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Vedendo che i nostri compagni marciavano penosamente ed erano tutti trafelati, dissi a De Amicis:
– Non è bene che andiamo in carrozza, bisogna dare il buon esempio.
De Amicis acconsentì ridendo, e pigliammo anche noi la strada coi cavalli di San Francesco.
Dopo pochi momenti, passò accanto a noi il commissario Bovi, cavalcando una giumenta, e traeva per la briglia un cavallaccio, alto e secco, che parea fratello del cavallo della fame.
– Ehi, Bandi, – mi disse – questo cavallo è per te. Piglialo e va dietro al generale ché gli puoi far comodo.
Quel povero cavallo aveva sulla groppa una sellaccia vecchia, senza staffe, e per briglie due pezzi di corda, che forse avean fatto girare per lungo tempo la carrucola d’un pozzo. Saltai su come potei, aiutato dal mio fedele orbetellano Becarelli, il quale, nel darmi l’aire per quel bel volo, mi disse che i medici dell’ambulanza lo volevano con sé. Il pover’uomo batteva ancora la febbre e mi parve che il mestier del pappino fosse buonissimo pel fatto suo, e lo mandai con Dio e coi medici, dopo avergli ritolto il mio bel pugnale, che infilzai nella cintura, e la sacchetta delle mie robe, che legai alla sella.
Quindi, dopo avergli chiesto ed aver avuto da lui una bacchetta di salcio, frustai a più non posso il ronzinante, e il ronzinante si mosse col trotto che han le vacche, quando il pungolo del buttero le toglie di contemplazione.
Appena fui vicino a Garibaldi, questi si volse, e mi disse:
– Bene, bene; avete trovato un cavallo?
– Sì, – risposi – il cavallo dell’Apocalisse.
Si camminò un’altra mezz’ora in silenzio; quando, a una svolta della strada, vedemmo in lontananza diversi uomini a cavallo comparire in cima ad una collinetta.
Garibaldi fece fermare la colonna, e si volse, chiamandomi.
– Prendete con voi questi sei carabinieri genovesi, – e li accennò col dito – e andate a vedere che razza di gente è quella che si vede lassù, in capo alla collina. Vi aspetto qui.
M’avviavo, flagellando coi tacchi delle scarpe i duri fianchi della mia cavalcatura, quando ei mi chiamò indietro per dirmi:
– Avete un binoccolo?
– No, generale.
– C’è nessuno che abbia un binoccolo da dare a Bandi?
– Io, – rispose un bell’ometto, che era appunto il signor Calvino, e mi porse un binoccolo.
Dopo aver fatta un po’ di strada, conversando sempre coi sei genovesi, il binoccolo del signor Calvino mi mostrò ben chiari i signori sconosciuti che ci venivano incontro, i quali erano sette o otto, tutti a cavallo, con le papaline in testa e cogli schioppi attraverso alla sella, come tanti beduini.
Affrettai con buone ed efficaci persuasioni il passo del ronzino, ed agitai per aria il berretto. Gli sconosciuti misero al trotto i cavalli, ed agitando, alla loro volta, le papaline, cominciarono a gridare.
Capii a volo che erano amici e venivano dalla parte di Dio, ma se tali non erano? La prudenza più volgare mi consigliava a starmene in guardia, e chiesi ai carabinieri se avessero ben cariche le loro armi e dissi loro:
Quindi, flagellato anche una volta il mio sciagurato ronzino, posi mano al revolver, e mi spinsi innanzi.
Gli sconosciuti si fermarono anch’essi, ed uno di loro, che mi parve il caporione, scese subito da cavallo, e mi si fece incontro, gridando: «Viva l’Italia! viva Garibaldi!».
Era uno dei baroni Sant’Anna di Alcamo, patriota ardentissimo e grande odiatore dei Borboni.
