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Appena fui entrato in città, qualche curioso mi si fe’ incontro, che udendomi gridare: «Viva l’Italia!» ed acclamare Vittorio Emanuele, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca, e poi tirò di lungo. Le strade eran quasi deserte; finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana.
Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano, e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città per mio diporto ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente còlta così per sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno.
Il mio compagno, giunti che fummo dinanzi a un gran casone, mi disse:
E soggiungendo che avea fretta d’andarsene presso la sua famiglia, per non tenerla in pena tanto a lungo, s’accomiatò da me, assicurando che lo avrei riveduto tra non molto, e che sarebbe stato con noi per la vita e per la morte.
Rimasto solo dinanzi alla casa, alzai gli occhi e vidi lo stemma reale di Sardegna e accanto a quello un altro stemma, che non mi curai di conoscere se della China o della Turchia o di qualche stato europeo. Entrai, dunque nel cortile, e fattomisi innanzi un ragazzo, che mi guardava con una cert’aria tra la meraviglia e la paura, gli dissi:
– Dov’è il console?
Il ragazzo accennò col dito verso la parte sinistra del cortile, e fuggì.
In quel punto un uomo comparve in cima ad una scala, che scendea giù ripida quanto quella di Giacobbe, e quell’uomo era vestito con una uniforme, la quale, unita ad un bel cappello a lucerna, che gli copriva il capo, giudicai essere, né più né meno, che l’uniforme d’un console.
Credetti aver trovato il fatto mio, e gridai:
– Signor console, ben trovato... Cercavo lei, e lei mi viene incontro.
Il supposto console sardo scese a salti la scala, e salutandomi con infinita garbatezza, mi porse la mano. Gliela strinsi di tutto cuore; ma senza rispondere ai gran complimenti che mi faceva, entrai subito nell’argomento che mi premeva, e dissi:
– Signor console, io sono un ufficiale del generale Garibaldi; ella deve sapere che il detto generale è sbarcato qui in Marsala per ordine e comandamento di re Vittorio Emanuele, a far la guerra al Borbone e a liberare la Sicilia.
Sua signoria mi dette una nuova stretta di mano, e fece colla testa un segno, il quale parve volesse dirmi: «So tutto, e non mi narrate cose nuove».
Mi sentii consolare. Non eravamo, dunque, sbarcati in Marsala a casaccio; il console di S. M. Sarda era stato avvertito del nostro arrivo, e forse aveva disposto qualche cosa per darci, all’occorrenza, un tantin di rincalzo. Questo pensiero mi rincorò tutto, e poco stette ch’io non baciassi sulle gote quella fenice di console, che era un omacciotto su’ quarantacinque anni, né alto, né basso, ma grosso e panciuto come un carnevale, e con una testa che pareva un cocomero, e con un sorriso sulle labbra che non si sarebbe scambiato tanto facilmente per quello d’un uomo furbo. Più lo guardavo e più mi parea aver dinanzi il Sindaco Babbeo; e se non era la troppa ciccia che teneva indosso, gli avrei chiesto volentieri se avevo l’onore di discorrere col console di S. M. Sarda o pure col celebre caratterista Taddei, venuto a bella posta in Marsala per farmi prendere un qui pro quo.
Comunque fosse, io non avevo tempo da perdere, né voglia di dilungarmi in discorsi; sicché, tagliando corto, lo pigliai sottobraccio e mi avviai seco verso la porta di strada, dicendo:
– Bravo il nostro console! Or dunque venga fuori e si metta in giro e convochi tutti i consoli delle potenze, i quali si trovano in Marsala, e invochi la loro assistenza per far sì che i due nostri vapori vengano rispettati dalla squadra borbonica.
La pretesa era un tantino esorbitante, ma io non avevo facoltà di discuterla, né di lasciare che il console la discutesse. Per la qual cosa, quando lo vidi inarcar le ciglia e levare al cielo le braccia come se s’avesse udito comandare di volar in cielo senz’ali, gli gridai:
– Eh via! Avreste paura di farvi vivo, mentre la vostra qualità di console vi rende inviolabile più del papa e invulnerabile più d’Achille? Venite con me, e badate bene, perché con Garibaldi non si scherza.
