi alzato dalla mia cuccia nell’udire il chiasso che facevano nel tirar su a bordo le robe, m’accostai al povero commissario, che, sebben fosse per natura sua riottoso e pronto a infischiarsi dell’intero uman genere, era ridotto un pulcin bagnato. Si spassionò meco lungamente, dicendomi che il ritardo nel consegnare le vettovaglie era avvenuto contro la sua volontà; e per la gran passione, tremava come una canna. Lo consolai, per quanto seppi, ma ei non sapea darsi pace della gran bravata che gli avea fatta il generale, e si batteva colla mano la testa, pulita come un dado, perché Pietro Bovi aveva detto addio ai capelli nel colmo della virilità.
Comunque fosse, la gran burrasca era passata, e i quarti de’ bovi e i caci maremmani e le corbe del pane e i barili del vino erano sul cassero; e i regali del colonnello Giorgini aspettavano su’ barrocci, in riva al mare, che s’andasse a pigliarli.
A’ primi chiarori dell’alba, Garibaldi escì fuori, tutto avviluppato nel suo puncho. Mi dette l’idea d’un leone che escisse dall’antro; e non ebbi voglia d’accostarmi a lui, senza che mi chiamasse.
Dopo due o tre girate che fece a poppa, ci capitò vicino, e riconosciuto Pietro Bovi, da prima lo squadrò in cagnesco, ma poi gli disse: – Addio, Bovi, mi faceste perder la pazienza ieri sera, eh?
Bovi non rispose, ma coll’unica mano che gli rimaneva s’asciugò gli occhi, e prese a contare ad una ad una le gran difficoltà che gli eran cacciate tra le gambe, nell’adempiere gli ordini ricevuti.
Il generale lo ascoltò in silenzio fumando il suo sigaro, e quando Bovi, che fu loquace quant’una cecca, ebbe terminato di dire, rispose, come solea rispondere ogni qual volta non trovava da ridir nulla nei fatti altrui:
Verso le dieci, tutto era messo a sesto su’ due vapori e ci preparavamo a partire per Santo Stefano, e già la macchina soffiava, quando una barca s’avvicinò al Piemonte e fu chiesto di me. Corsi a vedere chi mi cercasse. Era l’aiutante di piazza d’Orbetello, il quale mi disse:
– Vengo da parte del signor colonnello Giorgini a farle sapere che stanotte una banda di volontari è passata nelle vicinanze della città, e a quest’ora va ronzando sul confine.
– E che cosa sappiamo noi – risposi – di quei signori volontari? Noi siam qui e non siamo sul confine.
– Eh, signor Bandi – ripigliò l’ambasciatore – il colonnello è informato che quella banda partì ieri sera da Talamone... Il generale Garibaldi avea promesso che non avrebbe fatto novità qui in Maremma; almeno così dice il colonnello... Ora vede bene che non si sta ai patti...
– E che posso io fare? – esclamai.
– Dica al generale – riprese l’altro – che il colonnello vuol sapere che intenzioni ha quella banda e che, insomma, gradirebbe che il signor generale la richiamasse a bordo e non lo mettesse in più gravi impicci...
– E voi credete – dissi – che il generale Garibaldi sia uomo, al quale si possano cantare comodamente tutte coteste istorie?
L’aiutante m’avea preso per un bottone della tunica, e non sembrava disposto a cedere, protestando che il signor colonnello s’era messo, per amor nostro, in un brutto impegno, e non meritava che una ambasciata sua non avesse nemmen l’onore di giungere fino al generale.
Questa logica mi persuase e dissi all’aiutante:
– Va bene; m’aspetti, e torno subito.
Riferii, parola per parola, al generale quanto m’aveva detto l’aiutante. Il generale mi lasciò discorrere, e quando s’accorse che io avevo vuotato il sacco, disse:
– Fate rispondere al colonnello Giorgini che pensi ai fatti suoi.
L’aiutante si strinse nelle spalle e partì. Noi facemmo altrettanto, e in brev’ora fummo dinanzi a Santo Stefano. Appena calate le ancore, Garibaldi scese a terra, e quando fu giunto Bixio, mi disse:
– Bandi, accompagnate Bixio e Schiaffino fino al luogo dove c’è quel deposito di carbon fossile, di cui mi parlaste l’altra notte... Pigliate con le buone chi l’ha in consegna, e fra voi toscani v’intenderete. Dobbiamo risparmiare, finché è possibile, le violenze.
Bixio e Schiaffino pigliarono subito due lance ed un grosso gozzo e ci mettemmo in viaggio. Giunti che fummo al luogo designato, mi si fece incontro un uomo, vestito pulitamente, e simpatico in viso, a cui domandai:
– Il deposito del carbon fossile è qui?
L’altro mi salutò meravigliato e rispose:
– Sissignore, il carbon fossile è qui ed io l’ho in consegna e debbo risponderne al governo.
– Allora – soggiunsi – ella avrà la compiacenza di lasciarmelo pigliare, giacché il general Garibaldi ci ha ordinato di prenderlo e di portarlo a bordo...
– Che l’abbia ordinato il generale Garibaldi sarà verissimo – ripigliò il mio interlocutore – ma io ho i miei ordini precisi, e non posso consegnare il carbone se non a chi ha il diritto di chiedermelo.
– Ma si tratta d’un caso straordinario, si tratta...
– Signor tenente mio, capisco tutto, ma io non posso, non debbo...
In quel punto, Nino Bixio, che, ritto sulla prua d’una lancia, era stato ad ascoltare quel dialogo, senza aprir bocca, spiccò un salto e si cacciò tramezzo, gridando:
– Bandi, finiscila! Toscani chiacchieroni, maledetta la vostra lingua!
