Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

III

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III

 

Pranzammo, la sera, in casa del marchese di Torrealta, e fu commensale nostro il padre Pantaleo, il quale dichiarò a Garibaldi che sarebbe partito l’indomani, di buon mattino. Fra un discorso e l’altro, il generale, posando gli occhi sul viso del frate, vi notò le tracce di un graffio, e disse:

Padre Pantaleo, chi v’ha graffiato?

Pantaleo additò Gusmaroli, e Gusmaroli lo minacciò con una occhiata torva, quasi per dirgli: «Mi capiterai sotto un’altra volta!».

Oibò! – soggiunse Garibaldilasciatemi stare questo buon frate, che farà il suo dovere e crescerà il numero dei sacerdoti per bene.

E in così dire, guardò Gusmaroli, che era stato prete, e parroco per giunta, sino ai quarantacinque anni, o giù di .

Gusmaroli, che a rammentargli la sacerdotale sua vita, inviperiva, si morse le labbra e attaccò un terribile pizzicotto a me, che gli ero accanto e ridevo.

Quindi, Garibaldi si mise a ragionare dei preti e de’ frati dabbene, che avea conosciuti in vari tempi, e pose in capo di lista il mio vecchio amico don Giovanni Verità da Madigliana, che dopo la caduta della repubblica romana, l’avea salvo, con suo gran pericolo, in mezzo ai tedeschi, sui gioghi dell’Appennino, e condotto tra gente amica in Toscana.

Ora, mentre Garibaldi commentava con parole di viva gratitudine il generoso don Giovanni, lo scapigliato Montanari chinò la testa sul piatto e mugolò.

– Che cos’avete, Montanari? – dimandò Garibaldi, interrompendosi.

Vorreste dire che don Giovanni non è un buon frate?

Auff! – rispose Montanari. – Volevo dire che quando s’azzecca un prete buono, bisogna ammazzarlo perché non abbia a diventar cattivo.

Pantaleo, udendo questa nuova eresia, non seppe tenersi al canapo, e cominciò a tempestare sul dannato un diluvio di versetti del Vangelo e di massime morali.

E il dannato, che forse in gioventù avea studiato teologia e n’era infarinato alquanto, si dette a ribatterlo con gran furia, e così avvenne che la nostra tavola si mutò in un banco di ragion teologica; disputando da una parte un dottore della chiesa, e dall’altra un dottore dell’inferno.

La disputa cominciava a diventar noiosa per noi e pericolosa per il padre Pantaleo, quando, per buona sorte, il generale la sopì con una parola, che impose silenzio, ma non placò quegli esacerbati spiriti, tutt’altro che fraterni, i quali si guardarono in cagnesco per tutto il tempo del desinare, e si lasciarono neri, neri, per non rivedersi più mai.

In quella sera, il generale si coricò, secondo il solito, all’ora dei polli, dopo aver dato un’occhiata agli avamposti ed aver preso lingua dagli scorridori che aveano esplorato il terreno, parecchie miglia all’intorno. L’ordine che lasciò a noi, prima di spegnere il lume, recava che ci trovassimo in piedi innanzi l’alba e fossimo pronti a partire da Salemi quando a lui paresse buono.

Scesi dunque a governare il mio cavallo (giacché avevo avuto la sorte di provvedermene uno, gratis, s’intende, et amore dei) e mentre accarezzavo la povera bestia e le facevo assaggiare, forse per la prima volta in sua vita, un poco di zucchero, mi capitò dinanzi il La Masa.

– Che buon vento ti porta qui? – gli chiesi.

Ed egli a me:

– Venivo appunto a cercarti e t’ho trovato senza salir le scale. Vuoi tu venire con me?

Venir con te? E dove?

Parto adesso per Santa Ninfa; farò un breve giro, e fra tre giorni o quattro raggiungerò Garibaldi con un esercito. Tu non sai ancora di che cosa sieno capaci i siciliani, ma li vedrai alla prova. Tu li avessi veduti, come io li vidi, nel quarantotto!... Lo so, lo so purtroppo, sul continente, siete avvezzi a metter tutti in un mazzo, siciliani e napoletani, ma tra questi e quelli ci corre tanto, quanto da un lombardo a un esquimese...

– Sarà benissimo, ma perché mai vorresti che venissi teco?

– Ti vorrei per aver meco qualcuno a modo mio, qualcuno che m’aiutasse...

