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La mattina del 15 maggio, quinto giorno del nostro arrivo in Sicilia, Garibaldi si destò più presto del solito, e non erano ancor le tre, quando la sua voce si fe’ sentire.
Fruscianti che era già in piedi ed attendeva a preparare il caffè mi disse:
– Va tu, e verrò io tra un minuto.
Entrai nella camera e detti il buon giorno.
– Volete darmi una tazza di caffè? – chiese il generale.
– Un momento, generale; Fruscianti ve lo sta preparando.
– Piove?
– Deve aver piovuto alquanto, qualche ora fa – risposi guardando dalla finestra – ma adesso vedo un gran bel sereno.
– Buon segno! – esclamò Garibaldi, scendendo da letto.
Gli cambiai addosso la camiciola, gli porsi i suoi abiti, e andai pel caffè. Invece del caffè pronto, trovai Fruscianti che bestemmiava come un turco (o meglio come un toscano) perché la macchinetta del caffè gli si era rovesciata, e aveva dovuto ricominciar da capo l’operazione.
Il generale che fu, nella vita casalinga, uomo amorevole e paziente e discreto quant’altri mai, non s’impazientì per la tardanza della sua prediletta bevanda; ma infilati i calzoni, s’era dato a passeggiare in su e in giù per la camera, e me ne accòrsi al rumore dei passi pesanti e al tintinnio degli speroni.
Quando quel benedetto caffè fu in punto, Fruscianti ed io glielo recammo. Lo bevette a lenti sorsi, e bevendo disse a Fruscianti:
– Andrete ad avvertire Sirtori che solleciti la partenza; e fate che qualcuno vada a chiamarmi Türr.
Poi, gli dette qualche altra commissione che non ricordo. Fruscianti, Gusmaroli, Montanari e Stagnetti escirono tutti ed io rimasi solo.
Ad un tratto, udii Garibaldi cantare. Cantare a voce spiegata e con bellissimo accento la cabaletta del baritono nell’opera Gemma di Vergy: la cabaletta che dice:
Il tempo che verrà, ecc.
In quel momento un volontario mi recò la sciabola del generale, che aveva pulita e fatta lustra come uno specchio, ed io entrai con quella nella sua camera, dicendo:
– Eh che volete? – rispose Garibaldi, ilare in volto – quando le cose della patria vanno bene, bisogna essere allegri!
– Capperi! – dissi tra me – quest’uomo ha lo spirito della profezia, o ha paglia in becco.
E stavo per dimandargli quali buone notizie avesse avuto in sogno, o avesse in tasca fin dalla sera innanzi, ma me ne tenni, e feci bene. Quell’uomo che era tutto amore per la gente che gli stava intorno, diveniva un basilisco quando accadeva che qualcuno ciarlasse oltre il dovere o si mostrasse curioso.
Io mi rammento che un giorno capitò alla villa Spinola un tale, per discorrere con lui. Era poco prima delle ventiquattro, e Garibaldi stava affacciato ad una finestra, immerso, a quanto pareva, in profondi pensieri.
Feci entrar subito il visitatore, un omicciattolo tutto voce e penne, e che, appena veduto il generale, cominciò a sfoderare una parlantina così impronta e tediosa, che avrebbe fatto perdere la pazienza a un santo. Quella specie di cinciallegra ebbe il fresco cuore di dirgli:
– Quali sono i vostri disegni? Vorrete, spero, palesarmeli, innanzi che io mi decida a partir con voi. Domani, se volete, tornerò da voi, e se vedrò che i vostri disegni saranno ragionevoli, sarò vostro cacciatore.
Garibaldi incrociò le braccia sul petto e si pose a guardar fisso il cicalone, senza rispondergli mai verbo, e quando se n’andò, non rispose al suo saluto, se non con un cenno della testa. E quando il molesto visitatore fu partito, il gran vecchio si volse a me e stette guardandomi un bel pezzo, e poi disse:
– Che ve ne pare eh? Avete sentito quanta lingua ha costui? Scommetto che dev’essere un gran vigliacco.
