Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

I

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PARTE SECONDA

Da Marsala a Palermo

 

 

I

 

Eravamo giunti felicemente a Marsala, ed io mi ero proposto di lasciartici, giacché, terminato il mio cómpito, mi sembrava ora di riposarmi e di trascorrere in panciolle, sotto la bell’ombra de’ tendoni di queste liete spiagge livornesi, gli atroci giorni di sollione. Ma tu, amico caro, più allettatore dell’ozio, tu mi stacchi dall’ozio, e fai che io riempia di vino marsalese la vecchia borraccia, e mi metta in marcia, cantando e novellando, e risuscitando col desiderio il grande e buon vecchio, che ahimè! non è più.

Noi nol vedremo più mai, bello e raggiante, sul dorso dell’indomito puledro, in mezzo al tumulto e al polverìo della battaglia; noi non udremo più quella voce, che pareva emula della tromba guerriera, e che spesso seppe volgere in sorriso il pianto de’ moribondi ansanti sulle sanguinose zolle, e mutò in prodi i pusilli, e tutti i giovani d’Italia innamorò della gloria e di Giuseppe Garibaldi.

Or ti prego che tu non voglia pretendere da me quel che pretenderesti da un pittore, che ricca avesse di vivaci tinte la tavolozza e mano infallibile nel disegnare e mente prontissima nel cogliere le attitudini più notevoli e degne di una figura, che tutti i posteri vorran conoscere, e che sarà tramandata a loro vivissima per ministero delle lettere e dei pennelli. Perché io, nel compiacerti col seguitare il mio viaggio, mi terrò modestamente al compito, che solo è adeguato alle mie povere forze, e narrerò le cose che vidi ed udii, con il linguaggio semplice e piano e senza concedermi d’elevare lo stile oltre la misura che mi sarebbe possibile mantenerlo alto, senza cascar giù, al pari di Fetonte meschino. Calza, dunque, buone scarpe e avviati meco verso Palermo, dove io giuro che ti lascerò in asso, quand’anche ti venisse il ticchio di pregarmi e ripregarmi a seguire oltre, e tu venissi a Livorno a tentar di muovermi col solletico, che è il tormento mio e la mia paura.

Ma anche nel condurti ch’io farò a Palermo, contentati della scorta che ti potrò fare, giacché non mi è dato condurtici dritto dritto e così speditamente, come da Genova ti condussi a Marsala, che i saracini, disprezzatori del buon vino, chiamaron Acqua di Dio (Ders-Allah).

Non ti dico adesso come mai e perché io farò qualche sosta, ma spiegherai facilmente il mio dire, quando sappi che sarai meco negli spedali di Vita, di Calatafimi e d’Alcamo, mentre Garibaldi battaglierà su pei monti pittoreschi che inghirlandano la Conca d’Oro, e si farà strada in Palermo.

Però, abbi certo che sarai in Palermo mentre le barricate saranno ritte tuttavia, e mentre i picciotti invocheranno Rosalia santa, e appiccheranno la sua benedetta immagine sul cul dei cannoni, e assisterai ai parlamenti di Garibaldi coi generali borbonici, e vedrai le rovine fumanti e i cadaveri insepolti, e gl’incendi e le rapine degli svizzeri e de’ bavaresi e le rappresaglie feroci del popolo, e Garibaldi seduto sugli scalini d’una fontana, specolare col sigaro in bocca le bombe che volavano fischiando, e accennarcele, con amabile sorriso, dicendoci:

– Ve’ che belle rondini!

Non ti dico di più, ma forse t’ho detto anche troppo. Tu piglia di buon animo quanto sarò capace di darti, e se i lettori si chiariranno annoiati dell’eterno parlatore toscano, tu di’ loro che la mia loquacità va messa tutta sul tuo conto perché tu hai invitato il diavolo a ballare, e il diavolo t’obbedì.

 

*

* *

 

Eravamo finalmente in Sicilia, nell’isola celebrata dai poeti leggiadri, che la vollero albergo prediletto ai numi, e popolarono di Ninfe i suoi boschi e di Naiadi le sue fonti; eravamo nell’isola dei vulcani e delle grandi metropoli del suo tempo antico; nella culla della gentil filosofia e della italica lingua. Ogni suon di campana ci pareva un’eco della squilla de’ Vespri, in ogni fiore cercavamo il profumo d’ambrosia che rivelava le dee; in ogni suono lontano e indistinto, un mormorio delle cetre de’ trovatori, che innamoravano le belle dagli occhi neri, alla corte di Federico.