– Aspettate, aspettate un momento – disse il malcapitato. – Pensate bene che qui in Marsala non è facile il riunire i consoli così su due piedi, perché uno sta a ponente e l’altro a levante; e poi, e... poi, io sono console d’una potenza di second’ordine, e ci vorrebbe, ci vorrebbe...
– Che discorsi son questi? – interruppi. – Andiamo via, e se avete qualche ragione, la direte a Garibaldi. Egli vuol vedervi subito, e io debbo condurvi da lui. Venite colle buone, o per la croce di Dio...
Eravamo in un piccolo cortile. Caso volle che, mentre io parlavo in quella guisa, passasse fischiando, molto alta però, sul nostro capo, una maledetta granata.
Il console dette un urlo, che parve d’uno spiritato; e a quell’urlo, accorse la moglie (una mora con due occhi in fronte che bucavano senza punte) la quale, gridando come un’aquila, m’avvinse colle braccia accusandomi che volessi ammazzare il marito suo.
Non sapevo come svincolarmi dalle strette della indiavolata, senza sbatacchiarla nel muro, e far cosa che avrebbe ripugnato a qualunque galantuomo; laonde, mi raumiliai tutto, e feci la bocca ridente, e chiesi alla madre Siena i più soavi accenti, per far persuasa la consolessa che non ero un turco, né un tartaro, né avevo voglia di succhiare il sangue o calpestare il cadavere del marito suo.
Mentre il console si spassionava e la moglie mi andava sballottando per la corte, eccoti tre o quattro figliuoli, e due o tre donne, a rinforzare la musica. Credevo davvero che mi si volesse ammazzare con gli urli; e vuotato il sacco delle buone parole e delle persuasioni, mi liberai con una vigorosa stretta, e sentito che mi ebbi libero, dissi al console:
– Insomma, volete venir con me, o non volete? Ve lo chiedo per l’ultima volta, e vi dico che, disobbedendo al generale Garibaldi, farete cosa della quale avrete a pentirvi più assai che di tutti i vostri peccati.
Vedendo che dicevo da senno e facevo atto d’andarmene adirato, mosse qualche passo verso di me, guardandomi con certi occhi che accennavano una gran voglia di smezzarsi in due; ma la moglie, i figliuoli e le figliuole gli furono addosso precipitevolissimevolmente, e lo vollero tutto loro e lo trassero a volo in casa e chiusero a gran furia la porta.
Che potevo io fare? Escii e ripigliai soletto la strada già fatta per tornarmene al porto. Appena infilato il solito stradone, i napoletani che forse stavano co’ cannocchiali puntati mi salutarono con dieci o dodici granate, di taluna delle quali sentii il vento.
Sul porto cercai invano il generale, ma vidi parecchi dei nostri uomini, che caricavano su’ barrocci le munizioni ed altri che tentavano tirare dentro la porta della città le artiglierie.
I primi adempirono felicemente il loro compito; i secondi frastornati dalle cannonate che tirava la Partenope, dovettero lasciare le artiglierie dietro certi mucchi di terra, che erano lungo la marina, e tornarsene a mani vuote.
Passando allora dinanzi a certe case, notai che vi si erano appostati dentro i carabinieri genovesi, e mi fermai a parlare con loro. In quel tempo giunse un inglese della fabbrica dei vini d’Ingham, il quale ci disse:
– Il nostro console ha mandato il cancelliere a bordo della fregata napoletana, per dire che non tirino vicino alla bandiera di S. M. Britannica.
I napoletani avevano avuta l’audacia di far volare qualche granata sei o sette metri al di sopra dei tegoli del tetto della fabbrica Ingham su cui era inalberata la bandiera britannica.
Entrato che fui in città chiesi di Garibaldi. Mi dissero che era nel palazzo del municipio, e due poveri mi vi condussero. Gli resi conto della mia infelice missione al console di S. M. Sarda, e conclusi giurando che con un console di quella risma non si sarebbe tolto un grillo dal buco, neanche nel giorno dell’Ascensione, che è festa solenne pe’ grilli fiorentini.