Ci stringemmo la mano, e lo invitai a far venire innanzi i compagni; che ad un suo cenno, accorsero di galoppo, e mi furono intorno, assordandomi con le loro grida di «Viva Cicilia! viva la Taglia!» (Viva Sicilia, viva l’Italia).
Finalmente, si vedevano gl’insorti! Erano compagni di Rosalino Pilo, che dalle montagne aveano udito il rumore dei cannoni della squadra borbonica, e, mandati esploratori verso Marsala, aveano avuto notizia del nostro sbarco.
Condussi il barone e suoi arabi dal generale, che li accolse con gran segni d’affetto, e si ristrinse con essi a parlamento, insieme a Sirtori e a Türr.
Quando Garibaldi ebbe saputo ciò che gli premea sapere, trasse la sua colonna fuori della strada maestra, e l’avviò per un sentiero che scendeva con lunghi giri in una valle verdeggiante, in fondo alla quale sorgea un colle, piuttosto alto, sormontato da un edifizio, molto simile a un castellaccio antico.
Avendomi il generale ordinato d’andare innanzi co’ miei esploratori, ai quali aggiunse uno degli uomini del barone Sant’Anna, precedei di buon passo la colonna, interrogando con infinita curiosità il mio nuovo compagno, dal quale seppi come la rivoluzione fosse stata doma per tutta l’isola, e Pilo e Corrao errassero su pei monti con pochissima gente. Quando ebbi saputo da lui ciò che mi premeva sapere, e’ cominciò ad interrogarmi, dimandandomi se Garibaldi era proprio Garibaldi, e se dietro Garibaldi c’era un re, e se dietro a quel re c’era una buona cassa.
A cui risposi:
– Fratello, Garibaldi è Garibaldi in carne e in ossa; dopo Garibaldi verrà, se occorre, anche un re! ma la cassa che tu cerchi, non ce l’abbiamo.
– Bravo! – risposi – e quella cassa la piglieremo noi, e staremo allegri come tanti papi. Però non dimenticarti che le casse son sempre difese molto bene, e ci sarà mestieri combattere accanitamente se vogliam giungere a bomba.
Mentre così si parlava ci venne incontro una comitiva di sei o sette cavalieri, che ci salutarono con alti evviva. Il capo della nuova cavalcata era il signor Mistretta di Salemi, il quale, avuto notizia che ci andavamo appressando al suo “feudo” veniva ad incontrare il generale e ad offrirgli tutto quanto per sé e per i suoi gli potesse occorrere.
Ordinai a un genovese di condurre al generale il signor Mistretta, insieme col suo corteo, e seguitando la mia strada, giunsi al feudo, che appunto era il castellaccio da me veduto, in distanza, nell’abbandonare la via maestra.
Mentre questo accadeva, il sole andava tramontando tra un ammasso di nuvoloni, che si tingevano nel color della porpora; l’aria cominciava a raffrescare, e un delizioso profumo si levava per la campagna, tutta verde e piena di rigogliose e folte pianticelle di fave.
Su que’ campi girando gli occhi, Garibaldi esclamò, tutto allegro:
– Meno male, con tanti baccelli che ci sono, potrò far la guerra senza bisogno di pensare ai viveri!
Ciò che parve consolare il generale, non consolò punto noi, che non avevamo mangiato nulla in tutta la giornata, ed avevamo voglia di miglior cibo, che non fossero i baccelli. E tutti ci guardavamo in faccia e ci chiedevamo a vicenda se il generale avesse inteso dir davvero e volesse condannarci a quel cibo da anacoreti, dopo tante miglia e dopo tanti sudori.
Ma il commissario Bovi, che giunse in quel momento, avvertì il nostro duce d’aver comprato quattordici pecore da un pastore che avea la greggia a pascolo in quelle vicinanze; e poco dopo, le quattordici vittime passarono belando dinanzi a noi, avviandosi al sacrifizio, che fu compiuto, da non so quali sacerdoti, sotto le mura del vecchio castello.