Capii subito che aveva messo gli occhi addosso a me sottoscritto per avere un reggicoda, e m’affrettai a dirgli:

Senti, La Masa, non lascerei il nostro vecchio, nemmeno per diventare vicario generale del papa. Va pure per le tue terre e sveglia e conduci teco i dormienti a migliaia, ma lascia in pace me, che ho trovato la mia nicchia.

La Masa non volle cedere così a buon prezzo, e cominciò a far passare dinanzi ai miei occhi le guerrillas, le legioni, i battaglioni de’ picciotti, e a promettermi che sarei diventato Rinaldo o Brandimarte, e, in compagnia sua, avrei imparato a mangiare il ferro.

Dio mi volle bene, anche in quel punto, e non permise che io cedessi alle tentazioni.

La Masa, vedutomi duro come un masso, mi strinse la mano e se ne andò in pace, rammaricando che io respingessi a calci la buona fortuna, che m’era venuta incontro a braccia aperte.

Qualche mese più tardi, leggendo un vecchio numero del Daily News, trovai una lettera dalla Sicilia, e precisamente da Marsala, nella quale si diceva tra le altre cose: «Oggi (13) è partito per l’interno dell’isola il colonnello La Masa, accompagnato dal luogotenente Bandi, suo aiutante di campo».

Si vede proprio che il povero La Masa mi voleva bene, e gli son grato tuttavia della buona intenzione che ebbe.

Ei fu uomo pieno di cuore ed anche bravo e migliore di molti altri, se vuolsi; ma bravissimo sarebbe parso, senza quel gran peccataccio della vanità, che gli procacciò tanta invidia e tanta dose d’antipatia, e lo mise in fregola di comandare mezzo mondo e di emulare Cesare nelle Gallie.

 

*

* *

 

La mattina che seguì, fummo tutti in arme sopra una breve spianata, fuori della porta che da Salemi conduce a Trapani e a Calatafimi.

Garibaldi comparve in mezzo a noi a cavallo e si trattenne lungamente, finché certi esploratori, mandati fuori di Salemi, non tornarono recandogli le novelle che gli occorrevano. Avuto queste novelle, volle vedere ad una ad una le compagnie, disse qualche parola per confortarci a sperar bene e per raccomandare la disciplina, e quindi rimandò tutti agli alloggiamenti.

Nel tornarcene in città, venne incontro a Garibaldi un bel signore, che cavalcava un morello assai brioso. Dietro al bel signore, che si chiamò il cavaliere Coppola, uomo animosissimo e assai stimato in Sicilia, venivano a due a due trecento villani, armati, in parte, delle loro scoppette ed in parte inermi o muniti di grossi bastoni. Erano i primi insorti che si vedevano; e Dio serbava loro l’onore di dividere con noi la gloria del primo fuoco.

Quella gente ci parve una manna e le facemmo lietissima accoglienza. Non erano un esercito; ma, in quel momento, ogni pruno faceva siepe; e a chi si lagnò che fossero pochi, il generale rispose:

Pigliamo quel che viene; verranno in più gran numero quando avran visto come sappiamo picchiare.

Parole sante, anzi santissime. La gente, salvo poche eccezioni alla regola, non si fece viva, se non quand’ebbe veduto, alla prova, di quel che fosse capace Garibaldi, quell’uomo senza boria, né ciondoli, né spennacchi, che andava in camicia e si cuopriva il capo con un cappello di feltro nero, poco dissimile da quello dei contadini e de’ guardiani delle capre.

Tosto fu provveduto ad armare que’ nuovi fratelli e a metterli insieme con un po’ di garbo e a far conoscer loro le prime e più indispensabili norme del mestiere, inteso come l’intendeva Garibaldi, al quale più volte sentii dire:

Insegnate al soldato a caricare e scaricare lo schioppo, insegnategli a volgere a destra e a sinistra e ad andare avanti; ma non gli insegnate mai, nemmen per esercizio, ad andare indietro.

Distribuiti, dunque, i fucili alle nuove reclute, si cominciò ad ammaestrarle nei primi elementi della bell’arte d’ammazzare l’amato prossimo, e a quest’ufficio vennero scelti alcuni dei Mille, tra i quali si mostrò volenteroso ed abile un certo Marchelli.

Ora, giacché ho rammentato questo Marchelli, non dispiacerà al lettore ch’io torni indietro parecchi passi, e dica perché modo e’ fu con noi, e dica quale uomo fosse, prima che il suo angelo custode lo guidasse alla villa Spinola e io gli promettessi un posto tra i felici argonauti.