*
* *
Orbene; mentre io pensavo quali fossero i motivi che inducevano in tanta allegria il nostro condottiero, un suono di lontana tromba s’udì per l’aere quieto: da principio furono accordi, ma poi fu una sveglia tanto ben composta e gentilmente lieta, che s’accordava a meraviglia col silenzio e colla romantica pace di quell’ora.
Sostò Garibaldi come incantato; e quando la tromba si tacque, esclamò:
– Che cara sveglia! Non è parso anche a voi di sentir nel cuore un non so che?... Un non so che di melanconico e d’allegro che non si può spiegare. Mi rammento di aver sentito questa sveglia un’altra volta, la mattina del giorno in cui vincemmo a Como... Correte a chiamarmi quel trombettiere...
Escii di corsa, accompagnato dal mio Nino Marchese, che mi guidò così al buio per certi scoscesi vicoli, pericolosissimi in causa delle pietre, bagnate ancora dalla notturna pioggia. Trovata una caserma dove alloggiavano i soldati di Bixio, trovai anche il desiderato trombettiere (un bel giovine bergamasco, poi ufficiale nell’esercito) e lo condussi meco.
Garibaldi era seduto al tavolino e aveva scritto alcuni appunti. Quando vide il suonator di tromba, gli chiese:
– Siete voi che avete suonato la sveglia?
– Sono io, perché son solo di trombe.
Infatti, avevamo tra tutti un solo trombettiere e non più.
– E chi ve l’ha insegnata quella sveglia?
– La imparai, l’anno scorso, nei Cacciatori delle Alpi.
– Dunque la suonaste ancora nella mattina del giorno che ci battemmo a Como?
– Sissignore...
– Bravo! Pigliate questo scudo e suonate sempre quella sveglia. Avete capito?... Non ve ne dimenticate.
*
* *
Escito che fu il trombettiere, restammo soli. Garibaldi prese allora in mano alcuni fogli pieni d’appunti, che erano sul tavolino, e disse a me:
Presi la penna e aspettavo che dettasse. Ma egli m’avvertì che non avrebbe detto se non l’idea di quel che avrei dovuto scrivere; e perciò stessi attento e non scrivessi ancora.
Si trattava di mettere in buona forma certi decreti. Il primo doveva annunziare al popolo siciliano che Giuseppe Garibaldi s’era fatto dittatore; il secondo istituiva la guardia nazionale; il terzo dichiarava aboliti parecchi ordini religiosi maligni o ricchi, cominciando da quello della compagnia di Gesù.
Quand’ebbi inteso ciò che dovevo fare, mi misi all’opera, mentre Garibaldi passeggiava la stanza per lungo e per largo.
Cominciai a scrivere il primo decreto, intestandolo colla formula da me inventata nell’accampamento dinanzi al Rampegallo, la quale diceva: «Giuseppe Garibaldi generale del popolo italiano, ecc., ecc.» come i lettori già sanno. Appena finito di scrivere il primo decreto, ne avvertii Garibaldi, il quale mi disse:
– Leggete.
Lessi. Quand’ebbi letto, ei mi venne vicino, e soggiunse:
– Cancellate quelle prime tre righe, che non vanno bene.
Lo guardai meravigliato, non sapendomi capacitare che quelle tre innocentissime righe non avessero a piacergli.
– Scrivete come io vi dico: – ripigliò il generale – «Italia e Vittorio Emanuele»; e poi seguitate, e va bene così.
Ricopiai il decreto, correggendolo come egli volle, e scrissi gli altri due.
Avevo terminato appena il mio lavoro, quando entrarono nella stanza Sirtori e Türr.
Il generale prese i tre decreti e li porse al suo capo di stato maggiore. Poi disse a me:
– Dite che mi sellino il cavallo e fate che tutto sia pronto tra dieci minuti.
Escii e feci quel che dovevo fare; e poi, tratta dalla scuderia la mia nuova cavalcatura, salii su, e tenendomi vicino il ragazzone siciliano, aspettai che il generale scendesse.