Il castello ha nome Rampegallo, e non è se non una meschina catapecchia, che, nei tempi delle prepotenze, fu albergo gradito a qualche barone nei mesi della caccia, o fu ricetto ai suoi sgherri per taglieggiare i poveri vicini e tenere in briglia i miseri vassalli. Nell’epoca in cui lo onorò d’una visita Garibaldi, Rampegallo non era se non una specie di masseria, abitata da un castaldo e da pochi uomini, occupati nel coltivar le vigne e spremere dai grappoli il delizioso sugo.
Entrando nel feudo, o castello che voglia dirsi, trovammo Stefano Türr, che si era disteso su d’un lettuccio e premeva sulle labbra un fazzoletto, macchiato di sangue. Gli chiesi che cosa avesse, e mi rispose che gli accadeva spesso di sputar sangue, ma non era solito farsene né qua né là. Gli toccai la fronte, scottava come un ferro caldo. Volli correre a chiamare un medico, ma egli me lo vietò, dicendo: «Questo non è tempo da medici, né da medicine».
Il brav’uomo non aveva tempo per esser malato; ed infatti, la mattina dipoi era sano e vispo come un galletto.
Garibaldi, scrupolosissimo sempre nel pigliare le sue buone cautele per la difesa degli alloggiamenti, avea collocato gli avamposti, e avea spedito qualche squadra a scuoprir terreno. Quand’ebbe mangiato un po’ di pane ed ebbe bevuto un po’ di caffè nel gran salone del feudo, sulle cui pareti erano dipinti in terra verde diversi episodi di caccia, parve a Fruscianti l’ora di preparargli il letto. Ma oltre il letto, bisognò preparargli anche la tenda, giacché ei volle dormire ad ogni costo, all’aria aperta, sebbene gli facessimo notare che la guazza cadeva abbondante e non era buon per lui, tribolato dall’artrite, il succiarsi per tutta la notte l’umidità. Due delle coperte dei gesuiti di Marsala ci parvero un dono di Dio per fargli la tenda e il giaciglio: e in quattro e quattr’otto, il suo notturno albergo fu pronto e ce lo mettemmo dentro amorevolmente e lo aiutammo a spogliarsi, come se si fosse trattato del nostro babbo. Ma non avevamo ancora condotto a termine l’opera nostra, quando sopraggiunse il barone Sant’Anna e ci disse esser prudenza che Garibaldi consegnasse subito a due de’ suoi uomini una spedizione, la quale dichiarasse che dava loro facoltà di levare gente per conto suo in certi villaggi non lontani; promettendo che i due uomini sarebbero tornati quanto prima, recandoci qualche buon aiuto. Ne parlai al generale e questi chiamò a sé il Sant’Anna e si fece spiegare per filo e per segno la faccenda, indi disse a me:
– Scrivete subito in mio nome una spedizione per i due uomini di Sant’Anna, acciò si sappia che la gente che arruoleranno sarà arruolata per me; e quando l’avrete scritta, firmerò.
Andai tosto da Basso, che aveva la cassetta della segreteria, e avuto da lui quanto mi occorreva, scrissi la spedizione, intestandola (me ne rammento benissimo) con le parole seguenti: «Giuseppe Garibaldi, generale del popolo italiano, disceso in Sicilia per rendere alla nobile isola l’antica gloria e libertà, dà commissione, ecc.».
Scritto che ebbi, portai il foglio al generale che lo lesse e lo firmò senza far motto. Noto questo fatto, perché non andrà molto che dovrò narrare a chi mi legge come quella mia maniera d’intestare ciò che in nome suo si scriveva, venisse messa all’indice e surrogata con una diversa formula.
Partiti i due nostri provveditori d’uomini, fabbricammo altre due tende, presso quella di Garibaldi, e mangiammo quel che ci capitava fra le mani, senza curarci d’aspettare la distribuzione della carne di pecora col relativo brodo, che venne fatta alle affamate turbe, poco innanzi la mezzanotte.
