IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
Era terminata la sinfonia, e s’entrava davvero sul palcoscenico per dar principio al primo atto. Ci inoltravamo, infatti, nel mare aperto, con pericolo grande d’essere scoperti e combattuti dalle crociere nemiche, non potendosi supporre saviamente che la Corte di Napoli ignorasse, a quell’ora, la nostra partenza da Genova e non avesse preso le sue buone cautele per tentar di coglierci lungo il cammino e far di noi giustizia senza carità, avendo per unici testimoni il cielo ed il mare. Furono, dunque, messe le vedette in cima agli alberi, dove s’erano legate, per dar loro un po’ d’agio, certe assicelle; poi si concertarono i segnali notturni tra i due legni, acciò non avvenisse il caso di smarrirsi o di cambiar gli amici per nemici o questi per quelli. Poi, si cominciò a improvvisar fucine, e si fondettero palle, e si diè mano a far cartucce, e si costrussero fornelli coi mattoni per le marmitte del rancio, e a bordo non fu più nessuno che rimanesse ozioso. Era uno spettacolo amenissimo a vedersi. In quella gran baraonda di genere del tutto nuovo, giacché presiedevano ad essa l’ordine e il silenzio. Dico: ordine e silenzio, perché quando ne’ primi momenti del viaggio da Santo Stefano in là, si cominciò ad udire a bordo un po’ di baccano, e non bastò a tenere a segno i chiassoni l’autorità degli ufficiali, Garibaldi si mostrò sul ponte, e salito sulla passarella, tenne una brevissima arringa, la conclusione della quale fu questa:
«Qui sul mio bordo non deve udirsi altra voce che la mia; e il primo che ardisse di disobbedirmi, si prepari ad esser buttato in mare».
Conticuere omnes, direbbe Virgilio Marone, da Mantova. Bastò questo brevissimo squarcio d’eloquenza a metter giudizio a’ più impronti, e il nostro legno parve trasformato in una vera Certosa.
Non così accadde a bordo del Lombardo, dove Nino Bixio dovette, per farsi intendere, ricorrere non di rado alle mani, e spesso si trovò sul punto di far con ragione ciò che quattro mesi dopo fece con suo gran torto nella rada di Paola, sul vapore Elettrico, dove tribbiando col calcio d’una carabina le zucche di certi volontari ungheresi e tedeschi che, in barba al suo divieto, sonnecchiavano distesi in coperta, uno ne mandò al Creatore ed altri tre o quattro li fe’ dolorosi per parecchio tempo.
Certi amici miei che navigavano allora sul Lombardo, mi raccontarono, a suo tempo, parecchi stupendi casi delle furie di Nino Bixio e i brani principali delle sue prediche, una delle quali terminò col seguente mansueto memento: «Rammentatevi, e se non lo sapeste prima d’ora, ve lo dico adesso, che qui a bordo vengo io, prima del Padre Eterno, e voglio essere obbedito a qualunque patto, e saprò farmi obbedire. Quando poi saremo a terra, appiccatemi, se vi sarà possibile, al primo albero che troveremo, ma qui comando io, io, io!...».
Bixio non era Garibaldi, e basta ciò per mettere in sodo che egli fece miracoli, se riescì a farsi obbedire in mezzo alle varie (se non orribili) favelle che gli suonavano intorno, e in mezzo a quegli ardenti spiriti, che l’angustia dello spazio e la novità dell’avventura e la impazienza e cento altre cause rendevano indocili e difficilissimi a tenersi in cristi.
Chi disse essere stato Bixio il secondo dei Mille, non disse bugia.
Sulle ventiquattro, scendemmo giù nel cenacolo del generale per rifocillarci. Le provviste, fatte a Santo Stefano, avevano messo in grado il nostro cuoco di pascolarci assai bene; i fiaschetti di vino nero e le bottiglie di riminese del gonfaloniere Arus e d’un brav’uomo delle vicinanze d’Orbetello, ci resero degni d’invidia a Lucullo.
Non ricordo bene chi cenasse, in quella sera con noi; ma rammento benissimo che Garibaldi, tra un boccone e l’altro, entrò a discorrere del putiferio accaduto a Talamone per causa della bandiera sabauda, e disse ira di Dio contro Mazzini e i suoi ciechi seguaci. E siccome ci fu qualcuno che volle, pulitamente e bene, dargli sulla voce, e’ si alzò d’improvviso e disse (parmi sentirle adesso) queste precise parole:
«Sono io pure repubblicano; ma quando i re sono come Vittorio Emanuele si debbono tollerare».
Nel profferire queste parole, Garibaldi guardò fisso me, che nell’anno innanzi, avevo spesso avuto refe da dipanare con lui, per difendere Mazzini; ma io sostenni impavido il suo sguardo, ed egli (che in quel momento s’era alzato da tavola) passò oltre sorridendo.