*
* *
A un’ora di giorno, poco più, stavano schierati i Mille fuori di Salemi, quando comparve il generale e ordinò che si suonasse: «Avanti».
Era una limpida e fresca mattinata di primavera, e le odorose piante del Mezzogiorno, stillanti ancora per la pioggia recente, imbalsamavano l’aria delle fragranze più care. La strada veniva inclinando con rapido pendìo, verso una spaziosa valle verdeggiante e fiorita, chiusa in fondo da una montagna altissima e bruna, accavallandosi, di quando in quando, sui monticelli che la frastagliavano coi loro fianchi.
Si procedeva lentamente e con cautela, come si usa farsi in vicinanza del nemico, e con tutte le buone regole di guerra, marciando il generale coll’avanguardia, come quegli che, in certi casi, non era uso fidarsi che dei propri occhi. Cavalcava un morello piccolo e pien di brio, e lo seguiva la sua scarsa e improvvisata cavalleria, composta dei soliti suoi ufficiali, di Nullo, di Missori e di sette o otto siciliani. Venivano dietro a brevi intervalli le compagnie, divise in due battaglioni, comandati da Bixio e da Carini, ai quali seguivano due cannoni, montati, come ho già detto, su certi affusti, fatti per compenso co’ migliori argomenti che poterono aversi in Salemi. Andavano ai fianchi della piccola colonna, percorrendo i campi, le squadre siciliane di Coppola e di Sant’Anna; chiudevano la marcia i carabinieri genovesi. Tutta questa gente sommava appena a quindici centinaia, contandovi diversi ragazzi e non pochi uomini di toga e vecchioni, venuti da Genova colla spedizione. V’erano armi e vesti d’ogni sorta; la lancia accanto alla carabina e alla sciabola irrugginita, la giubba e il paletot paesano in mezzo alle camicie rosse e alle varie uniformi dell’esercito regolare. La gente ci guardava stupita, e raro accadeva che qualche voce ci salutasse con un evviva, che non trovava eco, o la trovava fiochissima.
Garibaldi era sereno in volto, ma poco o punto vago di discorrere; si conosceva da lontano un miglio che andava mulinando qualche audace colpo, e si raccomandava alla fortuna, e al felice ed animoso ingegno, acciò riescisse non inferiore alla sua fama il primo fatto d’armi che inaugurerebbe quella guerra.
Dopo sei miglia di cammino, percorso lentamente, vedemmo biancheggiar tra gli alberi le casette del piccolo borgo di Vita, aggruppate in pittoresca foggia sul pendìo di una collinetta.
Garibaldi fermò la colonna e spedì Nullo con tre siciliani ad esplorare il paese, facendoli seguire a breve distanza da una mezza compagnia. Mentre Nullo esplorava, il barone di Sant’Anna che aveva marciato colla sua squadra sul fianco destro della colonna, condusse al generale certi contadini dai quali seppe che un corpo di truppe napoletane era giunto, la sera innanzi, nella vicina città di Calatafimi, ma non seppero dirgli quanto numerosi fossero i nemici.
Quando i villani ebbero vuotato il sacco delle loro notizie, il generale dette alcuni ordini a Sirtori e a Türr; e poi, udito da Nullo, reduce dalla sua recognizione, che il villaggio era libero, s’avviò a quella volta con tutti noi.
Il paese di Vita, non ci fe’ accoglienza né buona, né cattiva; perché rara fu la gente che vedemmo, e questa non si occupò di noi, più che non si sarebbe occupata di una comitiva di viandanti che andassero a qualche vicino mercato.