Appena giorno, la voce del generale ci suonò la sveglia. Mezzo vestito com’ero, corsi nella sua tenda, e mentre altri dava fuoco allo spirito per fargli il caffè, gli offersi i panni perché si vestisse. M’accòrsi che l’umidità gli aveva alquanto rattrappito le braccia e le mani, e m’arrischiai a dirgli:
– E perché mai voler dormire all’aperto quando si ha vicina una buona camera con un buon letto?
– Che volete? – rispose. – Son fatto così; e i vecchi non si riformano.
E si passarono, senza cose degne di menzione, le prime ore della mattina; nessuno sapeva quando ripiglieremmo la marcia e per dove, e se ci fossero nelle vicinanze, truppe nemiche da combattere sollecitamente. Non vedendo fare alcun preparativo di partenza, supposi che Garibaldi volesse fermarsi alquanto in quel luogo per raccoglier gente che in gran numero gli si prometteva da La Masa e dagli altri reduci dall’esilio. Ma verso le nove, i nostri esploratori tornarono in gran fretta, accompagnando certi uomini a cavallo, che venivano da Salemi, per annunziare a Garibaldi che il generale Landi marciava con una brigata per tagliargli la via di Palermo, mentre altre forze manovravano per terra e per mare, col disegno evidentissimo di pigliarlo in mezzo.
Fu dato in fretta e in furia l’ordine di levare il campo, e correre, più presto che si potesse, a Salemi.
Montato che fu a cavallo, il generale ordinò a Bixio che lo seguisse tosto con la sua compagnia e coi carabinieri genovesi e le guide, mentre il resto della gente si raccoglieva e si metteva in ordine. Bisognava camminare sei lunghe miglia per giungere a Salemi, che siede in vetta a un poggio assai scosceso, e si trattava di giungervi per sentieri aspri e fuori di mano.
Il mio cavallo del giorno innanzi era sparito e non c’era verso d’averne un altro, sicché io pure dovetti raccomandarmi alle gambe e corsi un bel pezzo, per tenermi vicino al generale, che aveva un diavolo per capello e non pareva dovesse aver quiete finché non fosse giunto in Salemi.
La campagna era popolata da qualche brigatella di contadini, che lavoravano pei campi, né si vedeva alcuna casa, essendo uso in que’ luoghi che i campagnuoli abitino, per lo più, raccolti nei borghi e nei villaggi, anzi che nei poderi isolati, come è costume tra noi. Nessun pericolo prossimo ci minacciava, né era da credersi che i borbonici fossero pronti per assalirci, mentre c’incamminavamo a Salemi per una parte opposta a quella cui tendeva la loro fretta; pure, Basso ed io, non vedemmo senza inquietudine il generale spingersi innanzi e dilungarsi alquanto dalla sua scorta, seguito unicamente da Sant’Anna, da Nullo e da altri sette o otto a cavallo.
A un certo punto della faticosa via, noi l’avevam perduto di vista dietro una boscaglia; Bixio ci seguiva a due o trecento passi di distanza, e dietro a lui veniva un’altra compagnia, quando ci capitò la terza mala burla che volle farci il pazzarellone, che per due volte s’era gittato nell’acqua, come tutti rammenteranno.
S’era cacciato costui, non so come, dietro a Garibaldi, e lo andava seguendo a saltelloni e con due grandi occhi da spiritato e col berretto in mano. Ecco che capitandogli vicino un vecchio ufficiale, che vestiva la divisa dello stato maggiore toscano, il pazzarellone lo scambia per un borbonico e gli si mette ai fianchi e lo guarda bieco, e di quando in quando prorompe in certe esclamazioni, che tutti credean rivolte al sole o alla luna, non essendoci chi potesse, in que’ momenti avere il capo alle parole che escivano di bocca al trafelato matto.
E dico adesso chi egli fu, perché allora nessun di noi se n’accòrse.
