Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

XVII

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XVII

 

Sirtori era il capo di stato maggiore e Türr era l’aiutante generale. Dopo avere obbedito a Garibaldi, io dovevo, secondo ogni buona regola, obbedire a loro due.

Stavo assaporando un bicchierino di marsala in una delle pochissime botteghe rimaste aperte in quel giorno, quando Türr mi chiamò e mi dette ordine d’andare a vedere se la guardia del castello fosse al suo posto e facesse il dover suo.

Ero stanco morto, e digiuno dalla mattina, ma bisognava obbedire. Andavo, dunque, con santa rassegnazione verso il castello, quando Sirtori mi venne incontro e mi disse:

Vada subito agli avamposti, e veda se le due compagnie hanno esatta la parola. La parola è questa: «San Giovanni, Genova».

Andròrisposi – ma prima debbo recarmi al castello.

– E chi le ha ordinato di andare al castello?...

– Il colonnello Türr...

Obbedisca a me e non al colonnello Türr... Il capo di stato maggiore sono io – ripigliò Sirtori, che era ombroso più d’un cavallo.

Salutai e tirai oltre, e nell’andare dicevo tra me:

Fortuna che Alessandro è vivo! Se ei fosse morto, faremmo una brutta vita cogenerali d’Alessandro!

E non pensai male, ché quei nostri caporioni non stettero in pace tra loro ventiquattro minuti, e cominciarono di buon’ora a guardarsi come il cane e il gatto.

Camminai un bel pezzo, e finalmente giunsi agli avamposti. Interrogai i soldati di Cairoli, e questi avevano la parola giusta, e non ci fu un ètte da ridire; ma giunto che fui tra que’ di Bixio, trovai che invece di San Giovanni, avevano Sant’Antonio.

Erano, per verità, due grandi santi ambedue, ma non era quello il caso di scegliere liberamente tra santo e santo. Allora dimandato dove fosse Bixio, e saputo che era in una tal casetta, salii su, per chiarire lo sbaglio, acciò nella notte non accadessero qui pro quo.

Nino Bixio stava col suo luogotenente Dezza sopra un lettuccio; sì l’uno che l’altro erano in camicia e in mutande, e stavano cincischiando un galletto lesso.

Bixiodissi – i tuoi soldati non hanno esatta la parola. Hanno scambiato Sant’Antonio per San Giovanni.

Bixio strozzò il boccone, e mi guardava co’ suoi occhiacci, che ne’ momenti di furia parean quelli del sor Giovannino delle Bande Nere, come ce li ha dipinti Tiziano.

– Sì, è proprio così – soggiunsi. – Hanno sbagliato il santo, e Genova sta male senza il suo San Giovanni.

Cani! – mormorò Bixio, e si volse a Dezza, quasi per domandargli: «O come è ita?».

Chiamiamo il furieredisse Dezza, scendendo anche egli dal letto.

Furiere, furiere! – gridò Bixio, senza dar tempo al suo luogotenente d’aprir bocca.

S’aperse l’uscio della camera e comparve un bel giovinotto biondo. Era il furiere.

– Hai barattato la parola, eh? – gli chiese Bixio con voce sorda, sorda, che parve un rantolo; e afferrando rapidamente un revolver che era presso, sopra un tavolino, ed alzatone il cane, ripigliò con gran voce:

Traditore, muori!

Dio volle bene al furiere, perché io e Dezza, lesti come due gatti, fummo addosso al furibondo, e questi assalito e stretto da noi, cadde giù per terra e noi tombolammo su di lui.

Il furiere fuggì come il vento. Io e Dezza ci rialzammo, e Bixio pure si rialzò.

Appena fu ritto sulle sue gambe, ci squadrò a squarciasacco, e poi disse:

– M’avete messo le mani addosso! M’avete strappato la camicia!... Bocche de...!

(Seguì un vocabolo genovese che l’accademia della Crusca non riferisce nel suo libro patrimoniale.)

Dezza ammiccò l’occhio, ed io non mi mossi.

Bixio ruggì come un lioncello, e si gettò bocconi sul letto bestemmiando; e mi parve Ugolino che mordesse la nuca all’arcivescovo Ruggieri . . . . . . . . .