Giunti che fummo alle ultime case del villaggio, Garibaldi arrestò di nuovo la colonna, e si spinse innanzi con que’ pochi che eravamo a cavallo, seguendoci, col miglior passo che poterono, i carabinieri genovesi e le guide. Andammo di buon trotto un bel pezzo, cioè fino al punto in cui la strada, incassata fra i poggi, s’allarga su d’un’altura che domina la valle, sottoposta a Calatafimi, luogo adattissimo per scuoprire il nemico, caso mai s’avanzasse, e per vedere da qual punto avremmo potuto assalirlo noi, qualora avesse avuto in animo di guadagnar tempo a nostro rischio, e tenersi sulle difese, sinché per terra o per mare non gli giungessero i rinforzi. Colà ci lasciò nel mezzo della via, dicendo che l’aspettassimo e tornerebbe presto. E seguito da Missori e dai soliti otto o dieci siciliani, e da Basso che gli recava il suo gran cannocchiale, volse a man destra, inerpicandosi su d’un monticello, coperto di fichi d’India e di olivi.
Da quell’altura scoperse l’intiera ed angusta valle, che dovea essere il nostro campo di battaglia, chiusa, a mo’ di conca da una corona di poggi, fra i quali appariva altissimo il monte tagliato a cono, sulla cui cima sorge torreggiante Calatafimi coll’antica sua rocca.
Esplorò Garibaldi lungamente la valle e le alture senza scuoprire indizio del nemico, il quale avea appostate le sue scolte al coperto, e spiava con cautela i nostri andamenti, lusingandosi, forse, di poterci cogliere alla sprovvista. Lasciato poi il cannocchiale, fece ai siciliani parecchie dimande in proposito dei luoghi e delle distanze; quindi mandò ad ordinare a noi che spingessimo innanzi sul lato sinistro qualche squadra d’insorti e mandassimo a lui il colonnello Türr.
Mentre Garibaldi dava a Türr gli ultimi suoi ordini circa il modo di schierare i Mille in semicerchio su quel lato della valle, noi avevamo disposte prudentemente le nostre brave sentinelle sul fronte di battaglia, e stavamo novellando a crocchio, adagiati sulle larghe selle dei cavalli, che parevano poltrone. Si parlò, per qualche momento, della battaglia vicina, e del numero probabile dei soldati regi e del proposito che mostrava aver fatto Garibaldi, di menar le mani ad ogni costo ed a qualunque rischio, anzi che dar pessima mostra di sé e di noi ai siciliani, buttandosi alla montagna, in sembiante di fuggiasco.
Erano lì a crocchio da una mezz’ora buona, quando capitò Nino Bixio su d’un bel cavallo bianco, grande e feroce quanto quello turco, che ebbe sotto di sé Giovanni dalle Bande Nere al passaggio dell’Adda.
– O che s’aspetta? – ci chiese Bixio, frenando a stento il cavallo, che dava a vedere d’aver molti grilli pel capo. Dov’è il generale?
– Il generale è lassù – risposi io, insegnandogli il monticello a man destra.
Bixio si provò a volgere la sua bestia per andarsene dal generale, ma la bestia, avendo annasato tra le nostre cavalcature qualche femmina, cominciò ad inalberarsi e a nitrire in sì fiero metro, che una bestia selvaggia parve e non un cavallo. Erano due forsennati a combattere; il cavallo voleva levar la mano al cavaliere o toglierselo di sulla groppa, e faceva mulinello e saltava come un montone: il cavaliere, sguainata la sciabola, menava bòtte da disperato. Finalmente, il cavallo, sentito di non aver sulla groppa un uomo di stoppa, disperando di buttarlo giù, pigliò di gran galoppo la strada e tornossene a Vita, dove la gente riescì a fermarlo e ridurlo nei termini della discrezione. Intanto, mentre il destriero di Bixio facea il gallo, i nostri cominciarono a nitrire anch’essi e a saltabeccare come i caproni; e Montanari, che forse avea sotto la bestia più indocile, e forse era fra i tanti cattivi cavallerizzi il peggiore, mancandogli improvvisamente le staffe, capitombolò a terra in mezzo e un nembo di polvere.
