Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

XV

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XV

 

La buona fortuna d’Italia aveva stornato dai nostri capi una sperpetua tremenda, la quale avrebbe di leggieri sconvolto e mandato irremissibilmente all’aria i sagaci propositi di Garibaldi. Che restava, infatti, a quell’uomo, se mai il Lombardo avesse filato davvero verso l’Africa e si fosse riparato nel porto di Malta, lasciandoci soli e togliendoci il meglio delle forze e della speranza? Ben difficile è davvero il poter dire a qual partito avrebbe dovuto appigliarsi, in quegli estremi, com’è difficilissimo farsi un’idea dei guai che ci sarebbero piovuti addosso.

Navigammo tranquilli tutto il resto della notte, avvicinandoci alle coste africane e precisamente al Capo Bon, a distanza di una trentina di miglia. Non sapemmo dove si andava, e molto meno ci accorgemmo che, dopo aver fatto punta verso il Capo Bon, girammo largo per accostarci dritti dritti alla Sicilia.

L’aurora di quel memorando giorno che fu l’undecimo di maggio, sorse raggiante e serena. Il generale avea ben detto, nel giorno innanzi, che i delfini ci porterebbero buon tempo e non tempesta. Ed io, nel dargli il buongiorno, esclamai:

Generale, avete fatto bugiardi Dante e delfini.

– Così sien bugiardirispose – anche coloro che ci vogliono male.

Alle cinque e mezzo, coll’aiuto del cannocchiale, si distinse chiara l’isoletta che si chiama Maretimo ed è una delle Egadi. Fatto il calcolo della distanza, Garibaldi e Castiglia dissero che ci volevano ancora sei ore e più per giungere alle coste della Sicilia.

Tutti volevano vedere la Sicilia, e tutti aguzzavan gli occhi cercandola nell’estrema linea dell’azzurro orizzonte; ma la Sicilia si faceva desiderare.

Ma anche se la Sicilia fosse comparsa così di buon’ora ai nostri occhi, chi ci diceva che sbarcheremmo in giornata? A buon conto, eravamo a poche ore di distanza dall’isola ma lo stesso Garibaldi non aveva scelto per anche il luogo dello sbarco. Però, egli vide indispensabile il risolversi e chiamò seco a consulta, oltre il capitano Castiglia, i fuorusciti siciliani più autorevoli, facendo loro capire che era prudente il toccar terra più presto che fosse possibile.

Udendo discorrere di uno sbarco immediato, parecchi siciliani autorevoli e spiccioli, rammentarono che quel giorno era giorno di venerdì, e cominciarono a taroccare, lagnandosi che un’impresa tanto audace com’era quella della liberazione dell’isola, s’avesse a inaugurare in un giorno, nel quale è destino che tutte le ciambelle riescano senza buco. Ai siciliani fecero tosto eco diversi napolitani e calabresi, egualmente superstiziosi e taccagni; sicché in un attimo il generale si trovò in mezzo a una folla di piagnoni, che per il bene suo e di tutti lo scongiurarono caldamente, e poco meno che con le lagrime, a guardarsi dalla jettatura del venerdì.

Garibaldi sulle prime sorrise, ma poi vedendo costoro incaponirsi nello sciocco pregiudizio, e venendogli fastidioso quell’assedio, gridò:

– E che venerdì, e non venerdì? Tutti i giorni della settimana son buoni, per chi vuol combattere per una causa giusta!

Udendo queste parole del generale, i piagnoni alzarono gli occhi al cielo, e noialtri che non credevamo nella jettatura, ci mettemmo a ridere a più non posso, e dar la baia ai piagnoni.

Tolto che fu di sulla scena questo comico episodio, fu ripresa la consulta intorno al luogo dello sbarco.

Volevano alcuni che si pigliasse terra nel piccolo porto di Palo verso Menfi e per poco un tale partito non prevalse. Però non appena fu chiarito Garibaldi della bassezza delle acque di quello scalo (asserita dai pratici in onta alle indicazioni delle carte) mutò subito parere; premendogli assai di non mandare a male le sue navi e di mantenerle a galla e rimandarle, appena vuote, verso Genova a pigliar nuovi soccorsi di uomini e d’armi.