 

*

* *

 

 

Faceva buio quando tornai in città. Le strade erano scure e deserte; però, di quando in quando, qualche allegra brigata di volontari rompeva coi canti il silenzio della solitudine e mi rammentava ch’io ero non in una necropoli, ma in una città generosa di vini celebratissimi.

Parlando con qualcuno, seppi che nelle fabbriche inglesi del vino di Marsala s’era dato da bere a refe doppio a qualunque avesse sete o capriccio di bere e di ribere, e seppi che Garibaldi, avendo trovato nelle casse del municipio alcune migliaia di lire in tanti baiocconi, ne aveva fatto dono ai soldati.

Qualche oste che, in quella sera, ebbe animo di tenere aperta la sua taverna, vendette sinché volle e incassò gran copia di baiocconi e anche qualche lira italiana, e benedisse i piemontesi e Garibaldi loro duce.

Non mi fece caso il vedere quella spensierata allegria della più gran parte de’ miei compagni, perché dal lato di terra vegliavano Cairoli e Bixio colla loro gente, e sul porto erano sobri ed attenti i carabinieri genovesi; ma quel che maggiormente mi confortò si fu il sapere che le navi napoletane, appena avean visto imbrunire l’aria, s’eran tratte prudentemente al largo, dandoci la promessa d’una quieta e tranquilla notte.

Tra la fatica e la fame, ero mezzo rifinito, e mi pareva millanni di trovar cibo e riposo. Dimandai dove fosse il generale, e m’insegnarono una casa di modesta apparenza, dove il duce dei Mille avea piantato le sue tende.

Salito su, lo trovai che discorreva con Sirtori e con Türr, i quali, a una voce, mi chiesero se avessi obbedito ai loro ordini. Risposi a Sirtori di sì e a Türr di no. Quest’ultimo volea fare e volea dire, ma io mi tolsi subito d’impaccio, dichiarando in buona lingua toscana che non avevo saputo dividermi in due ed essere, nel tempo stesso, agli avamposti e al castello. Sirtori e Türr cominciarono a ricambiarsi qualche parola un po’ agra, ma uno sguardo di Garibaldi li chetò in un baleno.

Tosto si diè mano ad apparecchiare la mensa, sulla quale, per provvidenza di Fruscianti, comparvero un cacio di Sardegna e qualche pane e un canestro di baccelli e due anfore di terra, piene di vino bianco. La cena era magra, e nessuno se ne appagò, tranne il generale che la disse sontuosissima, lodando a cielo i baccelli, che erano la sua passione.

– Che volete di meglio? – diceva. – Per me, camperei a baccelli; e se poi ci fosse chi pigliasse a mantenermi a granturco fresco cotto nel latte, che gli americani del Sud chiamano mazamorra, farei scritta con lui per tutta quanta la vita.

Nessuno di noi lo contradisse, ma tutti in cuor nostro maledivamo la prima cena siciliana, rammaricando che i marsalesi ci avessero accolto, su per giù, come si accolgono i cani in chiesa.

Rosicchiavamo il duro pane e quel cacio, che par fratello del calcinaccio, quando ci fu annunziata la visita del sindaco; entrò il signor sindaco seguito da due suoi assessori, e volle recitare un discorsetto, che il nostro condottiero troncò caritatevolmente alle prime parole, togliendo così il pater patriae della città di Marsala da un terribile cimento.

Ci volle poco a capire che il degno sindaco facea una visita di dovere, e null’altro: e che avea salito le nostre scale col fermo proposito di non sbottonarsi più oltre del primo occhiello del soprabito.

Dopo alquanto discorrere del più e del meno uno degli assessori, forse il più cristiano, disse qualche parola nell’orecchio al sindaco, e il sindaco volgendosi al generale, si professò dolente del vederlo seduto a una mensa tanto povera, e scusò la città e i cittadini, dicendo che l’improvviso nostro arrivo e le granate delle navi da guerra avevano fatto perdere la bussola a tutti quanti, e che chi non aveva avuto tempo di fuggire, se ne stava rincantucciato in casa, chiuso a sette chiavi.

Il generale crollò la testa: noi, minuta plebe, ridemmo come si suol ridere quando meno se ne ha desiderio, e il sindaco soggiunse, biascicando le parole:

Signor generale, non saprei... scusate il troppo ardire, ma... se vi degnate d’accettare, non saprei... qualche bottiglia...