Sorse in piedi il pover’uomo, che pareva un pesce infarinato per esser fritto, e tornando in sella, cominciò a raccomandarsi che gli dessimo un po’ da bere. Montanari non era uomo da chiedere acqua, ma noi non avremmo avuto da dargli nemmen quella, perché le nostre borracce erano asciutte, come quelle degli ebrei nel deserto, prima che Mosè bucasse le rupi per farle piangere.
E Montanari, incredulo più di San Tommaso, disse:
– Le borracce son vuote, o ghiottacci, ma non mi si leva dalla testa che qualcuno di voi non abbia in tasca qualche riserva. Io vidi in una certa valigia del generale due bottiglie di cognac, che gli regalarono a Genova, e Bandi o Stagnetti debbono averle stappate stanotte per farsene una provvista...
Poi, occhiando la mia sacchetta di pelle che era molto gonfia, gridò:
– Bandi tira fuori il cognac o ti strappo i baffi.
– Vieni, vieni – risposi. – Ho proprio qui dentro il cognac che ci vuol per te, vecchio demagogo; e te l’ho serbato apposta.
E aperta la sacchetta e tolte le brutte copie dei tre decreti, scritti qualche ora innanzi, lessi ad alta voce: «Italia e Vittorio Emanuele...».
– Oibò! E chi t’ha fatto scrivere quest’eresia? – chiese Montanari, stringendo il pugno.
– Credi che l’abbia inventata io? – risposi. – Me l’ha dettate il generale queste parole, e ha voluto che le mettessi in luogo di certe altre mie.
Io non m’arrischio a ripetere il gran sagrato modenese che lanciò verso la Divina Onnipotenza il mio povero Montanari; ma ripeterò fedelmente le parole che tennero dietro al sagrato, e furono le seguenti:
– ...Son fuggito in Svizzera, son fuggito in Francia, in Spagna, nel Belgio e fino tra i greci per non sentir rammentare la casa di Savoia; ed ecco che qui in Sicilia mi tocca a sentirla, in bocca di chi?... in bocca di Garibaldi. Dianzi, son caduto da cavallo, adesso sento rammentare Vittorio Emanuele; mi manca la terza disgrazia, e scommetto che verrà... Oggi, la prima palla è la mia.
L’infelice era presago purtroppo, e non passarono due ore che la sua profezia fu compiuta.
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* *
Adesso, chi legge queste pagine, spalanchi gli occhi e si prepari a sentir raccontare che uno dei Mille abbandonò il suo duce e i compagni per vendere l’uno e gli altri ai generali del Borbone. Ridevano tutti della curiosa profezia e più dello strano paragone del Montanari, quando un volontario passò tramezzo a noi che occupavamo la strada quant’era larga, e fece per andare oltre.
– Ehi, giovinotto – gli chiesi – dove ve n’andate?
– Vado avanti – rispose l’altro a muso duro, squadrandomi con certi occhi, che mi parvero d’una volpe.
– Andrai avanti quando sarà tempo – soggiunsi – ora vattene indietro, e sta’ coi tuoi compagni.
L’ostinato borbottò qualche parola tra i denti, e finse di non avermi inteso. Allora, io mossi il cavallo e gli passai innanzi, e gli dissi:
– Ti ordino che torni indietro.
– E chi sei tu che dài ordini?... – gridò il brutto ceffo.
– Son Cristo, se non ti piace ch’io sia un ufficiale d’ordinanza del generale. Torna indietro, dico, e non ripetere.
Il manigoldo allora cominciò a gridare a più non posso, giurando esser libero d’andare dove gli pareva e protestando che noi volevam tenerlo indietro, per gelosia del suo gran coraggio, e mille altre cose che non poteano stare né in cielo, né in terra.
A quelle grida accorsero Menotti Garibaldi, Elia e Schiaffino; tre compagni indivisibili, belli e animosi tutti e tre, e vestiti alla medesima foggia, tanto che sino dal giorno innanzi, avevo cominciato a chiamarli scherzosamente: «I tre moschettieri». Menotti, udito che ebbe di che cosa si trattava, disse al furfante:
– Torna alla tua compagnia, e se hai quel gran coraggio che vanti, aspetta a mostrarlo quando sarà tempo.