Or bene; giunti che furono il matto e il suo innocente compagno al passo d’un torrentello, questi tolse in mano la sciabola per spiccare un salto, e già pigliava la rincorsa, quando lo scervellato, ghermitolo improvvisamente pel collo e sfoderato un coltellaccio, si diè ad urlare a tutta gola: «Dàlli al traditore! dàlli alla spia! All’armi! all’armi!».
Questa scena accadeva a pochi passi da noi, cioè da me, da Basso, da Stagnetti e da De Amicis, i quali, udendo quelle strane grida, corremmo a vedere che cosa fosse, e giungemmo in tempo da toglier sano e salvo di tra le unghie del matto il buon Parodi di Parma, vecchio di sessant’anni e fior di patriotta. Ma lo scompiglio non finì lì, ché tutti quelli i quali venivano dietro a noi, udendo le grida che con voce stentorea mettea lo spiritato, temettero che il generale fosse caduto con sì debole scorta in un agguato, e si misero a correre colle armi a punto, e dettero l’allarme alle compagnie, e fu un correre e un anfanare senza fine.
La scena terminò, come ognun può credere, in risa, ma non fu bocca la quale non maledisse il pazzarellone, che giunto a Salemi venne consegnato al sindaco e chiuso nell’albergo che fu degno di lui.
*
* *
Non era corso gran tempo da quella comica avventura, quando comparve una numerosa cavalcata di cittadini, i quali acclamarono da lungi il liberatore, facendogli segno che venisse innanzi, e accennandogli le bandiere tricolori che sventolavano sulle brune torri di Salemi.
Spronò Garibaldi il cavallo incontro ai benvenuti, e con essi salì di buon tratto verso la città, nella quale lo accolse la popolazione festosa con suoni di bande e di campane e con grida infinite, e con vere e solenni dimostrazioni d’affetto e di riverenza.
Era un fortunato e piacevole mutamento di scena; e noi che con un palmo di lingua fuori correvamo su per l’erta per tenerci, men che si potesse, lontani dal nostro gran capitano, udimmo con tanto di cuore l’eco di quelle grida e di quelle feste.
Cominciavamo allora ad accorgerci che, venendo in Sicilia, non eravamo venuti in una terra di codardi o di ingrati.
I primi abitanti di Salemi che incontrai su per l’erta, e che scendevano, dopo aver veduto Garibaldi, per vedere il suo esercito, mi salutarono (uomini e donne) agitando i fazzoletti e gridando: «Morte al Borbone!». (Avverta però chi legge, che e’ gridavano Barbone e non Borbone, ma la buona intenzione era assai.)
Tosto, per farmi onore, una ragazza mi tolse di mano la mia sacchetta e mi porse un mazzolino; poi si fece innanzi un giovinotto, e s’offerse d’alleggerirmi, pigliandomi la sciabola. Ma a questo dissi:
– Troppa grazia, fratello; le sciabole son da quanto le mogli: non si fidano a nessuno.
Il siciliano, forse, non mi capì, ma rise di tutto cuore, indovinandomi agli occhi, e si contentò di venirmi appresso, chiedendomi una infinità di cose, alle quali non rispondevo, o rispondevo con monosillabi, perché la gran salita m’avea fatto corto il fiato e i miei polmoni ansavano come due mantici.
Ora narrerò come conobbi Fra Pantaleo, e come avvenne che il detto frate conobbe, in quel giorno, Giuseppe Garibaldi, e fu quindi con noi, mezzo soldato e mezzo cappellano, al pari di Fanfulla da Lodi.
Ero giunto quasi in capo a quella bestial salita, e pigliavo fiato in una breve spianata, nella quale sorgeva un convento, simile su per più, a tutti i conventi dei frati di San Francesco, che paiono rassomigliarsi, come tanti nidi di rondine. Dinanzi alla porta del convento, sorgeva su d’un gran piedistallo di pietra una croce di legno, e accanto al piedistallo era ritto un frate, giovane, vispo e con due occhi pieni di fuoco, che indicavano in lui maggior dose di pepe, che non comportasse, per regola, la fratesca proverbiale mansuetudine.