Venne allora in ballo Marsala, porto che, per quanto angusto e fatto riempir di rena da don Giovanni d’Austria, dopo la battaglia di Lepanto, offriva approdo sicuro alle navi e comoda sosta agli uomini in una città popolosa e già venuta (come dicevasi) nelle mani degli insorti. Dopo alquanto discutere, Garibaldi fissò che saremmo sbarcati a Marsala e che lo sbarco si farebbe più sollecitamente che si potesse, se pure la crociera borbonica non comparisse improvvisa a frastornare i suoi disegni.

Ci riunimmo in famiglia per la colazione che venne anticipata di quasi due ore, secondo il vecchio ed aureo proverbio che dice: «Chi ha tempo non aspetti tempo». Eravamo a tavola da pochi minuti, quando la vedetta appollaiata sull’albero maestro del nostro legno accennò la terra. Un grido festoso salutò quell’annunzio: fu un abbracciarsi, un agitar di berretti, un’ebrezza indescrivibile. Ben potea dirsi col Tasso:

 

Ecco da mille voci unitamente

Gerusalemme salutar si sente.

 

Il generale, sollecito, lasciò subito la tavola, prese il comando della nave, e fattosi recare un cannocchiale, lungo e grosso quanto un cannone da campagna, si pose a guardare per ogni parte, cercando qualche cosa che nessuno vedeva, ma ch’egli aveva in animo che non dovesse tardar molto a vedersi.

 

*

* *

 

Per il lungo cammino di que’ giorni, non una vela s’era mostrata allo sguardo dei Mille; pareva che il nostro condottiero avesse scelto una via disusata e sola, per giungere più improvviso che potesse alle spiagge di Sicilia.

Passato l’isolotto del Maretimo, vogammo non lungi da Favignana, isola infame nel martirio di tanti patrioti, che furono sepolti nell’ergastolo della sua rocca.

Lassù sta il povero Nicotera, – esclamò Garibaldi, asciugandosi una lacrima.

E Nicotera ebbe a dirci, indi a pochi giorni, d’aver provato un fausto ed indicibile presentimento, osservando di tra le sbarre del carcere i due legni misteriosi.

Oltrepassata Favignana, apparsa bella e ridente la spiaggia di Sicilia, e raggiunto il capo Provvidenza, il capitano Castiglia additò a Garibaldi il porto di Marsala, che biancheggiava da lungi.

Ma un altro spettacolo apparve intanto al vigile sguardo del prode nizzardo. Due legni a vapore ed una grossa fregata a vela ci venivano incontro a golfo lanciato tentando tagliarci fuori dalla costa e pigliarci in mezzo. Ammutolimmo a tal vista ed un lugubre silenzio successe alle esclamazioni di gioia, suscitate dall’aspetto dell’isola vicina. Garibaldi guardò attentamente quei legni; quindi, volgendo l’occhio sul porto di Marsala depose il cannocchiale, esclamando con un allegro sorriso:

Oggi le fregate napoletane rimarranno con tanto di naso.

E vòlto poi al timoniere gridò in dialetto genovese:

Rossi, appoggiate a Marsala!

Era un’ora prima di mezzogiorno. Si gareggiava adesso tra le nostre e le navi borboniche a chi prima toccherebbe il porto. Venti minuti più o meno decidevano della vittoria e dell’unità della patria. Invano, alcuni siciliani proposero al generale di virar di bordo e tentar lo sbarco colà o in altra parte, durante la notte. Egli li respinse con un no! così tondo, che non trovarono più il fiato per parlare.

Aveva seguito la prima ispirazione ed era per lui un augurio certissimo di successo. Non lo avrebbero mosso dal suo proposito tutti i Mille, uniti insieme.

Eravamo tutti sul ponte con le armi in pugno ed impazienti di sentir coi piedi la terra, quando il Castiglia accennò due navi da guerra ancorate presso Marsala. La più lontana fu senza difficoltà conosciuta alla struttura, siccome inglese; l’altra (ché nessuna delle due issavano bandiera) non riuscì poter chiarire a qual nazione appartenesse.

Si sospettò e quasi s’ebbe certezza, potesse essere un legno da guerra borbonico, ancorato a guardia del porto.

