Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE PRIMA Da Genova a Marsala

XVIII

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XVIII

 

Albeggiava appena, quando il generale comparve nel nostro dormentorio e ci svegliò.

Balzai su per il primo, sebbene avessi maggior dose di sonno, che non quando mi ero sdraiato sul mio povero giaciglio; e a gran fatica, fregandomi gli occhi, ne sgombrai quel che ci restava della «cimmeria nebbia».

Tosto che ebbi raccapezzato le idee, mi avvicinai al generale per additargli il bel mucchio di coperte, che avevo alzato in un angolo della stanza. Egli fe’ cenno d’aver veduto, e non mi disse verbo della faccenda de’ gesuiti: segno certo che Sirtori gli avea narrato per filo e per segno, senza confondere gl’innocenti coi peccatori.

Dove alloggiava Garibaldi, potea accadere facilmente che mancasse il pane, il vino, la carne ed anco il sale, ma non accadde mai che mancasse il caffè. Quell’uomo, solito a vivere con tre o quattro picce di fichi secchi, e con una meluzza acerba, o con pochi chicchi di formentone avrebbe sofferto le pene atroci d’inferno, se gli fosse mancata una tazza di caffè. Sapendo questo, era sempre nostra cura il provvedergli il caffè, anche se, per averlo, fosse stato necessario il correre a cercarlo in mezzo al fuoco o qualche miglio in mezzo all’acqua. Così, nel partire da Genova, l’infaticabile Pietro Bovi, gran trovarobe del piccolo esercito e degno d’esser tale in un esercito sterminato, avea tratto seco a bordo quanto era indispensabile perché Garibaldi avesse ogni mattina, ed anche ogni sera, una eccellente dose di caffè, fatto per , magari nel bosco o nella deserta pianura.

Venne, dunque, in tavola il caffè e ce ne fu per tutti. Il generale, tra un sorso e l’altro, dimandò a Sirtori e a Türr se fossero stati adempiti puntualmente certi suoi ordini, e lasciò intendere che voleva avviarsi quanto prima verso Salemi, piccola città che sta su in excelsis, a cavallo alla strada che conduce a Palermo.

In quel luogo ei sperava raggranellare qualcuno di quegli innumerevoli insorti, che i giornali di Genova e di Lombardia e di Torino avevan fatto scaturire a migliaia dalle sicule glebe, ma che in verità, non avevano oltrepassato di molto il migliaio, ed ora si riducevano a poche diecine di fuggiaschi, erranti per le montagne.

S’era dileguato, in un baleno, il roseo bagliore delle magnifiche promesse; le illusioni se l’era portate il vento, e non restava in faccia a noi se non la nuda e cruda realtà.

Ma ormai, eravamo nel ballo e bisognava ballare e raccomandarsi alle sante mani e alle santissime baionette, e pregar l’Altissimo che ci serbasse intatto l’uomo, mancando il quale saremmo divenuti un branco di pecore smarrite, o giù di . Non rida chi mi legge, perché spesso avvenne purtroppo che un uomo solo avesse in sé tanto cuore e tanto senno e avesse tanta fortuna dalla sua, da essere necessario, non solo a mille, ma anche a centomila, nel modo stesso che necessario è alla terra il sole, che la scalda e la feconda.

Ogni via di scampo era chiusa dalla parte del mare; il dado era stato tratto, e Garibaldi aveva detto con ragione d’aver bruciato le sue navi. Quel motto non accennò se non al fermo suo proposito di liberare la Sicilia o cader vittima generosa dell’amor di patria. Trasibulo ed Arato non furono per certo, né più audaci né più magnanimi.

Credettero molti, e lo credetti anch’io sino alla mattina del 12 di maggio, che il nostro condottiero, sbarcato nell’isola, avesse in animo di intraprendere su per le montagne quella guerra guerriata o piccola guerra come si chiama oggi, che stanca, alla lunga, gli eserciti regolari ed è opportunissima a sollevare i popoli, che hanno voglia di menar busse a chi tien loro i piedi sul collo. Nessuno avrebbe sognato mai che ei si mettesse diritto sulla via di Palermo, con quella audacia con cui vi si mise, e che parve tanto più inaspettata, in quanto le cose di Sicilia volgevano contrarissime alla sua aspettazione!

Conosciuto, dunque il proposito che aveva fisso il generale, capimmo a volo che cominciava per noi un viaggio pedestre assai più duro di quello marittimo, che fu, al paragone, un viaggio di divertimento. E vedendo vicino a me il La Masa, non seppi fare a meno di dirgli:

Caro amico, il generale si vuol mettere di buzzo buono al lavoro, ma se i tuoi siciliani ci faranno dappertutto il viso che ci han fatto qui in Marsala, non ci resta se non pregare il Signore, che ci scampi e liberi.