Allora si fece innanzi Elia e volle tentare persuaderlo e colle buone parole si provò a fargli intendere che in tempo di guerra, e dinanzi al nemico, non fu mai permesso ai soldati di oltrepassare a loro capriccio la linea degli avamposti, ma colui alzò dispettosamente le spalle, e fece atto di passare innanzi.
Schiaffino, che era tutto fuoco, non seppe starsene alle mosse, e acchiappato l’impronto per le spalle, lo fe’ girare come una trottola. L’impronto, appena fermo sulle proprie gambe, fe’ cenno di metter mano alla baionetta, ma Elia avvinghiatolo con ambe le braccia, lo scaraventò sopra un greppo che era a fianco della strada.
Il tristaccio s’alzò tutto confuso e minacciandoci degli sguardi, tornava indietro colla coda fra le gambe, in mezzo alle risate dei miei compagni. Ma a me il caso non parve così liscio, come agli altri pareva, e dissi a due volontari che erano lì presso:
– Seguite quell’uomo e vedete a qual compagnia appartiene, e dite in mio nome al suo capitano che non lo perda di veduta, perché e’ deve essere o un matto o un briccone matricolato.
I due volontari si dovettero occupare assai poco di quanto io avevo detto, o poco se ne occupò il capitano della compagnia, perché il briccone (che tale era davvero) trovò maniera di battersela, e girando largo da noi, si presentò agli avamposti nemici, annunziandosi disertore e dicendo di aver gran cose da rivelare.
Infatti, un mese e mezzo di poi, essendo io nel palazzo pretorio di Palermo, e scartabellando un gran fascio di carte, lasciate, nel fuggire, dal famoso Manescalco, proconsole del re Bomba in Sicilia, trovai e feci leggere a Garibaldi e a tutti una lettera, che, accompagnava al maresciallo Lanza un disertore garibaldino, per nome C***. Questo C*** s’era messo spontaneo nelle mani dei borbonici poco prima che il combattimento cominciasse presso Calatafimi, dicendo che con lusinghe e promesse l’avean condotto da Milano, in Sicilia, e che era pentito d’aver ceduto alla tentazione, e faceva ammenda onorevole del suo fallo, implorando la misericordia del magnanimo re Francesco.
La lettera soggiungeva che il disertore sopradetto avea risposto con grande apparenza di sincerità alle domande che gli erano state fatte, e avea palesato il numero dei seguaci di Garibaldi e i propositi che Garibaldi pareva aver fissi: dicendo ancora che nelle file dei «filibustieri» regnava grande lo sgomento per non aver trovato pronti nell’isola gli aiuti che speravano, e che non tarderebbero laddove il destro si offrisse, a piantare col buon giorno e buon anno il loro condottiero, per ricovrarsi sotto le grandi ali della clemenza di sua maestà.
Quand’ebbi letto quella lettera, mi rammentai subito di quanto mi era accaduto presso il villaggio di Vita e mettendo insieme i fatti, argomentai con certissime prove che il C*** non era altri, se non quel furfante che avea tentato di compiere il suo tradimento, passando tra mezzo a noi, per la via maestra.
Più tardi, cioè nel mese di dicembre, quando l’esercito meridionale era in procinto di sciogliersi, e quando si dispensarono in Napoli le medaglie ai Mille, Missori e Nullo mi chiamarono, un bel giorno, per narrarmi che il famoso C*** aveva avuto il fresco cuore e la freschissima faccia di presentarsi a loro e di chiedere pulitamente e bene la medaglia dei Mille e il brevetto.
– Davvero! – esclamai meravigliato di tanta audacia. – E voi che faceste?
– Io – rispose Missori – non fui in tempo a far niente, perché l’amico Nullo lo trattò come si meritava, e dopo averlo smascherato in faccia alle molte persone che eran lì con noi, lo cacciò fuor della porta a suon di calci.