Non si perdé d’animo Garibaldi, non ostante che i nostri legni non fossero tali da resistere alle cannonate; ma ordinato si recassero sovra coverta le scuri e i ramponi, si preparava all’arrembaggio, gridando con volto sereno:

– Ebbene! invece di aver due vapori ne avrò tre!

Un lungo evviva fece eco alle animose parole e tosto tutti si disposero secondo i suoi cenni in ordine di battaglia, schierandosi gli ufficiali armati di revolver intorno a lui ed a Giorgio Manin, che spiegava la bandiera, donata dalla città di Valparaiso.

In quel mentre, ci vedemmo vicino ad un brik inglese che, uscito dal porto di Marsala, vogava con buon vento, in direzione opposta alla nostra. Garibaldi, a cui premeva aver notizie sicure sui due legni ancorati, gli mosse incontro col Piemonte e volle quasi rasentarlo passando, per aver agio di cambiar qualche parola col capitano. Era questi un bel giovane biondo con due grandi basette, e vestito d’una bianca camicia se ne stava dolcemente adagiato, fumando sulla poppa. Garibaldi salutò agitando il cappello; l’inglese rispose al saluto.

– Quali legni da guerra sono a Marsala? – gridò in lingua d’Albione un giovane messinese, per commissione avutane da Garibaldi.

Legno inglese, – rispose il capitano, e passò via col suo brick, che filava come un pesce.

La risposta ci lasciava nella stessa incertezza di prima: domandammo di due legni, non ci fu risposto che per un solo.

Era dunque borbonico quell’avviso che stava ancorato in rada, a tre miglia dal porto?... Gli volgemmo addosso la prua, e via a tutta macchina.

 

*

* *

 

La crociera nemica veniva intanto avvicinandosi, e due vapori muovevano alla nostra volta, vogando a tutta furia, seguiti dalla Partenope, tutta coperta di vele e scortata da due altri legni a vapore, uno dei quali la traeva a rimorchio.

– Non potremmo, – saltò su il Castigliaimpadronirci di quel barcone peschereccio che corre verso l’Africa?

– A meraviglia! – rispose Garibaldi, puntando il cannocchiale sopra una grossa paranza, che a tutte vele passava a un miglio forse da noi.

– Sarà buona per lo sbarco, e v’entreranno cinquant’uomini almeno.

Detto fatto. Si chiamò la paranza col portavoce, le si fecero cenni con la bandiera, ma fu come dire al muro.

Allora il Piemonte le si spinse sopra ed in un fiat l’avemmo raggiunta. V’erano a bordo otto uomini, impauriti e mezzo morti, quasi fossero capitati fra le ugne di Kaireddin Barbarossa.

Gridavano pietà e misericordia, e non senza un diluvio di preghiere e di minacce riuscimmo a quietare il piagnisteo e far salire a bordo il padrone. Pareva costui un tonno, tanto era corto e panciuto, ed aveva la faccia di cuor contento. Tratto che fu sul nostro ponte, cominciò il generale ad interrogarlo, ma la paura l’aveva ammutolito, e la voce rompeva in singhiozzi e in miagolamenti, ch’era un vero carnevale a sentirlo. Alla fine, incoraggiato dai molti siciliani, che gli parlavano il latino di casa sua, e fatto capace da un bicchier di buon vino e da laute promesse, rispose ciò che sapeva, cioè che non sapeva nulla, e pareva venisse dal mondo della luna. Era tempo perduto e non ci curammo più di lui, contentissimi d’aver acchiappato un barcone opportuno per lo sbarco, e seguitammo pei fatti nostri.

Le campane di Marsala suonavano il mezzogiorno quando giungemmo vicini ai due legni ancorati che, al nostro apparire, alzarono la bandiera inglese e ci tolsero una spina dal cuore. Non restava adesso che infilare nel porto e mettere a terra la gente prima che si avvicinassero gl’incrociatori nemici, uno dei quali ci seguiva a quattro miglia forse di distanza. Ed era questo lo Stromboli, pirocorvetta della regia marina napoletana.

Garibaldi, chiamato a sé il colonnello Türr, gli impose che non appena sostato in porto il Piemonte, scendesse con le guide e i carabinieri genovesi sul barcone, e pigliata terra, si affacciasse in città, nel mentre che Andrea Rossi, Schiaffino ed altri correrebbero su’ canotti a pigliare le barche dei pescatori e dei bastimenti ancorati.