E il La Masa a me:

Aspetta a dire; tu vedrai fra due giorni o tre ch’io non fui bugiardo, e che i siciliani d’oggi son degni figli di coloro che, tanti secoli fa, suonarono a vespro. I marsalesi han paura, e non hanno tutti i torti. Essi sanno che noi non dobbiamo fermarci qui, e che partiti noi, i borbonici sbarcheranno e torneranno padroni della città.

– Può darsi che tu abbi ragione, – soggiunse – ma dove son mai quelle falangi d’insorti, che magnificavi tanto in Genova, dove sono le città ribellate?...

La mia domanda era una di quelle che stringono i panni addosso, ma il La Masa non si smarrì.

– La rivolta fu spenta, – egli disse – ma vedrai che a riaccenderla, cento volte maggiore, basta un fiammifero.

Dio ti faccia profeta! – esclamai. – Però io sono devotissimo a San Tommaso apostolo, e non credo che a quel che vedo... Ma in fin dei conti, noi siam nel ballo e dobbiamo ballare, e balleremo sinché avrem vita.

 

*

* *

 

Verso le sei, cominciarono i preparativi per mettersi in marcia; si pigliò per forza o per amore qualche cavallo, si levò dalle rimesse dei signori qualche carrozza, e si caricò sui barrocci un po’ di pane. Altre vettovaglie non poterono aversi perché le botteghe erano tutte chiuse e la gente non si faceva vedere, ed eravamo, su per giù, in una città abbandonata dagli abitanti, come se vi fosse sceso Dragutte o Barbarossa.

Mentre le compagnie dei volontari si riunivano sulle piazze, Garibaldi mi chiamò e mi dette ordine che andassi dal console inglese e lo pregassi, in suo nome, di pigliare sotto la sua santa e degna custodia, certi nostri malati, i quali non avrebbero potuto seguirci nella marcia. E poi mi dette certe lettere che doveano essere mandate a Malta. Il console, signor Collins, era nel cortile della sua casa, tutto vestito in ghingheri, cioè in abito nero ed in guanti, e vidi che gli sellavano un cavallo. Udito il mio messaggio, mi rispose:

Dite al generale Garibaldi che le sue lettere le mando subito al capitano Marryath, che è sempre qui sull’àncora; l’altro legno inglese partì ieri, a quest’ora ha già recato a Malta notizie del suo felice sbarco. I malati li lasci pure allo spedale, e io manderò il mio cancelliere a prenderli in consegna e a munirli di un passaporto... siate certi che nessuno toccherà un capello della loro testa.

Salutai il console e me n’andai. Nell’uscire dal consolato trovai diversi marinai dei due nostri legni, i quali chiedevano di parlare al console.

– E che volete dal console? – chiesi loro.

– Gli vogliamo parlare, – risposero con mal garbo; e mi piantarono senza neanche il buon giorno.

Capii a frullo di che cosa si trattava, e non me ne detti per inteso.

Infatti, poco dopo venimmo a sapere che molti marinai del Piemonte e del Lombardo pretendevano dal console inglese un salvacondotto per tornare a casa, dicendo che con Bixio s’erano accordati in Genova per il solo viaggio e non avevano voglia di diventar soldati in un’impresa, che aveva tutte le buonissime apparenze di esser tale da menarci dritti al capestro.

Il console li lasciò discorrere finché vollero, e poi dette loro una solenne lezione, rampognandoli del poco amore ai compagni e del loro poco cuore che avevano, dichiarando che l’Inghilterra non era usa a pigliare sotto la sua protezione i poltroni.

Verso le sette, mentre la squadra napoletana riappariva di bel nuovo dinanzi a Marsala, i Mille stavano schierati in buon ordine nel borgo, prossimo alla porta che mette sulla via di Palermo ed aspettavano il segnale della partenza.

Quando tutto fu in ordine, comparve dinanzi a loro il generale, cavalcando la men rea bestia cavallina che si fosse trovata in città, e sulla quale s’era messa la bella bardatura, che non so qual signore, brasiliano o argentino, gli aveva donata, nei giorni che precedettero la nostra partenza da Genova.

Accanto a Garibaldi cavalcava il console inglese, che volle vederci partire e ci salutò più volte, dicendo:

Addio, bravi giovani, bravi giovani!

Così lasciammo Marsala.

Ora è da notarsi come in quella città non restasse vestigio alcuno del nostro passaggio, perché il generale, ben sapendo che, appena partiti noi, ci sarebbero rientrati i napoletani, non solo non vi stabilì governo di sorta, ma volle che si lasciassero intatti persino gli stemmi del Borbone, e nulla si facesse che tornasse poi a danno di quei poveri cittadini. Dei quali, soltanto tre o quattro, oltre i quattordici da noi liberati dalle carceri, chiesero armi e facoltà di seguirci. Quei quattordici valentuomini, che a sentir discorrere, pareva avessero in corpo il diavolo, fatte appena poche miglia, sparirono dalle nostre fila, rubandoci i fucili, ciascun dei quali era per noi più prezioso di un violino di Cremona. . . . . . . . . .


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