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Sorse senza alcun notevole caso la notte, durante la quale, navigarono i due legni con placido mare, vegliando Garibaldi continuamente a tutto, e facendosi spesso a riveder le bucce al timoniere, che aveva il carico di dover capirlo per aria. Qualche volta che il timoniere mostrava di non aver capito a puntino quanto si voleva da lui, Garibaldi dava subito nelle furie e tirava giù co’ rimbrotti, senz’ombra di misericordia.
In quella notte non vedemmo alcun lume. Sorse l’alba e non vedemmo terra né vela. Il Lombardo ci teneva dietro, secondo la forza de’ suoi cavalli, e noi ci fermavamo, di quando in quando, acciò non restasse soverchiamente discosto. Il tempo era quieto, il vento caldo; l’acqua cominciava a venir giù dalle nuvole in sottilissime fila.
Continuò il lavoro delle cartucce; si legarono i cannoni, due per ciascun legno, presso i boccaporti di prua; i capitani facevan l’appello alle compagnie, davano qualche istruzione a quei loro uomini, che riescivano a tenersi in gambe; non sapevamo quando avremmo sbarcato né dove, ma ognun di noi sentiva in sé che il momento di menar le mani non era lontano gran fatto.
Dopo mezzogiorno veniva giù la pioggia tanto lietamente, che fu un piacere a sentirla. Il generale era sceso da basso, dopo aver rinnovato certe sue raccomandazioni al capitano Castiglia. Ad un tratto, mentre stavo chiacchierando con certi scolari dell’università di Padova il generale si affaccia, e mi dice:
Lo trovai tutto ilare in volto. Aveva sul naso gli occhiali, ed un pezzo di foglio in mano.
– Ecco, – cominciò – mi sono accorto che fra tanti poeti che siete, non ce n’è uno che abbia voglia di mettere insieme quattro versi, per cantarli nel primo combattimento che avremo. Si direbbe che le vostre muse patiscano il mal di mare: è toccato dunque a me, – soggiunse – a tirar giù qualche verso; vogliate però compatirmi, perché fui sempre, e sono oggi più che mai, un cattivo poeta.
E mi lesse i seguenti versi, che furono scritti sopra un pezzetto di carta ingiallita e sulla quale, poiché l’ho qui sott’occhio, si scorge una macchia, che può benissimo giudicarsi essere macchia di sangue:
Lo stranier la mia terra calpesta,
Il mio gregge macella – il mio onor
Vuol strapparmi – ma un ferro mi resta
Un acciar per ferirlo nel cuor.
Non sei stanco di giogo, d’oltraggi,
Di codarde lusinghe, d’inganni?
Questa terra – servili e tiranni
Solo porta – ma prodi non più!
Lo stranier, ecc.
La poesia era breve, ma prometteva di continuare.
Come capirà facilmente il lettore, io avevo tutt’altra voglia che quella di mettermi a fare il critico; ma Garibaldi, per buona sorte, non mi pose il caso di dichiarare se i suoi versi mi piacevano o no; perché consegnandomi il foglio, soggiunse subito:
– Io vorrei che a questi versi s’adattasse qualche musica; ma vorrei una musica vivace, buona a mettere il fuoco addosso alla gente, al pari della Marsigliese; in una parola, una musica che desse idea di un attacco alla baionetta...
– Generale, mi piace tanto la musica; – risposi – ma, per mia disgrazia e vostra, l’arte dei capperi non l’ho imparata.
– E che importa? Avrete sentito molte opere, m’immagino; adattate a questi versi la musica di qualche coro guerresco...
Mi provai a cantar que’ versi sull’aria del coro di guerra dell’Ernani, ma al generale non piacque; provai due o tre altre arie ma ebbero la stessa sorte. Allora, pensai un momento, e percorsi colla celerità della folgore tutte le opere che avevo udite negli anni lieti in cui piacciono a tutti la musica e le ragazze, mi parve avere sciolto finalmente il gran nodo; e dissi, tutto allegro:
– Senta, generale, senta se a questi versi andasse bene la musica del coro della Norma, che dice: «Guerra, guerra...».
E spiegato nuovamente il foglio, cominciai a cantare. Garibaldi me lo fe’ ripetere due o tre volte, e si provò anch’egli a cantarlo, e soggiunse:
– Ora tornate su, scegliete gente che abbia buon orecchio e buona voce, insegnatele cotesta musica; e quando vi paia tempo, manderete ad avvisarmi e vi verrò a sentire.
Salito che fui sul ponte, chiamai Enrico Cairoli e tanti altri, e lessi loro le strofe, e dissi che il generale voleva che imparassero a cantarle sull’aria del coro della Norma. In un baleno fu fatto intorno a me un bel cerchio e cominciai a concertare, battendo il tempo, come l’orecchio mi suggeriva. Quell’aria è bellissima e Wagner stesso le faceva tanto di cappello: ma la non è tale che possa imboccarsi lì per lì alle turbe profane da un maestro arciprofano, qual era ed è l’umile scrittore di questi capitoli. Per la qual cosa, per quanto battessi e ribattessi e cercassi tenere in tono e in misura i miei canarini, questi, trasformandosi in aquile, in falchi e in altri simili uccellacci, strillavano e urlavano come spiritati e non c’era modo di richiamarli al segno.