Il frate mi salutò, e io non lo salutai e tiravo oltre, come se nulla fosse. Ma il servo di San Francesco, fattosi innanzi due passi, mi disse:
– O trentaquattro, (avevo sul berretto il numero del mio reggimento, che fu il 34) non usa rispondere al saluto?
– Fratino, – risposi fermandomi – avevo il capo a tutt’altri che a te. Ma in fin dei conti, sappi che nei paesi nostri, tra soldati e frati non ci guardiamo che di traverso.
– Sta bene, – rispose il frate. – Sarà così perché nei paesi tuoi, i frati sono nemici della patria; ma qui in Sicilia, viva Dio, non siam tali.
– Me ne consolo, – soggiunsi, ripigliando la mia strada. – Ma io debbo andarmene in città e non ho tempo da discorrere, quando anche ne avessi il fiato.
Il frate mi si cucì ai fianchi e andammo insieme verso la città, che era vicina pochi passi, e nell’andare tornò a dirmi:
– Trentaquattro, sei stato burbero con me, ma ti voglio bene, e saremo grandi amici. Se non sbaglio, tu se’ toscano. Lo sento alla parlata. Fammi adesso una grazia, conducimi dal generale; l’ho veduto passare poco fa, e il mio cuore è con lui.
– Condurti dal generale? Credi forse che e’ voglia dir messa e abbia bisogno del diacono o del suddiacono?
– No, trentaquattro, non stanno bene in bocca tua certi discorsi. Credi tu ch’io non sappia che Garibaldi ebbe seco una volta un animoso frate e che questo frate lo seguiva impavido nelle battaglie e seppe morire col Cristo in mano e col nome d’Italia sulle labbra?
Il fratino, sebbene nel discorrere avesse un po’ il tono del maestro di retorica o del lettore di filosofia, cominciò a piacermi, e più mi piacque quando mi numerò ad uno ad uno i miracoli di cui eran capaci i frati in Sicilia, e si vantò d’appartenere alla stessa regola dei bellicosi frati del convento palermitano della Gancia.
– Che cosa credi? – proseguiva a dire. In mezzo a questa gente superstiziosa e cieca, la croce e la parola d’un frate patriota valgono per cento delle vostre sciabole. Conducimi dal generale, fa ch’io parli con lui, e ti giuro che in ventiquattr’ore e anche in meno, questo povero fraticello, umile e solo, sarà divenuto legione.
Così discorrendo, giungemmo in una piazza, dov’era una casa con un’alta torre. La banda suonava dirimpetto alla casa, e la folla batteva le mani e gridava: «Evviva!».
– Dov’è Garibaldi? – domandai.
Cento mani s’alzarono per accennarmelo su in cima alla torre, intento a specolare col suo gran cannocchiale le sottoposte vallate.
Aspettai che scendesse, e quando fu sceso gli tenni dietro, sempre col mio bellicoso frate alle costole.
Fatti pochi passi, Garibaldi accomiatò la gente che lo accompagnava e salì con Fruscianti, Montanari, Gusmaroli e Stagnetti, nel palazzo del marchese di Torrealta.
Il frate sembrava avere le perette a’ fianchi, come i barberi, e non reggeva alle mosse; ma io l’afferrai pel braccio e me lo trassi in un caffè, dove non mi parve vero di mettermi a sedere e chiedere da rinfrescare il becco. Mentre bevevo, il mio strano compagno continuò a discorrere rapido come un frullone, domandandomi centomila cose, e ripigliando, di tanto in tanto, le sue arringhe, con un linguaggio così ispirato e focoso, da farmi credere che in lui rivivesse il Savonarola.
