Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

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Saranno state le dieci quando Garibaldi tornò giù tra noi e mi disse:

Andate un po’ innanzi per la strada e cercate di scuoprire il nemico. Abbiate cura di fermare tutta la gente che passa e d’interrogarla e che nessuno passi innanzi a voi. Guardate però dove mettete i piedi, ché non v’abbiano a pigliar prigioniero.

Vennero con me dodici bergamaschi, tra i quali era un vecchietto che poi seguì Francesco Nullo in Polonia, e raccolse sul campo infelice l’ultimo sospiro di quell’anima generosa. Ma prima che mi allontanassi, Garibaldi mi chiamò indietro, raccomandandomi di non tirar fucilate se non in caso di assoluta necessità, e di guardare che pesci fossero certi uomini armati, che avea scorti col cannocchiale al di qua di Calatafimi.

– Può esser certo – risposi – che non sciuperemo cartucce; ma, in quanto al vedere, vedrò finché gli occhi mi aiutano.

Anche questa volta, il generale domandò un binoccolo per me, e il binoccolo me lo porse Francesco Crispi.

Presi, dunque, la strada coi miei bergamaschi e camminammo alquanto, guardando per ogni parte, e fermando e interrogando quanta gente s’incontrava. Le risposte che avemmo da tutti confermavano la voce già sparsa, che il nemico fosse numeroso assai ed agguerrito di alquante artiglierie, ma nessuno tra i passanti veniva da Calatafimi, né poteva dirci quali posizioni avessero scelte i borbonici.

Dopo un bel pezzo, notai in distanza, sopra un’altura che sorge dinanzi alla città, una banda di alquanti uomini; guardai attentamente e mi accorsi che erano vestiti alla borghese, su per giù come i più puliti tra i nostri insorti, e muovevano verso noi collo schioppo sulla spalla. Non vedendo per parecchio tratto all’intorno nessun soldato, pensai che quegli uomini fossero insorti che venivano a far causa comune con noi, e argomentai che se i regi eran mossi veramente da Palermo, non fossero ancor giunti in Calatafimi.

Comunicato questo mio pensiero al più vecchio dei bergamaschi, e trovato il senatore bergamasco del mio stesso parere, decisi farmi incontro ai creduti insorti, e avvicinarmi insieme con loro alla città. Per buona sorte, non avevo fatto ancora molti passi, quando un carrettiere che passava per recare certo grano a un mulino, mi avvertì che non andassi oltre se non volevo imbattermi nei compagni d’armi.

Capii a frullo che que’ compagni d’armi non potevano essere buoni compagni miei; pure dimandai al carrettiere chi essi fossero ed egli me li descrisse come seppe, perché la sua lingua pareva alle mie orecchie poco meno che turca.

Si trattava, dunque, d’aver vicini i birri della peggiore specie; cioè que’ malanni, che il governo borbonico assoldava nelle campagne per far guerra a’ malandrini, ed erano i malandrini peggiori, perché servivano, nel tempo stesso, il diavolo e Sant’Antonio; gente feroce e ingorda e nemicissima de’ liberali e capace di qualunque scelleraggine per ingrazionirsi coi padroni.

Era evidente che i signori compagni d’armi venivano a scuoprir terreno e precedevano i soldati i quali veramente erano in città; e il buon carrettiere mi accertò che disegnavano assalirci nella giornata e millantavano voler condurre Garibaldi a Palermo, legato sopra un asino.

Stavo tuttavia ragionando col mio nuovo amico, allorché il calpestio di un cavallo che trottava dietro di me, mi fece volgere. Era un siciliano che veniva da parte di Garibaldi ad avvisarmi che tornassi subito indietro. Costui, appena m’ebbe partecipato quell’ordine, soggiunse:

– E dove volevi andare, eccellenza? Volevi andartene coi pochi tuoi uomini a Calatafimi, dove stanno tante migliaia di soldati del Barbone?

Non ebbi tempo di rispondere al curioso ambasciatore, perché il carrettiere frustò vigorosamente la sua bestia, e m’additò un drappello di cavalleggeri, che passo passo se ne veniva esplorando lungo la strada. Guardai col binoccolo quei signori cavalieri; eran benissimo in arnese, e portavano in capo berrette nere con la nappa, simili nella forma al fez dei nostri bersaglieri.