Questa offerta, fatta così svogliatamente e quasi in lingua di lumaca, mise il colmo alla nostra ira; e, se non c’era a tavola chi c’era, avremmo detto al signor sindaco corna e... qualcos’altro.

Ma il generale lo freddò pulitamente e bene, rispondendogli:

Grazie, non bevo mai vino.

– E... questi giovani?... – ripigliò il lumacone, volgendosi a noi.

– Neanche noi ne beviamorisposi, serio serio, io, che in quel momento ne avrei bevuto un tino.

L’amico non trovò nel suo repertorio altre parole, e s’alzò per andarsene, sfoderando una filastrocca di complimenti, che non meritarono a lui ed ai compagni se non un freddo e sdegnoso addio del generale.

Partiti gl’importuni e tirchi visitatori, seguitavamo a mangiare e a discorrere dei fatti nostri, quando il vecchio Gusmaroli, che mi sedeva accanto, mi disse pian piano:

– Lo sai? Ci sono qui in Marsala otto gesuiti, che non han potuto scappare...

Alzai le spalle come per dire: «E che importa a me di costoro?».

Ma quel discorso del cauto prete d’Ostiglia era stato sentito da Montanari, il quale lo ripeté a un altro che gli era accanto; e in un baleno la gran novella si divulgò tra i familiari del generale, tutto intento a ragionare con Türr e Sirtori.

– Bisogna fare una visita ai gesuiti! – bispigliò una voce.

– Per Dio! Facciamolaseguitò un’altra voce.

E cinque o sei paia d’occhi scintillarono ferocemente.

Chi legge queste pagine, indovinerà senza fatica con quale animo i miei commensali proponessero quella visita, quando si pensi che tutti eran gente avvezza ad avere in orrore il nome e il puzzo de’ perversi figliuoli di Sant’Ignazio di Loyola, come il diavolo l’acqua santa.

Accadde, proprio in quel momento, che Garibaldi s’alzò da tavola; e nell’alzarsi, si volse a me dicendo:

Andate subito in giro per la città e fate motto agli usci dei conventi, e chiedete ai frati, che qua debbono esser molti, qualche coperta di lana. Se dobbiamo passare delle nottate su i monti, quelle coperte saranno per noi tant’oro. Avete capito? Procurate raccoglierne più che potete.

E s’avviò per andarsene a dormire.

– Verremo con te – sussurrò uno dei miei compagni.

Magaririsposi – ma che farete?

– Faremo quel che va fattoescì fuori un altro. – Sarebbe peccato il lasciarseli scappar di mano.

Capii che una nera tempesta s’andava addensando sulle chieriche dei reverendi padri, e volli sapere come la pensasse il generale. L’incarico di far visita alle fraterie l’avevo avuto da lui io sottoscritto e mi pareva che il regolar le forme di quella visita toccasse a me.

Entrai, dunque, in camera del generale e mi feci a dire:

– Lo sa? Ci sono in Marsala anche i gesuiti.

– Ebbene? – riprese meravigliato il generale. – Che debbo io farmi dei gesuiti?

– Volevo diresoggiunsi – volevo sapere... se debbo contentarmi di pigliar da loro le coperte di lana, o se debbo ancora acciuffarli tutti e condurli qui per ostaggi.

– Ecco un’idea da ragazzi! – gridò il generale, voltandomi bruscamente le spalle.

M’accorsi d’aver fatto un gran fiasco, ed uscii tutto mortificato. Credevo d’aver scavato un brillante, e non avevo tra le mani se non un cul di bicchiere.

Presso la porta della nostra casa stavano accoccolati parecchi volontari. Ne chiamai sette o otto perché venissero meco, intendendo caricarli di coperte; ma non avrei avuto veramente bisogno di tanta scorta; perché appena messo il piede sulla strada, i sette o otto miei compagni di tavola furono con me.

Compresi a volo che morivano dalla voglia di dare un bacio ai reverendi gesuiti, e che io dovevo essere il loro introduttore nel rugiadoso ostello.

Per la qual cosa credetti opportuno di fare a quei curiosacci pericolosi un prudente monito, e dissi:

– Se volete venir meco, venite, ma, carità per Dio!... Il generale non ha voluto nemmeno consentirmi che si piglino per ostaggi...