Alla fine, quando mi parve tempo d’alzarmi, presi il frate sottobraccio ed escii con lui, cantandogli questo salmo:
– Senti, io ti conduco dal generale e dirò, se vuoi, qualche parola per raccomandarti; ma pensa bene a quel che sei per fare, e pensa che se un giorno t’avessi mai a mostrare un cerretano o un vigliacco, io sarei buono a tirarti il collo, come si fa ai galletti.
Il frate m’afferrò la mano, me la strinse forte ed esclamò:
– Uomo di poca fede, perché dubiti del tuo prossimo?
Salimmo le scale del palazzo del marchese di Torrealta, e i servi m’indicarono l’appartamento del generale.
Appena entrato col mio compagno nell’anticamera, Gusmaroli cominciò a soffiare come un gatto, e facendomisi vicino, disse:
– Che cosa vuole cotesto frate?
– Egli è un buon frate, – risposi – che vuol parlare col generale e chiedergli il permesso di esser de’ nostri.
A queste mie parole, i quattro che erano nell’anticamera, si dettero ad alzar le pugna e a digrignare i denti e a stralunar gli occhi, non altrimenti che avessi condotto in mezzo a loro Radetzki o Meternicche.
– Ecco qua, sempre alle solite; in casa del generale sempre preti, sempre frati!
E tutti furono addosso al misero Pantaleo; e quale lo graffiava, quale l’afferrava pel cappuccio, quale gli squadrava in viso le corna. Finalmente, Montanari, afferratolo di peso, s’avvicinò alla finestra...
Il frate, spaventato, si dette a gridare; io volevo difenderlo, ma il gran ridere me lo impediva... Quand’ecco s’apre un uscio in fondo all’anticamera, e Garibaldi domanda:
Tutti rimasero come statue; io solo soffocando le risa, risposi:
– Veda, ho condotto qui un buon frate che vuole essere de’ nostri, e costoro me lo baciano coi denti...
– Eh diavolo! – ripigliò con voce severa il generale, squadrando da capo a piedi i quattro luterani.
E poi, rivolto a me, proseguì:
– Fate entrare il vostro frate.
Entrammo insieme, e io mi feci sollecito a dire:
– Ecco, signor generale, un frate che vuol essere una seconda edizione d’Ugo Bassi.
Ugo Bassi!... – esclamò il generale, cedendo ad una improvvisa commozione. – Ma lo sapete bene, – ripigliò a dire, dopo lunga pausa – lo sapete voi chi fosse Ugo Bassi?
Queste parole erano dirette al frate, e il frate rispose:
– Era un uomo che seppe seguirti nella battaglia e seppe morire da forte!…
– Sì, è vero, – ripigliò il generale – ma vi sentite voi il cuore di fare altrettanto se occorre?
Il frate cominciò allora a predicare ad alta voce, non altrimenti che fosse sul pulpito, e dandosi aria d’uomo ispirato e rapito tra le nuvole, parlava di Sansone e di Gedeone e dei Maccabei e di David e di Saul, e dava a Garibaldi del tu, dicendogli:
– Giuseppe Garibaldi, non disprezzare questa mia tonacella, perché io ti dico, in verità, che sarà più salda della tua corazza; non disprezzare questa croce, perché vedrai che balenerà più terribile fra i nemici che la tua scimitarra!...
Udendo il principio di cotesta predica, cominciai quasi a pentirmi di essere stato l’introduttore di messer frate, e temere forte che quello scherzare col leone non avesse a procacciare qualche brutto saluto all’incauto; e così cercavo di richiamarlo in briglia col fargli gli occhioni, e col tossire e col battere per terra la sciabola; ma fu lo stesso che dire al muro.
Per buona sorte, il generale era, in quel giorno, di buonissima luna, e non solo non uscì dai gangheri e non mandò in quel paese l’enfatico parlatore, ma anzi, se ne piacque, e lasciò campo libero alla sua lingua; come quegli che col suo meraviglioso intuito aveva capito per aria quanta dose di bontà e di risolutezza si nascondesse sotto le apparenze bizzarre e la strana corteccia del lettore di filosofia dei minori osservanti di Salemi.