Un bel giorno (tre o quattro giorni innanzi la partenza) passeggiavo coll’amico Vecchi presso il cancello più vicino alla villa, quando un giovine, alto di statura e vestito così così, ci chiamò, dicendo aver gran bisogno di parlarci. Ci avvicinammo al cancello, per sentire quel che volesse da noi, e sapemmo subito che egli aveva gran voglia di venire in Sicilia, e ci scongiurava che lo pigliassimo «in nota».

– E chi v’ha dettorisposi – che qui s’arruola per la Sicilia?

– Chi me l’ha detto? Lo dicono per tutta Genova.

– V’hanno ingannato, caro mio, hanno voluto burlarvi...

– Sì, hanno voluto burlarmi!... Non lo dica neanche per scherzo. Garibaldi è in questa villa e partirà tra pochi giorni, e chiunque vuole arruolarsi, deve far capo a lor signori...

Questo modo di parlare mi dette ombra, tanto più che Vecchi guardava fisso fisso lo sconosciuto e arricciava il naso, e pareva volesse dirgli: «Maschera, ti conosco!».

Perciò tagliai corto, salutai e mi scostai dal cancello, e ripresi la mia passeggiata col Vecchi, il quale mi disse:

– Ho in testa d’aver veduto, in qualche parte, quell’uomo; non m’è faccia nuova costui. Non parla genovese, ma parmi averlo riveduto in Genova... e ci scommetterei il collo.

– Vuoi saperla tutta? – soggiunsi. – Giocherei la testa che è un delegato di questura o qualche amico del questore, che vien qua col proposito di grattarci la pancia.

– Può darsiripigliò Vecchi – e se tale è, se lo porti il diavolo.

Seguitammo a passeggiare e non parlammo più di lui, né de’ suoi morti. Dopo due ore o così, volle il caso che tornassi verso il cancello. Lo sconosciuto era sempre , e tornò ancora a raccomandarsi come un’anima persa.

Lo mandai di bel nuovo in pace e salii su in casa per desinare. Tutt’a un tratto, Vecchi batté allegramente palma a palma, colla stessa gioia che provò Archimede quando ebbe sciolto il problema, e mi disse:

Indovina un po’ chi sia quell’uomo, che poc’anzi era col muso tra i ferri del cancello e voleva che lo scrivessimo per la Sicilia? Cerca, cerca, l’ho trovato... e non l’indovineresti alle mille; è un giocoliere di bussolotti, e tempo fa lo vidi giocare al biliardo col soffio...

Possibile?

– Certo.

– In fin dei continotai – che c’è di male se quel povero diavolo si becca un po’ di pane, sollazzando il prossimo?

– Nessun male c’è – rispose Vecchi – ma è curioso davvero a vedersi un giocoliere di bussolotti ambir la gloria di mutarsi in argonauta.

La mattina seguente, passavo dinanzi al solito cancello, quand’ecco il solito uomo e la solita preghiera. Questa volta, lo sconosciuto mi fece compassione, e non avendo cuore di lasciarlo usolare più a lungo tra ferro e ferro a mo’ degli accattoni, lo feci entrare dentro e gli chiesi:

– Orbene, voi volete andare in Sicilia con Garibaldi... E che cosa sperate mai di guadagnare in questo viaggio?

– Nulla, signor tenente... Quello che sperano guadagnarsi gli altri.

– E se v’ammazzano?

– Avrò finito di tribolare...

– E di giocare al biliardo col soffio! – interruppi io con uno scoppio di risa.

Il povero Marchelli diventò rosso come un pomodoro e soggiunse:

– Come? Lei sa?...

– Non ne abbiate rammarico, amico, perché ieri vi credetti qualcosa di peggio, vi credetti una spia.

Per farla corta, chiarito che ebbi la faccenda, volli contentare il giocoliere, e datagli assicurazione che lo avrei condotto via, gli dissi:

– Venite qui ogni giorno a quest’ora; e il giorno che dovrem partire, farò che entriate qua dentro e non ne esciate che per imbarcarvi.

E così fu, e in tal modo il famoso giocatore di biliardo, senza stecca, divenne un dei Mille di Marsala.