Gli amici crollarono le spalle, e una voce brontolò:

– Al solito! Quando si tratta di preti e frati, il generale è tutto compassione.

Andammo innanzi, e incontrai due marsalesi, li pregai m’insegnassero i conventi, e quello dei gesuiti pel primo.

Il convento dei gesuiti era (se la memoria non mi tradisce) vicinissimo alla marina; e così tra il fosco e il losco mi parve una casa di bell’aspetto, a tre piani, bianca e in un buon essere.

Mi feci alla porta, bussai con un gran battente di metallo, e mentre aspettavo che aprissero, notai con somma inquetitudine che i miei compagni di tavola, ai quali s’erano aggiunti per via tre o quattro sconosciuti, si consigliavano tra loro a voce bassa.

Ehidissi loro – guardate bene a quel che fate perché il generale che non vuol neanche toglierli per ostaggi, non ci perdonerebbe mai se facessimo qualche brutto scherzo a quei frati.

Il vecchio Gusmaroli mi strinse con tutta la forza il braccio, esclamando nel suo mantovano linguaggio:

Tas!... (sta zitto).

– No, Gusmaroli, no – ripigliai – non è il caso ch’io stia zitto, perché Garibaldi ha mandato me e non voi a far visita a questi frati, e non la passerei liscia se invece delle coperte, fosse tolta a quelle volpi la pelle. Promettetemi almeno che se andiamo su, non patiranno i gesuiti maggior male di qualche biscottino sulla chierica.

E col pollice e il medio della mano destra feci atto di dare un biscottino, non altrimenti che avessi dinanzi a me la reverenda zucca del padre guardiano.

Montanari, il più feroce tra tutti, cominciò a soffiare come un istrice; e vedendo che la porta non s’apriva, cominciò a bussare con quanta forza avea nelle braccia.

Non sapevo davvero a qual santo raccomandarmi. Avevo meco i sette o otto volontari che m’ero condotti dietro per caricarli delle coperte, ma non erano tomi a cui si potesse chiedere aiuto contro i miei compagni, in quel caso singolarissimo in cui mi trovavo a dover difendere i più tristi e antichi nemici della nostra buona causa.

Stavo mulinando con tormentosa incertezza se conveniva ch’io restassi per rendere minore colla mia presenza un male inevitabile o se era meglio che corressi difilato dal generale per avvertirlo di quanto stava per accadere, quando vidi appressarsi a noi una figura d’uomo, che camminava con passo assai veloce.

Scorse appena un minuto, e quella figura di uomo si manifestò per il colonnello Giuseppe Sirtori.

Dio ti manda! – esclamai tra me, e me gli feci appresso, per fargli intendere che gli dovevo dire qualche cosa.

Il colonnello non mi lasciò tempo di aprir bocca, ma intonò subito una severa ramanzina, dicendo chiaro e tondo che se fosse stato torto un capello a que’ frati, i nemici nostri ne avrebber fatto un casus belli per tutte le terre della cristianità, divulgando noi come turchi e assassini, e vituperando Garibaldi, peggio di qualunque scelleratissimo pirata.

E poi volgendosi a me, ripigliò:

– Ha avuto lei, se non sbaglio, l’ordine di chiedere le coperte ai frati?

– Sì, colonnello.

– Dunque, lei faccia il suo dovere, e lor signori tornino via con me, essendo volontà del generale che così sia fatto.

I miei cari amici tentennarono un momento, ma poi seguirono il Sirtori, il quale sentii che prese ad evangelizzarli a voce alta; e poi li condusse a suon di predica sino nella stanza attigua alla camera del generale, che fu, per quella notte, il dormitorio di tutta la famiglia.

Rimasto solo colla mia “pattugliapicchiai di bel nuovo, e siccome i buoni padri seguitavano a fare i sordi, sfoderai un gran vocione e dissi:

– O frati, aprite colle buone, o buttiamo giù la porta.

E accompagnai quest’antifona battendo forte sulla porta col fodero della mia sciabola.

Il suono della sciabola fe’ sì che una finestra s’aperse, e una testa domandò chi fossi e che cosa volessi in quell’ora.

Risposi che ero un ufficiale dell’esercito italiano, e che venivo in nome del generale Giuseppe Garibaldi a chiedere qualche coperta di lana, e che favorissero aprire.