Lettori amici, io vi dirò che in quel tempo mi cantavano in cuore venticinque anni ed ero tutto poesia; e voi non riderete se io vi giuro che i miei occhi cercavano per le valli solinghe Giovanni da Procida, pensoso e raccolto nel suo mantello bruno; e che il mio cuore era aperto a tutte le illusioni più vaghe e più fantastiche, che mai sieno buone ad ammaliare l’anima di un innocente peccatore che sogna.

Adesso io misuro da quel che provai in quel giorno, ciò che gli altri, miei compagni, debbono aver provato; e dico che quel cielo ci parve più azzurro del cielo di Toscana e di Lombardia, e i venticelli ci parvero imbalsamati d’inebrianti profumi, e il sole ci sembrò più splendido, e più grati ci parvero l’odor dei fiori e il sorriso delle donne, cioè delle rarissime donne che si videro in quel paese di ombrosi e gelosi maschi.

Mi parve che le muse siciliane (sicelides musae) intonassero, a’ miei orecchi, nuovi e armoniosi inni di guerra; mi sembrava che le loro bianche mani agitassero, dinanzi a noi, verdi ramoscelli d’alloro; tutti avevamo nell’anima presagi lietissimi, tutti eravamo innamorati della Sicilia, e ci pareva gran ventura il poter morire per lei!

Oh, chi non ha vissuto come vivemmo noi in que’ giorni d’ansietà, d’entusiasmo, di santo amore per la patria, non può dire di aver provato quanto sia dolce e quanto sia bella, in certi momenti, la vita!

Eravamo pochi, e derelitti su quella spiaggia, ma avevamo tra noi un eroe che recava tra le pieghe della sua bandiera la fortuna d’Italia; avevamo duce un uomo, che aveva scritto sulla lama della sua spada: «Vittoria o morte!». I nostri amici, i nostri cari non ci dovevano rivedere se non vincitori; o dovevano benedire alla memoria nostra ed onorare ne’ nostri nomi una gloriosa sventura...

Era alto il sole da tre ore e più quando lasciammo Marsala. Dopo breve tratto, si scoperse alla nostra veduta il mare, e contemplando le navi borboniche, che si avvicinavano sicuramente alla città. Alcuni villani che incontrammo pei primi, insieme a un frate, aduso e nero e barbuto, che cavalcava un somarello, ci chiesero se veramente ci fosse tra noi Garibaldi, e noi mostrammo loro chi cercavano. Tosto, i più svelti s’avvicinarono ad esso, e si dettero ad afferargli le mani per baciarle, ma il nostro duce li respinse sdegnosamente, dicendo:

– E che, baciar le mani a un uomo che mangia, beve e ...! (immagini il lettore il terzo verbo). Lo vedete a che v’han ridotto i preti? Lo vedete come v’ha fatto abietti la tirannia?

E spalancando le braccia, soggiungeva:

– Su baciatemi il volto, se volete!

E li baciava pel primo.

Aprivano la marcia le guide, comandate da Missori, tutte a piedi; in quei primi giorni il piccolo esercito aveva una cavalleria pedestre. Seguiva Mosto coi carabinieri genovesi; e quindi le compagnie per numero d’ordine, comandate da Bixio, Vincenzo Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini e Cairoli.

Il generale cavalcava, or qua, or seguito da Sirtori e da Türr, e da Cenni, infaticabile nel recare i suoi ordini e nel regolare la marcia della colonna. Venivano in coda i nostri quattro cannoni, ruzzolanti sulle ruote mezzo rotte dei vecchi affusti da posizione, guasti dalle intemperie e dagli anni; quindi i carri con le munizioni e i fucili e le altre povere salmerie, cui erano scorta i marinai. Il vecchio e canuto Ripari avea seco tre o quattro medici; l’Acerbi guidava quattro futuri intendenti e commissarii ordinatori; Sponzilli conduceva i futuri capi del genio militare; pochi antichi artiglieri andavano colle artiglierie.

– Ecco, – diceva Garibaldi, contemplando con gioia quella scarsa brigata – tra pochi giorni, ogni compagnia sarà battaglione, e poi reggimento.

Nell’udire quelle parole, mi si apriva il cuore, ma i miei occhi cercavano indarno gli innumerevoli insorti di cui era corsa fama che formicolassero le campagne siciliane. E, tratto, tratto, nell’essere in testa alla colonna, mentre salivamo qualche pendìo, mi volgevo a guardare, e fermando lo sguardo sul breve spazio occupato dalla nostra gente, dicevo fra me: “O che direbbero mai certi nostri buoni amici che fumano adesso e sbevazzano in santa pace pei caffè di Torino e di Firenze, se vedessero con qual poderoso esercito muove Garibaldi a rovesciare un regno?”.