La mia guida ci fece entrare nei campi a sinistra della strada, volgendo le spalle a Calatafimi, ed entrammo in una bella vallata, tutta verdeggiante di pianticelle di fave, e sparsa qua e di alberi da frutto. Le alture che chiudevano in faccia a noi la vallata, erano piene di volontari; i poggi, che sorgevano dietro quelle alture, si cominciavano a coprire di numerose torme di villani, che con le loro bestie andavano a cercare ricovero lassú, e a godersi la battaglia imminente, e risolvere, secondo l’esito di questa, a gridar viva Garibaldi! o viva re Francesco!

Ad un tratto, una voce si udì per la valle silenziosa, ed era la voce di Garibaldi che mi chiamava.

Bandi fate presto – mi gridò due volte o tre.

Ed io, volgendomi dal lato opposto, vidi scintillare ai raggi del sole le armi dei soldati borbonici.

Il siciliano, che avea un buon cavallo, andò innanzi per conto suo; io frustavo a più non posso, ma la mia rozza voleva fare il suo comodo. I bergamaschi, arrabbiati dalla sete, sgranavano baccelli, giurando a me che se non era la spedizione di Sicilia, non avrebbero mai sognato che creature umane potessero mangiar crude le fave e trovarle buone.

Trovai Garibaldi seduto sopra un greppo, intorno al quale sorgevano diverse piante di fichi d’India e qualche arboscello. Pochi passi dietro a lui erano i cavalli, ed io misi il mio a far loro compagnia, dicendo a Nino Marchese, che mai non s’era scostato da me:

– Non occuparti del cavallo; stammi vicino e fa quel che io farò.

Il generale vedendomi avvicinare al greppo dov’era seduto con le gambe penzoloni, mi chiese:

– Dunque? Ci sono soldati giù a basso?

Generalerisposi – ci sono i cosidetti compagni d’armi, che io chiamerò birri di campagna, ho visto poi un drappello di cavalleria, che potrebbe esser benissimo una punta di avanguardia.

Mentre così dicevo, Garibaldi tolse di mano a Basso il suo gran cannocchiale e lo puntò giù verso il basso. Guardando allora in direzione del suo cannocchiale, vidi la cavalleria nemica schierata sulla strada, dietro un monticello, che la divideva dalla valle.

– Ecco la nostra cavalleria, – disse Garibaldi e posò il cannocchiale.

In quel momento giunse il colonnello Türr, il quale annunziò al generale:

– La linea è pronta.

Va benerispose Garibaldi, ed accese un sigaro.

Mi posi a sedere anch’io sulle erbose zolle e vidi le colonne nemiche escir fuori dalla città e avviarsi verso di noi per le colline dove già le avea precedute l’avanguardia. A poco a poco mi accorsi che la mèta del loro cammino dovea essere il poggio che nascondeva sulla nostra sinistra la strada, e dietro il quale stava schierata la cavalleria. Da quel poggio volevano asserragliarci la strada, e magari girarci alle spalle, occupando, mentre combattevamo nella valle, il villaggio di Vita. I siciliani ci dissero chiamarsi quel poggio Pianto Romano, in memoria d’una gran batosta colà toccata, dai romani, dai soldati della città di Segesta, le cui rovine eran poco lontane da noi, tanto che si potea distinguere a occhio nudo l’antico tempio famoso, che sorge quasi intiero in mezzo alle vigne da cui si spreme il prelibatissimo segestano.

– Il nome di quel colle è un po’ bruttodissi – ma dove piansero i romani, tiranni del mondo, è giusto che ridiamo noi, nemici dei tiranni.

Il generale approvò con un cenno della testa quel mio felice presagio, e riprese il suo magno cannocchiale per guardare due cannoni nemici, da montagna, che sulla schiena dei muli venivano verso noi colla prima delle due colonne in cui s’era diviso l’esercito regio.

L’ora del combattere si avvicinava. Montanari che a dispetto dei suoi neri presentimenti, conservava buona dose del suo umor bizzarro e avea voglia più che mai di rinfrescarsi il becco per non combattere assetato, fattosi presso il generale, dimandò a voce alta:

– O quelle due bottiglie di cognac aspettiamo a beverle quando saremo morti?...

Garibaldi si volse sorridendo e disse:

Date il cognac a Montanari, che se lo beva e sia contento.

Fruscianti obbedì, ma da buono e prudente custode delle robe del generale, invece delle due bottiglie, ne consegnò a Montanari una sola; ed egli presala in braccio la carezzava come un bambino in fasce, e ne versò qualche goccia nelle nostre bocche, misurando le gocce come se si fosse trattato di laudano del Sydenham o di qualche altro pericoloso medicamento.