Era un diavoleto, un tumulto di stonazioni tale, da squarciar le orecchie; io avevo perso la pazienza, e cominciavo a sfoderare i moccoli del mio bel paese; più si provava, e più cresceva la cananèa. Il pubblico cominciava a ridere a più non posso, e ci avrebbe fischiati tutti, se non era la paura del generale. Finalmente Giacomo Griziotti da Pavia audacissimo fra tutti e incapace di tener lungamente in briglia l’umor balzano, facendosi a suon di spinte in mezzo a noi, cominciò a cantare ad alta voce La bella Gigogin e tutti i miei coristi e tutto il riverito pubblico a fargli coro, che parve un finimondo.
Durava da qualche istante, e cresceva gloriosamente quel baccano infernale, quando Garibaldi fece capolino.
Corsi subito da lui.
– Che musica è quella? – chiese. – L’avete inventata voi?
– Non io; – risposi – è quel matto di Griziotti, che non vuol sentire il coro della Norma, e manda a rotoli il mio concerto e ci fa fischiare...
– Eh diavolo!... – gridò il generale, e con un gran tonfo, si richiuse dentro.
Mentre a bordo del Piemonte si rideva a più non posso del tremendo fiasco del nuovo inno, il capitano Castiglia s’accorse che il Lombardo era fermo, e dette ordine di fare alto. In quel punto, il Lombardo era distante da noi un paio di miglia e anche più. Furono messi in opera i cannocchiali, e in quattro e quattr’otto vedemmo, con nostra infinita gioia, che quella sosta non dipendeva da alcuna deplorevole ragione. Si trattava di ripigliare un uomo caduto o saltato volontariamente in grembo a Teti; e quell’uomo lo vedemmo riprendere e tirar su; e poco dopo quando il Lombardo si fu avvicinato il portavoce ci disse: «Si tratta di quel matto che già si buttò in mare nel primo giorno del viaggio».
Adesso io debbo rifarmi un gran passo indietro e chieder venia a chi legge se nella furia dello scrivere incappai, non volendo, in una imperdonabile dimenticanza.
Nel giorno stesso in cui eravamo partiti da Genova due o tre ore innanzi notte s’udì a bordo del Piemonte la voce del timoniere che gridò: «Un uomo in mare!». Fermata immediatamente la macchina fu calato giù un canotto e quattro robusti giovani raggiunsero e ripescarono un uomo che tratto a bordo, si riconobbe per un volontario lombardo. Fu detto subito da chi lo conosceva che il disgraziato non aveva il cervello sano, e che già da qualche ora si lagnava di certe visioni che gli balenavano innanzi agli occhi, e diceva voler fuggire e non aver cuore di vedersi tra nemici tanti. Lo portarono sotto coperta, gli fecero vomitare tutta la grande acqua che avea nel buzzo, e fu detto che, appena si toccasse terra, fosse cura dei suoi compagni il pigliarselo a braccetto e farlo chiudere nello spedale. A Talamone, i suoi amici, o conoscenti che fossero, non si rammentarono di lui o non vollero occuparsene, e così avvenne che il matto continuò il viaggio, con la differenza però che invece di tornarsene sul Piemonte, salì sul Lombardo.
Ora, il secondo saggio di mattana che ci dette quel povero fratello nostro, fece mordere le mani al generale ed a tutti, come quello che ci costrinse a perdere parecchio tempo, e per poco non fu causa d’un gravissimo e quasi irreparabile danno, come vedremo tra non molto.
Voglio poi far sapere che il suddetto mattacchione non fu contento di farci due brutti scherzi, ma ci volle regalare anche il terzo, e ce lo regalò nel terzo giorno da che eravamo in Sicilia, dando ragione a tutti coloro che credono sacro e fatale il numero tre e hanno per vangelo il vecchio motto: omne trinum est perfectum.
Ripescato, dunque, per la seconda volta il mattacchione, Garibaldi, avendo necessità di discorrere con Bixio, gli comandò d’avvicinarsi. Mentre costoro favellavano, i due legni correvano tanto vicini l’uno all’altro, che la gente non avvezza a certi ardimenti sull’acqua, non seppe vedere senza spavento la pericolosa vicinanza delle ruote che quasi si toccavano; e molte bocche si dettero a gridare: «Misericordia!».
Cessato il colloquio il Piemonte frustò i cavalli, e il Lombardo ripigliò il suo posto dietro a lui. Dico che il Piemonte frustò i cavalli perché si dee credere che premesse molto al generale di scoprire, innanzi notte, le isolette prossime alla Sicilia ed esplorare, verso quella parte, il mare, pel maggior tratto possibile.