A Bixio, poi, comandò col portavoce serrasse sotto al Piemonte e seguisse la sua manovra.

Il Piemonte entrò difilato nel porto, rimorchiando la paranzella; e riuscito ad imboccare il canale (unico sito navigabile di quel povero scalo) gittò felicemente l’àncora dirimpetto alla fabbrica di vini dell’Ingham e al consolato inglese, dove sventolava la temuta bandiera dei tre regni. In un batter d’occhio, Türr co’ suoi cinquanta uomini fu a terra, ed occupata la piccola torre del molo, corse alla porta della città, nel mentre che la più parte della gente, congregata per l’arrivo dei due vapori, se la dava a gambe per lo spavento.

Nel tempo istesso, approdavano i canotti e le lance con quanti uomini vi potettero capir dentro, e incontanente si pose mano alle barche dei pescatori e dei legni ancorati per accelerare lo sbarco. Non toccò ugual fortuna al Lombardo, che rimase arenato sulla bocca del porto, e in tal posizione che, per la lontananza, non era così agevole sbarcare con pari sollecitudine la sua gente. Di ciò accortosi Garibaldi si diè a gridare mandassero barche in tutta fretta al legno incagliato, tanto più che uno dei vapori della crociera appariva già quasi a tiro di cannone.

Entrando nel porto, la prima cosa che ci diè nell’occhio si fu uno scappavia che conduceva due ufficiali dei legni da guerra inglesi, e parea si divertissero alla pesca o a bordeggiare con quel bel venticello che spirava.

– Ecco , – esclama Garibaldi – ecco gente che pagherebbero cento sterline per godersi due volte questa scena.

E costoro, infatti, ridevano sgangheratamente, giacché due legni con bandiera sarda e zeppi di uomini armati che si cacciavano in quel porto a tutta furia, non lasciavano, per certo, dubbio alcuno su quanto fosse per accadere.

La presenza delle navi inglesi dinanzi a Marsala, è stata oggetto di varie interpretazioni. Alcuni sostengono essersi trovate non sine quare, e per un accordo segreto tra Cavour e l’ammiraglio Fanshawe. Altri giurano invece che vi furono per motivi affatto diversi e senza veruna valuta intesa.

L’opinione più da seguirsi si è questa: che i due legni inglesi ancorassero presso Marsala per proteggere gl’interessi dei loro connazionali, vessati più volte dalle angherie poliziesche, specialmente nell’ultimo disarmo, eseguito con tanto rigore e senza rispetto per chicchessia. C’è in Marsala una vera e propria colonia inglese, essendosi gl’inglesi (per quella benedetta voglia di non voler far niente, tanto rimproverata a tutti noi) lasciato scappar di mano anche il commercio dei loro vini, che sono i meglio riputati di tutta Italia. Ora è ben ragionevole che quella potenza, e inimicissima ai Borboni, non lasciasse indifeso un dei migliori emporî del suo commercio e sì gran numero dei suoi cittadini, in un momento in cui il governo della sciabola malmenava a chiusocchi l’isola intiera.

Aggiungi, che i due legni inglesi erano ancorati a tanta distanza dal porto ed in tale posizione che non impedirono alla crociera borbonica veruna manovra, né diedero a vedere che volessero mescolarsipunto né poco nelle faccende degli altri. Che gl’inglesi odiassero di gran cuore casa Borbone, e vedessero volentieri, anche per certi loro fini speciali, andare a fascio quell’immanissimo regno, lo concedo, e lo concedono tutti; come pure confesso che costoro, soli fra gli esteri, favorirono apertamente in seguito la spedizione e la rivolta. Ma il prospero esito dello sbarco a Marsala non è dovuto che ad un contrattempo felice, all’ardire del condottiero, e alla inesplicabile indecisione de’ capitani della crociera napoletana.

Una parola mi sia permessa su quanto alcuni sostennero per iscritto o a viso aperto, cioè, che la spedizione dei Mille giunse a buon porto, solo perché l’ammiraglio Persano la vigilò col meglio delle sue forze, per i segreti suggerimenti del conte di Cavour.