Udendo questo, Garibaldi si turbò forte, e, tutto adirato, esclamò:
– Tornate da lui, e fate che venga qua colle buone o colle cattive!
Udite queste parole, che non comportavano replica, feci cenno a tre o quattro de’ nostri, dicendo:
– Venite meco per eseguire gli ordini del generale.
Non se lo fecero dire due volte; e in loro compagnia mi accinsi a fare una nuova visita al console.
Giungemmo in quattro salti alla solita casa, dove avevo lasciato il supposto console sardo.
Questa volta, invece di ritrovarci il mio uomo, trovai in mezzo del cortile un signore di mezz’età, asciutto e bassotto della persona, e col giudizio dipinto sul viso, il quale mi venne incontro chiedendomi se cercassi il console sardo.
– Lo cercavo davvero – risposi – e questa volta non mi scappa, perché queste son funi...
Lo sconosciuto sorrise, e disse:
– Ma, signor ufficiale, guardate bene: il console sardo sono io, io Gennaro Lipari...
– Oh bella!... quanti consoli sardi ci sono in Marsala! – esclamai, tutto sorpreso.
Ce n’è uno, e quell’uno son io... Ho saputo che poc’anzi foste qui, e che invece di discorrere col console sardo, parlaste col console del ***.
– Davvero?
– Sull’onor mio. Don Raffaele, console di *** – soggiunse ridendo il vero console sardo – abita qui al primo piano, e vi era venuto incontro per semplice curiosità, ed anche per darsi importanza... Il poveretto dev’essere mezzo morto dalla paura... è un bell’originale, sapete, quel nostro don Raffaele; ma spero che questo caso che gli è capitato, gli leverà per un pezzo la smania di star sempre coll’uniforme indosso e di voler chiacchierare con tutti.
Rimasi come quello; e mentre cercavo di rimettermi in palla per ragionare col vero console e intendermi seco su ciò che andava fatto, ecco comparire il colonnello Türr.
Quel bravuomo del generale, sempre buono, sempre alieno da qualunque atto, che potesse sapere di soperchieria, pentito d’avermi detto che gli conducessi il console sardo colle buone o colle cattive, e convinto che avrei saputo obbedirlo puntualmente, avea mandato Türr a tenermi le mani e a menare il buon per la pace.
– Dov’è – disse il colonnello – dov’è questo signor console, che non vuol escir di casa, quando sventola nel porto di Marsala la bandiera sarda?
Il signor Lipari si fece innanzi per spiegare il mio granciporro, ma non gliene lasciai il tempo, e dissi subito:
– Colonnello, le funi eran buone per il falso console; ma per quello vero non ce n’è bisogno.
Türr rise dell’accaduto, e accompagnatosi col signor Lipari, si avviò per raggiungere Garibaldi, il quale seppe più tardi che il console sardo in Marsala era in cattivissimo odore presso la polizia borbonica, e che, pochi giorni innanzi, era stato anche in procinto d’esser preso dai birri e messo in gattabuia, come sospetto d’aver avuto relazioni amichevoli cogl’insorti e di aver incoraggiato qualche dimostrazione liberale. Perciò, fu deciso di lasciare in pace il corpo consolare e non si pensò più a dichiarare proprietà nazionale sarda i due nostri vapori, che stavano, soli ed inermi, nel porto ad aspettare chi li pigliasse.
*
* *
Marsala, come avvertii poco sopra, era quasi deserta. Mentre però c’incamminammo verso il castello, un centinaio di persone ci fu d’intorno, pregandoci si mostrasse loro Garibaldi. Lo mostravamo a dito, ed egli si volgea loro e salutava con grande affabilità; ma quella gente scuoteva il capo e ci diceva, in sua africanissima favella: «Come? è quello Garibaldi?... Oh! non lo crediamo! non può essere!».