E, per vero, non mancò in quei giorni chi ci chiamasse matti e tizzoni d’inferno, e censurasse il generale come uomo irrequieto e pronto sempre a metter legna sul fuoco e a crear sopraccapi al governo; e ci fu purtroppo chi s’augurò che con quella quintessenza di chiassaiuoli rivoluzionari e di furibondi arruffoni sparisse felicemente, e per non tornar mai più, ogni germe di future perturbazioni e di guai.

Garibaldi, vedendo piene le tolde dei due vapori, avea esclamato nella rada di Genova: «Eh, quanta gente!». Ripensando a quel beneaugurato motto, io mi consolavo nel profondo del cuore, ma la consolazione veniva intorbidita subito da un tristissimo dubbio. Non avea acconsentito il generale a farsi capo della spedizione, per la certezza che gli guarentirono, che troverebbe l’isola in fiamme? Non potea darsi che i Mille, i quali gli sembrarono troppi allora, sembrassero adesso a lui stesso troppo scarsi?

Non volevo mostrarmi scoraggiato, né uomo di poca fede, ma mi premeva di chiarire qual fosse l’impressione suscitata nell’animo di Garibaldi dalle prime accoglienze che ci avean fatto i siciliani.

E così, avvicinatomi a lui con un pretesto, gli dissi:

– O dove sono, generale, que’ magni insorti che promettevano Roma e Toma? Mi pare che la gente ci guardi e passi, ed abbia una voglia matta di starsene allegramente a vedere quel che accadrà.

Il generale rispose con la sua inalterabile tranquillità:

Pazienza, pazienza; vedrete che tutto andrà bene. Perché la gente si scuota e ci venga dietro, bisogna farle vedere che sappiamo picchiare. Il mondo è amico dei coraggiosi e dei fortunati.

Capii che diceva una cosa santa, e mi tacqui; ma, dopo poco, tornai a farmi vivo per dimandargli:

– O dov’è Rosalino Pilo? Dov’è Corrao? Non ci dissero a Genova che eran padroni di mezza isola?

– Ce lo dissero... – soggiunse il generale – ma che volete? Avranno fatto quel che poterono fare, e adesso saranno per la montagna.

In quel mentre, arrivò Sirtori, e io mi fermai.

Mentre ero fermo per accendere un sigaro, vidi una bella carrozza a due cavalli, e dalla carrozza si affacciò il tenente De Amicis, aiutante maggiore in uno dei reggimenti della brigata Reggio, venuto via, come me, senza dare neanche il buon giorno al colonnello.

Ehi, – mi disse De Amicis – ti diverti ad andartene a piedi con questo caldo e questo polverone?... Vedi, c’è posto finché vuoi; monta su.

E ordinò al cocchiere che fermasse.

– E dove hai preso questa carrozza? – gli chiesi nel salir su.

– L’ho veduta nella rimessa d’un signore e me la son fatta mia fino a stasera. Ero rimasto in Marsala per ordine del generale, a vigilare che i cannoni e i barrocci partissero in buona regola e non rimanesse indietro alcuno strascico, e m’è parso duro il raggiungervi a piedi.

E poi, sdraiandosi voluttuosamente, soggiungeva:

– Che vuoi? Per questi ottantanni che mi restano da campare, voglio godermi un po’ il mondo. Io ti giuro che il primo cannone nemico che vedrò, quel cannone sarà mio... è un’idea fissa che ho in testa: voglio si dica che il primo cannone guadagnato da Garibaldi in Sicilia, l’ha preso De Amicis.

Tale era davvero l’ambizione di quel bravo e caro giovane, i cui occhi spiravano il coraggio; e quella nobile ambizione doveva costargli, come vedremo tra poco, la vita.

Salii dunque, in carrozza, e mi parve essere rinato, perché faceva caldo in quel giorno, come tra noi suol essere in agosto, ed era un caldo afoso, che ci faceva sciogliere in sudori e ci mozzava il respiro.

Seguitavamo ad inoltrarci in un paese ricco di vegetazione e sorridente; i contadini, aggruppati dinanzi ai casolari, ci guardavano a bocca aperta, incerti se dovessero augurarci il buon viaggio o ringraziare Dio che passassimo e pregarlo a non farci tornare mai più.

Intanto, i volontari, che sul principiare della marcia aveano intonato allegre canzoni, e ripetevano lietamente il celebre ritornello:

 

Daghela avanti un passo...

 

s’eran fatti muti, e andavano a gran disagio, e apparivano affaticatissimi da quello smisurato calore e dal polverìo che regalava loro la strada maestra.

Erano circa le due, quando la tromba suonò alto, e il capitano Cenni annunziò una sosta di venti minuti. Appena udito il gradevole annunzio, i volontari ruppero le righe e si accoccolarono sotto le siepi e sotto gli arboscelli che fiancheggiavano la strada, o se n’andarono chi qua e chi per cercare un po’ d’acqua.