E in così dire, afferrò per i panni il malcapitato oratore, mentre Schiaffino, seguito da sette o otto volontari, correvano alla porta del magazzino.
L’oratore, spaventato da quella furia genovese, tirò subito di tasca la chiave, e apriva bocca per fare le sue proteste in buona regola, ma Bixio con una spinta lo cacciò da parte, e il carbone fu preso e portato trionfalmente a bordo.
Raggiunsi Garibaldi in Santo Stefano, mentre si smammolava nel guardare un bel giardino, pieno zeppo di grosse piante di limoni e di aranci. Vedendomi ridere come un matto, mi chiese che cosa avessi:
– Generale, – risposi – quando volete darmi qualche missione pacifica, guardate bene di non mettermi mai più alle costole quell’anima dannata di Nino Bixio. Volevate che il carbone ce lo consegnassero sponte, ma Bixio, invece, se l’è preso a spinte.
– Eh diavolo! – fece il generale. – Sempre lo stesso, sempre lo stesso!
Escivamo dal giardino dei limoni, quando il generale venne avvertito che un nuvolo di bersaglieri era salito a bordo, e che intendevano di venir via con noi, e non c’era verso di farli scendere.
Il generale mandò subito il capitano Cenni a bordo del Lombardo e mandò me e Stagnetti sul Piemonte con ordine severissimo di farne scendere i bersaglieri. Ci mettemmo all’opera, ma fu come parlare ai sordi; si cacciavano da una parte, e tornavano dall’altra, e si raccomandavano come anime perse, e si aggrappavano alle funi, e salivano sugli alberi, e correvano a nascondersi sotto coperta, aiutati dai volontari, cui non dispiaceva vedersi aggiunta una sì dolce compagnia.
Stanchi morti, cessammo da quella caccia, e tornando in Santo Stefano, sapemmo che anche a Cenni era capitata sul Lombardo la stessa sorte. Il maggior Pinelli, avuto contezza della vanità dei nostri sforzi e temendo ragionevolmente di vedere tutti i soldati del suo battaglione imbarcarsi con noi alla conquista del vello d’oro, venne incontro a Garibaldi, scongiurandolo ad interporre la sua autorità per salvarlo da tanto guaio. Garibaldi promise che i bersaglieri, o di riffe o di raffe, sarebbero tornati a terra, e sbrigati in Santo Stefano i fatti suoi, venne sul Piemonte, dove io ero già da un bel pezzetto, occupatissimo nel mettere a posto la paccottiglia che mi ero fatta coi pochi spiccioli che mi restavano, nelle botteghe del paese. Egli guardò con tanto d’occhi quei bei soldati, baldi nella loro pittoresca uniforme e vogliosissimi di menar le mani, ed entrò nella cabina sospirando e dicendo:
Quindi, chiamati a sé tutti noi, cioè i sette o otto che formavamo (salvando il termine) la sua casa militare, c’impose di fare scendere i bersaglieri, magari colla forza.
Ora, bisogna sapere che sui nostri legni non c’erano soltanto i bersaglieri, ma c’eran venuti parecchi artiglieri e diverse guardie di finanza; e l’ordine fu eguale per tutti. A me quell’ordine non andò punto a fagiuolo, e pensai che dopo aver preso i cannoni e la polvere e tutto il resto, potevam benissimo convertire il peccato in un peccatone, facendo compagni nostri quei buoni e volenterosi soldati. Sicché mi arrischiai a dire:
– Generale, perché mandarli via? Non farebbe bellissima compagnia alle camicie rosse una schiera di due o trecento bersaglieri con le penne sul cappello?
Il generale mi cacciò via con un gesto, come avrebbe cacciato il diavolo tentatore; e sussurrò tra’ denti:
– Non capite che ho dato la mia parola, e non voglio che si dica che ho voluto scompaginare l’esercito?...
Ci facemmo sul ponte e dicemmo ai bersaglieri:
– Bravi figliuoli, andate a terra; ve ne preghiamo in nome di Garibaldi, il quale non può condurvi seco. Abbiate pazienza ormai per qualche giorno, e il momento del menar le mani verrà anche per voi.
Io non racconterò per filo e per segno quel che ci volle a mandarli via, e quanti episodi, ridicoli e commoventi al tempo stesso, occorsero in quella strana cacciata. Dirò soltanto che quando si credette che tutti i bersaglieri fossero iti via, ne vidi due appiattati tra certe botti e certi sacchi, ed usai loro volentieri la misericordia di far vista di non vederli. Altri due, non veduti da me, poterono nascondersi nella cabina, ed uno di questi fu appunto il sergente Bedeschini, fratello della consorte di Menotti Garibaldi.
Compiuta questa operazione coi soldati dell’esercito, il generale, dopo aver speso indarno tutto il fiato che aveva nei polmoni, fece prendere a forza Stefano Siccoli, già suo marinaio nel viaggio che fece in China, e poi soldato del Perù, per amor del quale perdette, in non so qual battaglia, una gamba. Il povero Stefano piangeva come un bambino, e mi strinse il cuore; Garibaldi fu inesorabile, dicendo che non potea permettere a un uomo, privo d’una gamba, d’avventurarsi in una impresa tanto rischiosa. Il generoso zoppo, sceso che fu a terra, rimase lungamente a guardarci, e quando partimmo, agitò per aria il berretto, e gli risposi con egual saluto, e avrei dato non so che cosa per potergli rendere la gamba.
Seppi in seguito, cioè quando lo rividi a Milazzo, che egli non si diè per vinto, ma corse a raggiungere lo Zambianchi e volle avere l’onore del primo fuoco in quell’anno, regalando, nel paese delle Grotte, qualche buon colpo di pistola ai gendarmi del vicario di Gesù.