Ventisei anni sono scorsi, ma ho tuttora vivo dinanzi agli occhi lo spettacolo della bella e buona compagnia, nella quale il mio destino mi aveva spinto. Cominciando dalla gran palandra nera e dal cappello a cilindro del Sirtori, e andando giù giù sino alle fogge di vestire a uso Ernani, tutti i modelli del figurino, vecchio e nuovo, v’erano rappresentati. Crispi con uno sprónchete stretto stretto, che mostrava le corde; Carini col berretto da viaggio all’inglese e un soprabituccio spelacchiato e corto corto; Calona, vecchio siciliano dai capelli bianchi, con uno sgargiante abito rosso e un gran cappello nero alla Rubens, con una lunga, ondeggiante penna di struzzo. Poi, il canonico Bianchi, mezzo vestito da canonico, e parecchi bei giovani di Lombardia, vestiti all’ultima moda; e uniformi di linea e dei cacciatori delle Alpi e costumi da marinaio e una gran folla di camicie rosse, che formavano, con la loro massa vivace, il fondo del quadro. Tutta questa gente, divisa in crocchi, secondo l’età, le amicizie ed i gusti, ragionava, novellava, specolava l’etra, la marina e il suolo, come fece (se dee credersi al più gran poeta del nostro secolo) Simonide poeta cieco; ma, tratto tratto, il mal di mare assottigliava quei crocchi, perché gente dal muso bianco e dagli occhioni in fuori spariva velocemente o s’accasciava sulle dure tavole del ponte, o s’affacciava per dare al mare ciò che non era del mare.
La moglie del Crispi (di poi non più moglie) vestita in dimessi panni, giuocava a scopa coll’antico parroco Gusmaroli, vecchio dai capelli lunghi e bianchissimi, dal volto rubizzo e dagli occhi di gatto, del quale Garibaldi soleva dire aver veduto rare volte in sua vita uomo più valoroso.
Parrà incredibile, ma pure è vero, che di tutto si parlava, fuori che della faccenda, in quel momento, per noi più seria; una fiducia pienissima e quasi cieca nella buona stella e nella virtù del condottiere facea sì che la più gran parte dei Mille non pensasse ai pericoli di quel viaggio, più che non s’avrebbe dato pensiero d’una corsa a vapore sul lago di Como o d’Iseo.
I vecchi poi, o quelli più maturi per senno e più riflessivi, se parlarono dei tanti casi, belli o brutti, che poteano accadere in quella corsa, ne parlarono tranquillamente e senza esagerare e colorir con troppo lusso di scuri le fantasime, che disegnava su quella gran tela il giudizio. In fin dei conti, voglio far capire a chi legge che, in quei giorni, dovette aver maggiori spine nel cuore chi ci vedea da lungi coll’occhio della trepidazione, che non il più timido e spericolato uomo o ragazzo che fosse a bordo dei due vapori. Tante volte a me ed agli altri più intimi del generale si dimandava: «O dove sbarcheremo?».
Questo era il gran segreto, questo era l’indovinello che tutti avrebbero dovuto sciogliere, massime i siciliani che con noi erano, i quali avevano opinioni assai diverse in proposito dell’opportunità del luogo dello sbarco, e spesso intavolavano questioni lunghe e discretamente noiose.
E per vero, nessuno sapeva il luogo destinato allo sbarco; chi dicea diversamente, dandosi aria di essere informatissimo (come dicono oggi certi gazzettieri) argomentava di propria testa e correa dietro ai farfalloni.
Mi ricordo però d’aver sentito spesso il generale rammentare il porto di Marsala, e il capitano Castiglia assicurargli che quella città era in potere degli insorti siciliani; oltre a ciò avevo veduto tra le molte carte che seco aveva “il nostro babbo” una carta idrografica di quei paraggi. Ma chi poteva asserire che Marsala fosse il luogo precisamente scelto per lo sbarco, e non un dei luoghi da scegliersi fra parecchi altri, secondo l’occasione?
La curiosità era grande, ma nessuno ebbe cuore di muovere a Garibaldi una domanda che potea sembrargli indiscreta e fruttare all’audace interrogante una di quelle risposte a secco, colle quali e’ sapeva spesso tappar la bocca ai temerari ciarloni.
Il capitano Andrea Rossi, nostro timoniere, interrogato da me circa il luogo dello sbarco, mi disse, in quel giorno:
– E come vuoi sapere dove sbarcheremo, se io che sono al timone, non so nemmen dove andiamo?
– E come non lo sai?
– Non lo so davvero. La rotta che mi ha dato il generale, non conduce, per adesso, in Sicilia. Abbiamo la prua sulla Sardegna.
Capii che si voleva fare un giro ben largo e correre il mare per vie disusate, nelle quali fosse agevole lo schivare qualunque incontro importuno.
Allora, argomentando dalla rotta che si faceva, ci fu anche chi pensò essere intendimento di Garibaldi di portarci sulle coste dell’Africa, e quivi stare studiando e aspettando il momento opportuno per avventarsi a golfo lanciato sulla Sicilia.
Insomma, le proposizioni, le ipotesi, i discorsi si succedevano, si affastellavano senza posa; ma tutti, dopo aver lavorato ben bene col cervello e colla lingua, chiudevano il libro dei sogni e guardavano Garibaldi, bello, sereno, raggiante di speranza sublime, e in lui si affidavano, unico nostro faro, unica nostra stella.