Era inutile confondersi: non poteva entrare in quelle zucche che un uomo senza giubba lunga, senz’oro in dosso, senza un gran cappel piumato sulla testa e senza croci né cordoni, potesse essere l’uomo famoso, il cui nome s’andava ripetendo in prosa e in musica da un capo all’altro della terra.
Il castello, dove era una specie d’ergastolo, e dov’era anche l’ufficio del telegrafo, non aveva più guardiani. I guardiani se l’erano data a gambe, portando via le chiavi; laonde, quando giungemmo, ci fu necessario aspettare che con alti picchi de’ mazzapicchi (come direbbe il Redi) si scassinasse la porta. Mentre i mazzapicchi facevano sul duro rovere l’opera loro, una voce lamentevole si fece udire da una finestra guarnita di grosse sbarre, nel fondo oscuro della quale si disegnava la testa
d’un vecchio bianco per antico pelo,
che, riconosciuto tra noi il palermitano Oddo, diceva:
– Signor Oddo, si rammenti di me; già da undici anni son chiuso in questo carcere... Rammentate che fummo buoni amici e compagni, e che ho tribolato tanto per amor della libertà.
– Poveretto! – fece Garibaldi. – Abbiate un po’ pazienza, e sarò da voi.
Il vecchio sporse le mani di tra le inferriate e gridò:
– Benedetto voi, chiunque siate, Dio vi dia la gloria d’abbattere questi infami tiranni!
E io dissi subito:
– Vecchio, l’uomo che t’ha parlato è Giuseppe Garibaldi!
L’infelice allungò ancora le braccia, e aperse bocca, ma dalla sua bocca non escì che un suono inarticolato, e si tacque.
Allora, Garibaldi comandò ad Oddo che dimandasse a quell’uomo se potea dirci quanta gente e quale fosse rimasta nel castello.
Il prigioniero rispose che i guardiani e i gendarmi erano fuggiti tutti verso Trapani, e nel castello scontavano la pena alquanti galeotti. E soggiunse poi che tra quei galeotti pochi eran quelli che penavano per causa politica, e il maggior numero erano malandrini matricolati.
Mettendo il piede nell’interno del castello, dovemmo rompere ben anco la porta della stanza del custode, per aver le chiavi dell’ergastolo. Avute le chiavi, salimmo su di una terrazza, di dove ci affacciammo sul cortile, pieno di galeotti. Questi, veduto che ci ebbero, cominciarono a gridare a squarciagola: «Viva l’Italia, viva la libertà!»; ma il generale, imposto silenzio con un cenno, dichiarò non essere venuto in Sicilia per sferrare i bricconi, perciò s’acquietassero e rigassero diritto, e lasciassero i santi nomi della patria e della libertà alle bocche pulite.
Intanto, Guglielmo Cenni aveva preso i registri, e avendo chiarito che soli quattordici erano i detenuti per odio della tirannia, questi furono tolti dal branco e tratti fuori a respirare coi galantuomini.
Il bel vecchione, che era condannato a vita, condotto all’aria aperta, cadde svenuto, e ci volle il medico per richiamarlo in sentimento.
Richiuso ben bene l’ergastolo e messavi buona guardia salimmo sul maschio dove era il telegrafo a braccia, che avea accennato alla squadra, che navigava nel canale di Malta, l’avvicinarsi di due vapori sospetti, dal lato di ponente. I custodi, dopo aver fatto quel segnale, avean rovesciato il telegrafo ed eran fuggiti insieme coi birri. Da quell’altura, Garibaldi specolò per ampio tratto il paese designando in primis il luogo per gli avamposti, essendo prudente non solo, ma indispensabile per noi, il guardarci da qualunque inopinato assalto, così per mare come per terra, non ignorandosi che il presidio della vicina Trapani era forte di mille uomini e più.
Quindi, ei si recò all’ufficio del telegrafo elettrico, e il Pentasuglia, futuro direttore generale dei telegrafi in Sicilia, scambiò qualche motto cogl’impiegati dell’ufficio di Palermo. Questi, per qualche tempo (brevissimo tempo) credettero aver che fare con gli impiegati veri dell’ufficio di Marsala, che non avevano avuto neanche la degnazione di telegrafare: «Fuggiamo via»; ma fatti accorti ben presto dell’inganno, piantarono in asso il Pentasuglia e si tacquero.