Che questi suggerimenti venissero, che Persano sorvegliasse da lungi i due legni di Garibaldi, nessuno vorrà impugnarlo; ma che a questa scorta misteriosa vada debitrice del successo l’impresa, nessuno vorrà concederlo, che abbia fior di senno: sebbene Nicomede Bianchi lo affermi, e questa affermazione gli abbia fruttato una medaglia d’oro e gran nomea di sagacia.

La crociera borbonica non s’aspettò mai che la spedizione venisse giù difilata, con tanto ardimento, da Genova; prova ne sia che al punto in cui comparve Garibaldi sotto Favignana, le navi nemiche correvano verso il canale di Malta, essendo più ragionevole attenderci di , dove quell’isola, soggetta al dominio inglese, poteva servirle di sosta ed anco di rifugio, nella cattiva fortuna.

Era mestieri che la crociera napoletana avesse fatto prova di cogliere la spedizione in alto mare, per supporre ragionevolmente che avesse potuto il Persano farsi scudo ai due legni condotti con tanta buona fortuna ed oculatezza da Garibaldi.

Poca gente ci venne incontro sul porto di Marsala. Quando Türr coi suoi cinquanta toccò la riva, alcuni marsalesi furono pronti a darsela a gambe, come se si fossero avvicinati a loro tanti diavoli; ma non andò guari che diversi giovani, usciti allora allora dalla città, si fecero intorno ai nostri, e Garibaldi disse, nel vederli:

– Meno male! cominciano almeno i marsalesi a saper chi siamo.

In quel punto, io stavo accanto a lui, sulla passerella, e gli reggevo il gran cannocchiale, ch’ei mi chiedeva, di quando in quando, per vedere il fatto suo, cioè per guardare i legni del Borbone, che s’andavano avvicinando sempre più. Mentre egli guardava sul mare, io volsi gli occhi a terra, e non scorgendo segni di rivoluzione, né alcun indizio della padronanza dei famosi insorti, mi accòrsi subito che se Dio e le nostre mani non ci aiutavano, potevamo chiamarci fritti.

Il generale fe’ tosto scendere rapidamente i volontari sulle lance, che in un baleno s’affollavano intorno al Piemonte, e diceva a’ barcaiuoli siciliani:

Andate e tornate subito; avete già guadagnato una buona giornata.

Sbarcati gli uomini, si pensò a mettere giù le artiglierie e le altre robe, cosa che riuscì sollecita, perché eravamo lontani da terra di pochissimo tratto.

Mentre questo accadeva sul Piemonte, Garibaldi cominciò a impensierirsi non mediocremente per il Lombardo, che essendo arenato, come dissi, sull’entrata del porto, era in risico di venir malconcio dalle artiglierie nemiche, prima assai che avesse posto a terra la molta gente che avea a bordo. Perciò non cessava di gridare che mandassero e rimandassero barche al Lombardo, e s’impazientiva se non v’andavano sollecite e nel numero che avrebbe voluto.

Un vapore napoletano era vicinissimo al Lombardo. Guardando col cannocchiale, distinsi i cannonieri che puntavano il pezzo di prua, e distinsi gli ufficiali che ci guardavano com’io guardavo loro.

Generale, – dissi – o non sarebbe bene che scendeste giù?

– E perché dovrei scendere?

– Perché su quel vapore vedo puntare un cannone, e se que’ cani mirano diritto...

Lasciate che facciano, – rispose sorridendo il generale. – Anche se tirano, non ci colgono.

Eravamo allora ritti ambedue sul tamburo della ruota sinistra del Piemonte, e per non vederci i napoletani avrebbero dovuto essere ciechi.

Io tremavo per il Lombardo, e anche Garibaldi stava sulle spine. Gli stessi ufficiali inglesi, che si godettero lo spettacolo del nostro sbarco, scrissero di poi che i napoletani avrebbero potuto spazzare agevolmente il ponte del Lombardo, se si fossero risoluti a tirare, e tirar subito.