*
* *
Mentre il Piemonte correva a briglia sciolta, senza che paresse rincrescere a Garibaldi che il Lombardo restasse indietro più del solito, una frotta di delfini venne a saltabeccare intorno a noi, con infinita contentezza dei volontari, che, nella massima parte, vedevano per la prima volta quegli strani animali e godevano nel farli bersaglio alle gallette e a quant’altra roba capitasse loro per le mani.
Il generale si divertiva assai nel vedere la gioia di quei curiosi che stavano a bocca aperta a godersi i salti della greggia di Nettuno quando io vedendo il cielo farsi sempre più scuro, e accavallarsi sempre più grossi e torbidi i nuvoloni sull’orizzonte, gli dissi:
Ai marinar coll’arco della schiena
Ché s’argomentin di campar lor legno
– Sì, è vero; – rispose il generale – però Dante questa volta non dà nel segno, perché non è così vicino il cattivo tempo, come voi lo volete. Domani, vedrete che avremo tempo buono.
Intanto, i nuvoloni s’addensavano sempre più folti, e s’avvicinava la notte. Quando cominciò a far buio, il Lombardo era già distante da noi diverse miglia, e il generale, intento a specolare in lontananza, non parve darsene pensiero.
Appena però l’oscurità crescente gli impedì di continuare le sue esplorazioni, si volse per cercare il Lombardo, e si meravigliò che si fosse scostato tanto. Il capitano Castiglia gli disse:
– Ma è un pezzo che il Lombardo non si vede più; e quando Bixio vorrà che lo vediamo ci farà segnale coi lumi.
Garibaldi avea disposto che in quella notte i due legni avrebbero navigato a lumi spenti ed a breve distanza l’uno dall’altro avvertendo altresì che in ogni caso avrebbe servito di segnale un lume che balenasse rapidamente da poppa a prua, e viceversa, per poi scomparire. Tutti gli occhi eran volti verso il punto nel quale era ragionevole supporre che si trovasse il Lombardo, ma il desiderato lume non si vedeva.
Il generale cominciò a parere inquieto, e diè ordine si caricassero i cannoni e si caricassero i fucili che innanzi sera s’erano distribuiti, ed erano, nel maggior numero, fucili vecchi, scavati da’ fondacci dei magazzini, e non ad altro buoni che a servir da manichi alle baionette.
Era un silenzio di tomba. La voce del generale ordinò improvvisamente di fermar la macchina, e restammo fermi un bel tratto in mezzo all’oscurità, quasi completa.
Nessuno osava fiatare. Furono fatti, ripetute volte, col lume i segnali convenuti, ma dalla parte di dove s’aspettava il Lombardo nessun lume si vide, nessun segnale rispose. Si fece fischiar la macchina, si suonò a più riprese la campana, si dette nelle trombe, ma fu lo stesso che suonare e fischiare ai morti.
Fu un momento di terribile ansietà, e non lo ricordo senza sentire qualche brivido per le ossa. Fu quello il solo momento climaterico del nostro viaggio, del resto, lieto e felice; ma guai se quel momento fosse stato più lungo di quel che fu.
Udii Garibaldi dire a Castiglia:
– Non sarà mal fatto virar di bordo. Dove andiamo noi senza il Lombardo?
Mentre il generale così parlava, una immensa massa nera simile al vascello fantasma, passò di volo accanto a noi, e poi si volse e prese a girarci attorno. Si ripeterono i segni convenuti col lume, si fece di nuovo fischiar la macchina, si suonò la campana, ma senza frutto. Quello smisurato fantasma ci avvolgeva, in silenzio, con larghi giri, e sembrava cercare il momento per piombarci addosso. Era quello un legno da guerra napoletano, che ci dava la caccia? Lo sospettammo noi, lo sospettò Garibaldi, il quale temendo che non volesse investire colla prua il fianco del Piemonte, fece mettere in moto la macchina e cominciò a manovrare.
I cannonieri stavano colle micce accese accanto ai pezzi, le carabine eran pronte. Ci aspettavamo, da un istante all’altro, una scarica di mitraglia o un grande urto...
A un tratto, il temuto fantasma scomparve; poteva credersi che si fosse dileguato sulle schiume de’ flutti, o si fosse sprofondato giù nei bruni gorghi per ritrovar le porte dell’inferno; ma non andò guari che riapparve improvviso e ci passò velocemente innanzi alla prua. Garibaldi era muto; non tremava, ma pensava a quello strano giuoco, e mulinava qualche audace partito per rompere l’incantesimo. Ma questa volta, il rimedio venne donde meno si aspettava.
Un livornese, che stava appollaiato sul bompresso, gridò:
Tosto la voce argentina di Bixio ci rispose:
– Ehi?...
Un grido di gioia proruppe a bordo del Piemonte; un lungo: «Viva Garibaldi!» suonò sul Lombardo. Quelle acclamazioni in mezzo al silenzio notturno de’ mari furono veramente solenni.
Cessato il clamore si udì la voce di Garibaldi:
– In Africa! – rispose Bixio. – Vi avevo scambiato per un incrociatore.
– Navigate vicino a me, – soggiunse Garibaldi; e si fe’, di bel nuovo, silenzio.