Il generale rise della burla, e ordinò che si tagliassero i fili.
Nel rientrare in Marsala, c’imbattemmo nel colonnello Sirtori, il quale avvertì il generale che le compagnie di Cairoli e di Bixio si andavano già distendendo sulla linea degli avamposti, e che il porto era guardato tuttavia dai carabinieri genovesi. Ma non era a sperarsi che i trenta o trentadue bravi giovinetti (quanti erano allora) fossero da tanto da impedire uno sbarco da’ legni borbonici, che si credeva imminente, e da far sì che si astenessero i comandanti di quei legni dal rubarci i vapori e i cannoni, rimasti dove erano stati lasciati quattro ore innanzi.
Garibaldi nel sentir che i cannoni correvano pericolo d’esser presi, non lasciò a Sirtori campo di perorare più lungamente, e si avviò verso il porto, seguito da me e da altri pochi, che in tutti non fummo venti.
Le navi borboniche non s’erano state dal tirare, ogni tratto, qualche cannonata, non so se per levarci la voglia (se l’avevamo) di tornar sul porto, o per invitarci ad andarcene via da Marsala al più presto possibile, dichiarandoci co’ tonfi esser quello un malo albergo e non potervici dimorare senza star di continuo all’erta e con tanto d’occhi aperti.
Appena ci affacciammo fuori della porta, le cannonate, di rare che erano, divennero così fitte, da parerci peccato che si mettesse in sì gran rischio il generale, mentre noi soli potevamo avvicinarci alle artiglierie, e trascinarle (se i cannoni nemici lo concedessero) sin dentro le mura della città. Perciò lo pregammo che tornasse indietro, ma e’ rispose, secco secco:
– Non v’incaricate di me; pensate invece a non star qui, tutti in un monte.
Ci dividemmo in brigatelle di tre o quattro, ed io non mi scostai dalle sue calcagna.
Fatti appena pochi passi, una granata rimbalzò così vicina a lui, che tutti ci guardammo in faccia, muti, atterriti, quasi volessimo dire: «Che farem noi, se quest’uomo ci muore?».
Garibaldi s’accorse di quel che volevamo dirci, e sorrise.
Intanto le palle ci mugghiavano agli orecchi, sempre con maggior furia e in maggior quantità. Io tolsi Sirtori in disparte e lo scongiurai che pregasse il generale a pensare a noi se non voleva pensare a se stesso, e non gli paresse duro il mettersi un po’ al riparo da quella bufera infernale, mentre noi daremmo opera a mettergli in salvo i cannoni.
Sirtori fu uomo al quale non si levavano di bocca le parole, neanche col cavatappi: mi rispose con un cenno del capo, facendomi intendere che io aveva centomila ragioni, e s’avvicinò al generale, per dirgli colla bocca o co’ cenni il fatto suo.
In quel momento, un’altra granata picchiò in terra ed esplose a pochi passi da noi. Garibaldi era rimasto ritto, aspettando tranquillamente lo scoppio, come se avesse in animo d’essere invulnerabile.
Eravamo vicini di poche braccia ad un ammasso di terra, che si sarebbe preso per una trincea. Io dissi a Türr:
– Colonnello, noi avremo sull’anima la vita di quell’eroe, e saremo i più dolorosi uomini di questo mondo.
E senza dar tempo a Türr che mi rispondesse, mi feci accanto a Garibaldi e dissi:
– Generale, faccia il sacrifizio d’accostarsi a quel riparo... Pensi a noi, se non vuol pensare per sé...
Garibaldi mi dette una grande occhiataccia, ma poi si fece anch’egli dietro il riparo, tenendo però sempre alta la testa e sollevata così, da vedere i fatti suoi, e da non perder d’occhio ciò che accadeva nel mare.