Io e De Amicis che seguivamo la colonna a qualche distanza, eravamo scesi di carrozza; vedemmo per la campagna, sulla destra della strada, un gruppo di alberi, e ci volgemmo a quella volta. I nostri passi non furono perduti, giacché in mezzo a quegli alberi c’era una casetta bassa bassa, che sulle prime ci sembrò una stalla. L’uscio della casetta era mezz’aperto, e faceva capolino un uomo dal viso del colore della cioccolata, vestito d’un lungo camicione bianco, che ci guardava e sorrideva.

Guardando l’edifizio, il camicione dell’incognito abitatore e quel sorriso, mi venne in mente la scena del Columella, dove si vedono i pazzerelli, e cominciai a fischiare la sinfonia della Semiramide.

Mentre ci avvicinavamo a lento passo alla casetta, l’uomo dal camicione ci chiamò con la mano, e aggiunse a quel cenno un pst, che voleva dire: «Spicciatevi».

Ci accostammo senz’ombra di sospetto, ma pieni di curiosità. L’uomo dal camicione, quando gli fummo vicini, spalancò l’uscio, e ridendo sempre con un’aria di malizia sopraffine, ci disse nel suo barbuto linguaggio:

Eccellenze, entrate, ma fate che nessuno vi veda entrare, se no, con tanta gente...

Capimmo subito che non si trattava di pazzerelli, ma di villani assai furbi, ai quali s’attagliava a cappello il vecchio proverbio toscano: «Contadino, scarpe grosse e cervel fino».

Quel basso edifizio, infatti, non era se non la copertoia di una profonda e vasta cantina, tutta piena di grandissimi orci e di strumenti da fare il vino. C’era dentro un fresco delizioso ed una fragranza di vino di Marsala che innamorava.

Due altri villani vestiti alla stessa foggia, ci furono tosto innanzi con due bicchieri, e tolto il coperchio a un orcio, ci invitarono a bere. Attingemmo con le nostre riverite mani, e bevemmo; bevemmo roba degna della mensa dei cardinali e degna della mensa di Lucullo. Non era il vino fabbricato dall’Ingham, ma era vino, fatto come insegnò a farlo Noè e come usano tuttavia i possidenti della campagna marsalese. Vuotati i bicchieri, volevano i villani che facessimo il bis, ma io esclamai: «Troppa grazia, fratelli!». Allora ci fecero segno che empissimo le nostre borracce, ed in questo li compiacemmo volentieri, giacché non sapevamo quale albergo e qual cena ci avesse destinato la Provvidenza, dopo la lunga e penosa marcia.

Empito le borracce ci accomiatammo dai camicioni bianchi, i quali ci raccomandarono a tre voci e con un comico accompagnamento di cenni che non additassimo a nessuno dei compagni nostri quel misterioso albergo della frescura e del nettare siculo.

 

*

* *

 

Tornando ad avvicinarci alla strada maestra, udimmo un gran baccano di voci, e tra quelle, altissima fin sopra i righi, la voce di Nino Bixio. Che cos’era, che cosa non era? I volontari, oppressi da quel caldo africano, stavan benissimo accoccolati all’ombra, e qual di loro avea cominciato ad appisolarsi, quale s’asciugava il sudore, e quale si sentiva tutt’altra voglia che quella di tornar così presto sotto i raggi del sole ardente; insomma, non c’era verso di farli sbucar fuori e ripigliar la marcia, per quanto i capitani e gli altri ufficiali si spolmonassero a persuaderli.

Garibaldi che era fermo a qualche distanza in un campo, non s’era accorto che il suo ordine di andare innanzi trovava oppositori inesorabili, i quali avrebbero voluto prolungar la sosta, e nessuno lo chiamò. Ma Nino Bixio e Sirtori, veduto che le raccomandazioni non bastavano, si dettero ad alzar la voce, ed anzi il primo, secondo il suo solito, cominciava a far saltellare il cavallo vicino a’ calli de’ dormiglioni e degli ostinati e minacciava bòtte bianche e bòtte nere, quando improvviso comparve sulla strada il generale, e gridò con voce sonora:

– Avanti, ragazzi, non c’è tempo da perdere.

A queste parole, tutti i Mille saltarono su come un uomo solo e ricomposero le file, e ripigliarono la faticosa marcia, e il lieto ritornello:

 

Daghela avanti un passo,

Delizia del mio cuore.

Bravo, bimbo, bravo,

Tallallera, lallera, lera

 

al quale, una quarantina di voci toscane intrecciava allegramente il ritornello livornese, mentre Bixio, bestemmiando in tutti i dialetti d’Italia, tornava di galoppo in testa alla sua compagnia.

 

 


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