Il legno nemico mise in mare una scialuppa; la scialuppa vogò, per tre o quattro minuti, verso noi; ma tosto mutò parere e viaggio, e andossene verso le maggiori delle navi inglesi, ancorate a poca distanza. Guardavo e riferivo a Garibaldi tutto quel che vedevo, non senza aspettare da un momento all’altro una gran cannonata, che portasse in aria il tamburo della ruota, il duce dei Mille, e me, poveretto, che scrivo adesso questi ricordi.

Bixio facea scendere rapidamente i suoi uomini e ne caricava le barche; dal vapore nemico stavano intenti a guardare, e si sarebbe detto che non avean polvere.

Quando Garibaldi vide scaricato completamente e felicemente il Lombardo, esclamò:

Va bene!

Quindi, scese giù dal tamburo e disse a me, ad Andrea Rossi ed al capitano Castiglia:

Montiamo su quella lancia.

Una lancia stava aspettando con due marinai, a piè della scaletta. Montati che fummo, i marinai vogarono verso terra; ma avevamo percorsi pochi metri, quando il generale s’alzò, e battendosi colla mano la fronte disse:

– M’ero scordato il meglio. Torniamo sul Piemonte.

Con quattro o sei remate, fummo sotto il Piemonte; montammo.

Non indovinai quale scopo potesse avere quella tornata. Garibaldi scese sotto coperta, e vidi che, aiutato dai due compagni, aperse i rubinetti della macchina. Ciò fatto, tornammo sulla barca; e Garibaldi gridò:

– Al Lombardo!

Andammo verso il Lombardo, che era vicinissimo alla corvetta napoletana, e mi parve che andassimo proprio in bocca al lupo. E dicevo tra me: «O quest’uomo si crede fatato, o vuol morire innanzi sera».

Salì Garibaldi sul Lombardo con Rossi e Castiglia, dicendo a me:

– Voi non siete del mestiere, aspettateci.

Aspettai in barca, e agguantai un remo.

Dopo alcuni istanti, tornò il generale coi due compagni e con Augusto Elia, che era rimasto ancora sul Lombardo.

– A terra! – ordinò Garibaldi.

Vogammo con quanta se ne aveva nelle braccia.

Peccatodiceva Augusto Elia. – I nostri vapori son perduti.

Perdiamo due carcasse rispose Garibaldi – e prendiamo la Sicilia. Chi ci perde in questo baratto?

M’accòrsi che i due vapori non s’erano sprofondati gran che; il Piemonte era colato giù, ma non tanto quanto avremmo voluto noi, per impedire che i borbonici ce lo portassero via; il Lombardo, che aveva la chiglia già confitta per metà della lunghezza nella sabbia, si sommerse un po’ a poppa, e si piegò sul fianco.

Intanto, eravamo giunti al piccolo molo che chiude il porto di Marsala, e dove sorge una torre. I Mille stavano schierati in bell’ordine, mentre Türr co’ suoi cinquanta correva, esplorando per la città.

Appena il generale pose piede a terra, Giorgio Manin spiegò la bandiera. Un lungo grido di gioia accolse l’audace e fortunato condottiero, il quale, come ci ebbe confortati a procedere ordinati e con passo tranquillo, avvertendo che gl’inglesi ci guardavano, si avviò lentamente sul molo, appoggiando sulla spalla destra la sciabola, impugnata dalla parte della punta, e colla cintola penzoloni.

Intanto, un altro legno borbonico a vapore era giunto a mezzo tiro dal molo; un altro s’avvicinava a tutta corsa, rimorchiando la grossa e panciuta Partenope. Avevamo fissi gli occhi su que’ visitatori pericolosi, e non sapevamo che cosa pensare del loro inesplicabile silenzio, quando, a un tratto, dalla prua del più vicino sfolgorò un lampo, e bum! una gran botta, e una granata passò ronzando sulla testa del generale, e cadde, lontano pochi passi. Un gran: «Viva l’Italiarispose da cento e cento bocche a quel primo segno di battaglia; e un volontario, fattosi sulla granata, la prese in mano e la recò al generale dicendo:

– Ho l’onore di presentarle il primo fuoco.

Tosto a quel primo colpo ne seguì un secondo, e poi un terzo; e non andò molto che i colpi divennero innumerevoli, aggiungendovisi quelli della Partenope che lanciò intiere bordate.