E fu veramente un miracolo che Garibaldi facesse quel sacrifizio, non tanto lieve per quell’audace natura d’uomo, che al disprezzo della vita accoppiava una meravigliosa fiducia nella sua stella e quasi parea essere certo che la palla che dovea coglierlo non dovesse ancora esser fusa. Dico che fu un miracolo, perché, proprio in quel punto, una grandine di palle, lanciate dalla Partenope, ci passò sul capo.
I legni borbonici non stavano sulle àncore, ma volteggiavano in vicinanza della spiaggia, cercando evidentemente di disporsi in tal maniera da proteggere contro ogni assalto quattro grosse barche, cariche di soldati, che vogavano verso il porto. A quella vista, Garibaldi, fece atto di levarsi in piedi, ma Türr e Sirtori lo trattennero.
Allora, ei gridò:
– Per Dio, non c’è tempo da perdere, salvate i cannoni, o ce li pigliano!
Poi soggiunse:
– Via, Bandi, voi che siete il più grosso, date il buon esempio.
Saltai su come una molla, e schizzai fuori del riparo. Gli altri, meno Sirtori e Türr, vennero tosto meco, e cominciammo a trascinare i cannoni, alle cui carrette stavano avvolte le corde, che avean servito ad assicurarli a bordo, perché il dondolio non li scostasse dai boccaporti.
Era meco, a trascinare la colubrina di Orbetello, Giacomo Griziotti, già ufficiale di artiglieria ne’ cacciatori delle Alpi, del quale ebbi a parlare poco sopra, come il lettore rammenterà. Costui vedendo già vicinissima una barca, carica di borbonici, che precedeva le altre, mi disse:
– Che ti pare? Tiriamo a quei ladri una cannonnata?
– Tiriamola.
Griziotti pigliò una miccia e l’accese mentre i due altri compagni nostri, deposte le funi, puntavano la colubrina, ed io li aiutavo. C’era il caso di veder la barca andare alle ballodole con tutto il suo poco reverendo carico, e mi pareva avere il papa in tasca. Ma avevamo fatto i conti senza l’oste, perché Garibaldi, veduto quel che da noi si almanaccava, gridò:
– Griziotti, Bandi! Siete matti? Volete veder bombardata la città?
Mettemmo subito la coda tra le gambe e ripigliammo il nostro traino, ridendo a più non posso.
Mentre correvamo colle funi tese sulle spalle, capitò a tutta corsa un carabiniere genovese, che, scorto Garibaldi, gli disse da lontano:
– Antonio Mosto vuol sapere se può aprire il fuoco.
– Per Dio! – rispose Garibaldi – dite a Mosto che gli ordino di non lasciar tirare una fucilata.
E quasi non gli bastasse aver dato quell’ordine ad alta e chiara voce, mandò subito Türr alle case che avevamo in faccia, perché tenesse le mani a Mosto e a’ suoi impazienti compagni.
Mentre questo accadeva, le quattro barche entravano nel porto, e le fregate cessarono di tirare. I soldati borbonici gridavano urrà! come se muovessero all’assalto, e credevano acchiappar la luna, mettendo le ugne su quei poveri vapori del Rubattino, mezzo sprofondati e senza difesa.
Giunte che furono le barche ai nostri legni, i soldati montarono su, vociando come tanti turchi, e calaron giù la bandiera del Lombardo, che sventolava ancora, e spiegarono da trionfatori il loro borbonico cencio bianco. Poi si dettero a rubacchiare e a sgocciolar bottiglie, gridando sempre, come se avesser preso d’assalto la torre di Malakoff. Quindi tornati sulle barche, pigliarono a rimorchio il Piemonte, affondato soltanto di pochi piedi, e lo trassero fuori dal porto, lasciando in pace il Lombardo che non volle venire a galla né per Cristo, né pe’ santi.
Tutta questa comica scena, Garibaldi se la godette da cima a fondo, senz’ombra di dispetto; e quando i cannoni furon salvi in città, e quando sul porto fu finito lo spettacolo, se ne venne via placidamente e rientrò fra le mura, fumando il suo sigaro dicendo, in tono di scherzo:
– Abbiamo bruciato le nostre navi!