 

*

* *

 

Torniamo adesso a Salemi. Trovandomi in mezzo a quei beduini, che il Marchelli e gli altri stavano scozzonando, m’accorsi che guardavano con vogliosissimi occhioni il revolver che luccicava al mio fianco, libero dalla fodera, ché essendosi sdrucita, l’avevo data a un ciabattino, perché me la accomodasse. Venuto che fu il momento del riposo, quei villici curiosi mi si affollarono intorno; e alle guardate che davano, m’accorsi che morivano dalla voglia di veder da vicino il revolver e di sapere come lavorasse quel miracoloso ordigno. Bramoso di godermi la loro meraviglia, come Leonardo da Vinci (scusate il paragone) si smammolava contemplando le bocche aperte e gli spalancati occhioni de’ contadini, attoniti nel veder volare gli uccelli di legno e i dragoni di fil di ferro, impugnai il revolver e mi posi a descriverlo, col tono che usano i cerretani quando spiegano il mondo nuovo. I miei uditori erano tutti in visibilio, ed uno tra loro, un bel ragazzone, bianco e rosso, con due occhi sgranati e con certi denti che parean fagioli, batteva le mani, esclamando, in sua africanissima lingua: «Bella cosa, bella cosa!».

Mi piacque quel ragazzone e pensai: “Questo bel figliuolo votirarlo su a briciole di pane, e me ne farò uno scudiere coi fiocchi”. E gli chiesi:

– Come ti chiami?

Nino Marchese.

– Di dove sei?

– Di Castel Vetrano.

– Quanti anni hai?

Diciassette, eccellenza.

– Non mi dir mai eccellenza, perché da noi sono eccellenze gli asini. Dimmi piuttosto se vuoi star con me, e io ti vorrò bene, e se sarai fidato e coraggioso ti regalerò un revolver come questo e più bello ancora.

Nino Marchese fece, dalla grande allegrezza, due o tre salti. Io lo condussi meco in casa Torrealta, mutai il suo berretto a borsa di cotone nero in un berretto rosso alla turca, gli posi in dosso una camicia rossa, e gl’infilzai alla cintola il mio pugnale, e gli dissi:

– Qui mangerai e berrai; abbi occhio al mio cavallo, e non allontanarti, perché da un momento all’altro, potrei aver bisogno di te.

Nino voleva baciarmi la mano, ma io gli misurai un gran ceffone, e gli feci intendere che da allora in poi doveva aver quello strano modo di salutare i superiori in conto d’una laidissima civiltà.

E così, acconciato che l’ebbi al mio servizio, me ne andai altrove, lieto e contento d’avermi accaparrato un’anima fedele e riconoscente, la quale mi avrebbe seguito a chiusocchi fin dentro la bocca dell’inferno. Fra poche pagine vedranno i lettori come io m’ingannassi, ed avessi ragione d’esclamare con quel dottorone santo: «Male abbia l’uomo, che si fida nell’uomo».

 

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* *

 

Quando uscii di casa, vidi una folla di gente incamminarsi per una strada che metteva ad un palazzone vecchio; lo chiamo palazzone, perché ho fisso nell’idea che fosse un edifizio d’una certa mole, ma non ricordo bene se fosse il palazzo municipale, dove ero entrato la mattina innanzi, per aspettare Garibaldi, che di sull’alta torre specolava il paese.

In quel palazzone, qualunque fosse, vidi una gran sala, e nella sala entrò quanta gente poté: preti, frati, galantuomini (come si chiamano colà i possidenti) insomma tutto il meglio del popolo di Salemi, perché il generale aveva invitato a parlamento quanti sentissero sdegno della tirannia borbonica e vedessero di buon occhio la bandiera recata da Genova.

Il gran capitano stava ritto in fondo alla sala, ed aveva accanto Francesco Crispi e tutti gli uomini sodi della spedizione: Sirtori, Stocco, Carini, Calvino, Calona, Bianchi ed altri, i cui nomi non occorre rammentare. Appena la sala fu piena, egli prese a narrare come e perché fosse venuto in Sicilia, e dichiarò scaduta la dinastia dei Borboni, e ricordò le passate e presenti miserie dell’isola, invitando il popolo a seguirlo in quella santa guerra contro gli oppressori.