Come Dio volle, tutti que’ tiri caddero a vuoto, sia perché le granate, vecchie e guaste, raramente scoppiavano, sia perché difficile era l’assestarli da’ legni ondeggianti, su quella spiaggia, bassa e quasi a livello dell’acqua.

Procedevamo a quattro a quattro e cantando, quand’ecco una bòtta di mitraglia flagellar le onde, a cinquanta braccia forse dal generale.

Questi veduto il pericolo gridò:

Sparpagliatevi tutti!

Ubbidimmo. Giunti che fummo su d’una vasta spianata (che è opera delle arene che affluiscono in quel porto) la tempesta delle palle divenne così fitta, che il generale ordinò più volte:

Ventre a terra!

Grosse bombe frullavano per l’aria e rimbalzavano per terra, scoppiando poi con indicibile frastuono. Una di queste bombe cadde presso a noi, in una gran pozzanghera, e quivi si spense irrorandoci di spruzzi. Un’altra scoppiò non lungi dalla porta, e uccise un cane, vittima unica e innocentissima di quel giorno memorabile.

Eravamo sempre lontani dalla porta della città, quando Garibaldi mi disse:

– Voi andate subito a cercare il console sardo, e ditegli in mio nome che dichiari proprietà nazionale i nostri due vapori, e convochi il corpo consolare.

Mi parve di non aver capito bene, e aprivo bocca per pregarlo che mi spiegasse; ma egli mi prevenne col dirmi:

– Sì, dite al console che se i borbonici pigliano o tentano pigliare i due vapori, protesti, e facciaappoggiare” la sua protesta dagli altri consoli.

Trovai la pretesa un po’ singolare, ma non era quello il tempo di discutere.

Mentre cercavo qualcuno che mi guidasse in città, comparve solo, in mezzo al rombo delle granate e delle bombe, un frate; era un fratone vecchio, ma ben pasciuto e ben portante, che col cappello in mano ci venne incontro, e ci diè i benvenuti.

Qualche voce gridò:

– Che vieni tu a rompere gli zebedei, o frate? Accidenti ai frati!...

Ma Garibaldi alzò la mano per imporre silenzio, e disse:

Fratino, che cercate voi? Non sentite come fischiano queste palle?...

E il frate a lui:

– Le palle non mi fanno paura; sono servo di San Francesco poverello e sono figlio d’Italia.

– Siete, dunque, col popolo? – domandò il generale.

– Col popolo, col popolorispose il frate.

Mi parve aver trovato il fatto mio.

Dove sta – dimandai – il console sardo?

Il frate mi disse il nome di una certa strada, ma era lo stesso che portarmi di peso sulla porta della città di Siviglia, e dirmi: «Vanne e troverai il numero quindici, a mano manca... dove ha la sua bottega Figaro».

Era capitato, in quel punto, un giovine marsalese, che, fatto capace del caso mio, s’offerse di condurmi dove cercavo esser condotto; e toltomi a braccetto, mi mostrò un lungo viale, che, se ben ricordo, era fiancheggiato da grossi alberi. In fondo a quel viale, c’era una delle porte della città, e non lungi da quella porta, la casa del console sardo, che si chiamava don Gennaro, o Raffaele, Lipari.

Mentre, dunque, Garibaldi s’avviava per entrare in Marsala per la porta che s’apre in faccia alla marina, io dovea entrarvi per la porta che guarda la terra, dal lato di levante.

Lo stradone era diritto e non facea gomito, se non un pezzo innanzi. Appena fui incamminato sullo stradone, cominciarono le granate a fischiarmi agli orecchi e a rimbalzare vicino a me, in tanta abbondanza, da farmi credere che non senza un gran miracolo del mio santo, sarei giunto sano e salvo alla casa dell’onorevole viceconsole di S. M. il re di Sardegna in Marsala.

Il mio giovane compagno, del quale rincresce aver dimenticato il nome, pareva un eroe; e, senza darsi ombra di pensiero, mi domandava di Cavour, del re Vittorio, di Solferino e di Magenta, e mi chiedeva se quello che avea veduto parlar col frate fosse veramente Garibaldi. E poi, tratti dalle tasche alcuni fogli, pigliò a leggermi una certa poesia, perché argomentassi da quella che cuor d’italiano si fosse il suo.

 

 


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