E per vero, il buon Pantaleo giovò mirabilmente alle cose nostre, massime nel primo periodo di quella guerra, e non ebbe l’eguale nel sollevare i popoli e nello innamorarli della crociata contro la tirannia. Lodevolissimo poi deve dirsi, perché di quel bene che seppe fare in pro della buona causa, non ebbe, né chiese, in seguito, alcun premio, e morì in tanto povero stato, che ne’ supremi momenti, la moglie e la sorella non ebbero di che comprare un arancio, per inumidir le labbra al morente, e furono debitrici della pietà dei vecchi compagni d’arme, se la spoglia del caro morto fu chiusa in una bara e se i suoi figlioli ebbero un po’ di pane.
*
* *
Ma tornando al racconto, dico che il nostro frate, quando uscì dalle stanze di Garibaldi, mostrava tutto lieto una lettera di lui, che gli dava incarico di correre le vicine terre per levar gente in suo nome; e mi disse partendo:
– Vedrai, o trentaquattro, che in meno di due giorni io sarò qua con cinquecento uomini, pronti, coll’aiuto di Dio, a combattere e a morire per l’Italia.
Tutto quel primo giorno di fermata in Salemi fu speso nel fare apparecchi; si tolsero due cannoni dai vecchi ed inutili affusti, per farne loro dei nuovi, ai quali si adattarono ruote da corazza; si diè mano a fabbricar delle lance; si requisirono cavalli, e si aprirono gli arruolamenti pei villani, che in buon numero erano accorsi in città.
Questi s’affollavano intorno a noi e guardavano con occhi di meraviglia le nostre armi e specialmente le rivoltelle, delle quali volevano esaminare i congegni, parendo loro stupendissima cosa che una sola canna potesse esplodere sei colpi, senz’essere ricaricata, e vaticinando che con que’ portentosi argomenti avremmo facilmente vinto alla prima battuta e mandato a rotoli il Barbone co’ suoi napoletani e co’ suoi sguizzeri.
Nel vedere quella gran curiosità de’ villani, io rammentavo i racconti di que’ viaggiatori, che ci dipinsero i selvaggi, stupiti e trasecolati dinanzi a’ coltelli e ai fucili e ai gingilli di vetro, che loro si mostravano per allettarli, e ne facevo gran festa.
A una cert’ora, essendo capitato nella maggior piazza della città, vidi uno stemma borbonico sulla porta d’una casa, e chiesi alla gente affollata:
– O siciliani,... che si tarda a buttar giù quella vergognosa insegna?
La folla mi ascoltò in silenzio; nessuno voleva essere il primo a fare atto di ribellione o a dir bravo! a chi lo proponeva.
In quel mentre mi si fece dinanzi un uomo di belle forme e dall’aria risolutissima, che seppi essere un altro dei fratelli Sant’Anna.
Costui gridò:
– Sì, sì, abbasso quell’arme! – e avventò contro l’arme una grossa mazza che aveva in mano.
Allora io dissi:
La scala venne e fu appoggiata al muro, e io staccai l’arme e la precipitai giù sul lastrico, esclamando:
– Così cada e per sempre la mala signoria!
La gente rispose con un coro d’imprecazioni, e cominciava a calpestare rabbiosamente l’arme, quando il vecchio Gusmaroli, fattosi largo, mi gridò: – Briùsel, briùsel! (Brucialo, brucialo!)
In un baleno, comparve della stipa e fu accesa, e l’arme fatta in pezzi si bruciò, e quello fu il decreto di decadenza dell’esosa dinastia borbonica; decreto che fu benedetto da Dio, per quanto l’acqua che cominciò a venir giù dal cielo, minacciasse spegnere le nostre fiamme e mettere in contestazione il decreto.