Io non ricordo per intiero ciò che disse Garibaldi, né voglio mettere in bocca a lui parole non sue; dico però che, in quel momento solenne, fu eloquente quanto poté essere, a’ suoi tempi, Giovanni da Procida o qualunque altro odiator generoso di tiranni, innamorato della morte per il trionfo di una causa giusta. Mentre ei parlava, un fremito impaziente faceva eco alle sue parole, e trasformava nella folla, accalcata al di fuori, l’ira magnanima, che l’aspetto dell’eroe, e le lacrime che gli luccicavano negli occhi, e il fuoco de’ suoi accenti accendevano in ogni petto. E quando nel chiudere il suo dire, si fe’ innanzi verso l’uditorio e levando le braccia, gridò: «Su, italiani, chi ha un ferro l’affili, e chi non ha un ferro, tolga un sasso o un bastone e mi segua, perché la campana dei Vespri è suonata», a quel punto, tutte le braccia si alzarono, tutte le bocche dettero un urlo, che veniva dal cuore, e quell’urlo, ripetuto da mille e mille italiani, che ingombravano le vie e le piazze vicine, annunziò che la guerra santa cominciava.

In quel mentre, pioveva come Dio sa mandarla; ma la piccola città, non ostante la pioggia, s’andava popolando sempre più, e numerose squadriglie venivano a noi chiedendo armi. Se ne dettero finché avemmo da darne, e quando le armi da regalare mancarono, Garibaldi ordinò che tanti volontari nostri per compagnia dessero ai siciliani i fucili e pigliassero le lance. Persuaso, com’egli era, che il fucile non fosse altro che il manico della baionetta, non gli parve dannoso alle faccende sue il dar fucili a gente del cui coraggio non aveva ancora certe prove, e lasciare con le pertiche munite d’un chiodo bene aguzzo, i suoi cacciatori. E in quanto a questo non s’ingannava, e i suoi volontari stessi gli dettero ragione, cedendo volentieri ai nuovi compagni gli schioppi e impugnando quelle rozze lance, alla cui fabbricazione presiedette il mio buon amico e futuro colonnello, Giacomo Griziotti.

 

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Sull’ora del desinare, stavo avviandomi verso casa, quando il minore dei fratelli Sant’Anna mi chiese se volessi annunziarlo al generale.

Volentieriripresi – vieni meco e ti annunzierò subito.

– Lo sai? – proseguì a dire il barone. – I napoletani ci vengono incontro...

– Da Trapani, forse?

– No, da Palermo, e vengono in gran numero. Credo che Garibaldi si getterà alla montagna...

– Per me, credo il contrariosoggiunsi. – Garibaldi andrà diritto ad incontrarli, anco se fossero tre contr’uno.

Il barone crollò il capo e salimmo insieme. Annunziai il barone, che venne ricevuto immediatamente, e tornai nell’anticamera. Dopo una ventina di minuti, la voce del generale mi chiamò.

Dite al colonnello Sirtori che venga subito qua.

Corsi a chiamare Sirtori, e Sirtori venne. Parlarono un pezzo insieme, e poi Sirtori escì. In quel mentre, il cameriere del marchese di Torrealta venne a dirci che il desinare era pronto.

Andai ad avvertire il generale, che stava guardando una gran carta geografica, e mi batté amichevolmente la mano sulla spalla, e venne via senza far parola.

Quel giorno, non essendoci a tavola il padre Pantaleo, non si ragionò di teologia né di frati, né di preti, ma si parlò allegramente del più e del meno, come se il nemico fosse da noi lontano mille miglia, e noi fossimo tranquillamente e sicuramente domiciliati nella buona ed eccelsa città di Salemi.

Avrei pagato volentieri le nove o dieci lire che avevo in tasca, per sapere quali propositi mulinava il generale per il seguente, ma non c’era caso di trapelar nulla, perché Fruscianti stesso, Gusmaroli e Montanari ne sapevano quanto ne sapevo io, e neanche un’acca di più.

Però, quando fu ora di andare a letto, cioè dopo la campana del deprofundis, che annunziava la prima ora di notte, il generale mi chiese dove avessi dormito la notte scorsa.

– Nel convento dei gesuiti; – risposi – ma non ho chiuso un occhio, perché tra arabi e lombardi han fatto un vero diavoleto.

– Ebbene, stanotte dormirete qui da me, perché c’è il caso che da un momento all’altro vi debba chiamare.

Auguratagli la buona notte, collocai in una stanzetta vicina il mio Nino Marchese, e divisi coi soliti compagni i materassi, mi distesi sul pavimento dell’anticamera del generale, e tutti ci addormentammo con un pensiero in testa e con una domanda sulle labbra: dove andremo domani?

 

 


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