La testa rispose, a sua volta, che l’ora essendo tarda ed essendo occorse gran novità in paese, non era quello il caso d’aprir l’uscio, e che perciò tornassimo in pieno giorno e il superiore ci avrebbe accolti da par suo.

Rinnovai le mie domande, parlando sempre colle buone, e dichiarando che non eravamo ladriassassini.

La testa tornò a disputare, e al chiaror del lume che era nella stanza, m’accorsi, che prima di rispondere pigliava sempre l’imbeccata da un’altra testa, che stava dietro.

Allora gridai:

– O fra soffione, fatti innanzi tu, e non pretendere di ragionar meco per ambasciatore. Tu devi essere il guardiano, il rettore, il maestro o che so io, ma insomma, il mandriarca di cotesti soldati di Loyola; senti dunque il mio ultimatum: o dammi quante più coperte puoi, o ti butto giù la porta, e sarà quel che sarà.

E comandai a’ miei uomini che s’avvicinassero alla porta e stessero pronti coi calci degli schioppi.

Allora, la solita testa, preso consiglio dall’altra testa, la cui ombra oscillava sulla parete, seguendo i movimenti della fiamma della lucerna scossa dal vento, cominciò a raccomandarsi, promettendo che le coperte verrebbero tra due minuti.

Scorsi, infatti, due minuti, caddero giù dalla finestra due coperte, ma quali coperte, per Dio! Parevano due ragnateli e non avrebber coperto un bambino in culla.

Perduta la pazienza, dissi a’ frati roba da chiodi, rimproverandoli che avessero preso il generale Garibaldi per un poverone, che si raccomandasse alla loro rugiadosissima carità.

Questa mia nuova predica fruttò la pioggia di due immense coperte di lana bianca, grosse ma soffici, e degne del letto d’un pascià.

– Si comincia benedissi, consegnando le coperte ai miei uomini – ma le buone opere lasciate a mezzo son vicine a diventar peccati. Su, voi siete sette o otto in convento, e avrete, per lo meno, una coperta per ogni letto; siamo di maggio, e non potete aver freddo; su, datemi tutte le coperte, e non mi fate confondere. Per la croce di Dio, sono stufo di far parlamento con voi, e io non so chi mi tenga...

La testa che era alla finestra parlò nuovamente alla testa che era dietro, e dopo breve consulta, altre sei coperte, egualmente belle e grandi e soffici, caddero ai miei piedi.

Feci raccogliere il prezioso tesoro, e me ne andai senz’augurare ai corbacci la buona notte.

Questo aneddoto, non so se piacevole o noioso, l’ho raccontato tal quale accadde, senza aggiungervi la minima frangia; ma chi credesse altrimenti, cerchi fra i volumi del giornale La Civiltà cattolica, e vedrà che i gesuiti di Marsala ne fecero ampia menzione, dicendo, su per giù, quel che io ho detto.

Però, que’ santi uomini, tanto per dare un nuovo saggio della loro gesuitica onestà, scrissero corna del fatto mio, facendo intendere che io volevo salir su in convento ad ogni costo, per fare Dio sa che cosa, e che e’ furono salvi per l’unico merito della loro sagacia e della mirabile costanza, colla quale tennero duro nel ricusare d’aprirmi l’uscio.

Quando lessi, qualche tempo dopo, il racconto dei gesuiti di Marsala, e sentii come trattavano il filibustiere toscano, che avea tentato tirarli nella rete, mi pentii quasi di aver salve loro le chieriche. Ma l’onor nostro e la fama di Garibaldi avean voluto così, e io non mi son mai pentito, né mi pentirò mai d’aver fatto in quella notte memorabile la parte dell’avvocato de’ poveri in pro dei maligni figliuoli di Sant’Ignazio.

Avute così le coperte da’ gesuiti, visitai altri conventi, avendo dai frati, bianchi, neri e rugginosi, buone ed oneste accoglienze, ma grandi lamentazioni della loro povertà, e poca e cattiva roba.

Tornato a casa, lincenziai la pattuglia, e, rifinito com’ero, mi stesi per terra sopra un materasso, e m’addormentai subito, e sognai per tre o quattr’ore tante e sì strane cose, che, rammentandomele, potrei averne materia da imbastire un poema.

 

 


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