Vuotata la bottiglia, capimmo tutti che l’ora delle burle era passata, e che stava per cominciare un ballo terribile, nel quale non era per noi un terzo partito da scegliere oltre il vincere o morire.

Stavano alla nostra sinistra, dietro una spalliera di fichi d’India, i trentasei carabinieri genovesi, e accanto a loro le diciotto guide; poi, dallo stesso lato venivano alcune compagnie e due cannoni, che guardavano la strada, per impedire che i regi ci girassero per quella parte. Alla nostra destra stavano schierate le altre compagnie, e così il piccolo esercito formava un semicerchio. Le guerriglie siciliane aveano incarico di vegliare alle estremità delle nostre ali.

I volontari avevano avuto ordine di starsene chiotti chiotti e di non fiatare. «Guai», aveva detto Garibaldi, «guai a chi farà fuoco prima del comando!».

Ora, innanzi che io proceda oltre è necessario che narri un caso singolarissimo, pel quale si farà chiaro anche una volta, come non sia del tutto sciocca l’opinone di coloro, i quali hanno fede ne’ presentimenti e ritengono che spesso una misteriosa voce ci ammonisca delle disgrazie che ci stanno per accadere. Dissi già come Montanari, credendo che nello stesso giorno due malanni lo avesser colto, giurasse aver per certo che un terzo ed irreparabile malanno lo coglierebbe innanzi sera, per far così il numero perfetto. Adesso dirò come Desiderato Pietri sentisse in cuore, poco innanzi il mezzogiorno, che di a poco sarebbe morto in battaglia, e bramasse farmi dono delle cose sue, in articulo mortis.

Rammenterà il lettore che io parlai di costui, narrando il viaggio da Genova a Marsala, e commendai le carezze che mi fece e la gran cura, ch’egli ebbe nel prevenire ogni mio desiderio, accomodandomi delle migliori robe che erano in sua balìa. Era il Pietri, come dissi, cameriere sul Piemonte; e, cammin facendo, si palesò tanto avido del guadagnare, che soventi volte, fe’ pagar anche l’acqua, e seppe fare tante e sì smaccate angherie, che poco andò che non lo accusassero al generale. Parecchie volte, essendo testimone delle sue riffe, io mi feci a rampognarlo, dichiarandogli che non avrei avuto cara da lui alcuna dimostrazione d’affetto, quando e’ seguitasse a mostrarsi maligno e taccagno verso i poveri compagni nostri.

Alle quali parole rispondeva, dicendo:

– Io voglio bene a te, che sei l’unico, che fra tanta gente conosca, e fosti mio ufficiale al reggimento; con gli altri vocontrattare a soldo e lira, perché io son qui per far il mestier mio e non per acchiappare il fumo.

E non c’era verso di renderlo un tantin più umano e di fargli intendere essere ignominioso per lui, giovane animosissimo e soldato, che volesse dare a credere d’essersi mescolato fra noi per fare il bottegaio e non per altro. Egli aveva in tasca un passaporto francese in piena regola, e diceva a muso duro che, appena sbarcato il carico, se ne tornerebbe allegramente a Genova, infischiandosi di chi fosse rimasto in Sicilia a correre dietro alle farfalle.

Batti oggi, batti domani, Desiderato Pietri venne a tanto, che lo pigliai in tasca, e nell’ultimo giorno del nostro viaggio cominciai a guardarlo torto e ad averlo in conto d’un mal arnese, che non si meritasse neanche il saluto d’un galantuomo.

Scesi che fummo a Marsala, mi capitò fra’ piedi, due volte o tre, ma io gli volsi bruscamente le spalle; e altrettanto feci in Salemi. Ora, mentre dinanzi a Calatafimi eravamo in procinto d’assaggiare il primo fuoco, e i nemici si venivano avanzando per assalirci, ecco Desiderato Pietri farmisi dinanzi e dirmi:

Beppe, non mi vuoi più bene?

Tornerò a volertene, – risposi asciutto, asciutto – quando ti vedrò fare il galantuomo e saprò che hai dimenticato d’esser còrso, per essere italiano come me.

Vedrai adesso, – ripigliò Desiderato – se io mi rammento d’essere italiano, e vedrai come saprà morire il tuo vecchio sergente.

E sciogliendosi d’intorno alla vita una ventriera di cuoio, me la pose tra le mani.

– Che negozio è questo? – domandai. – Che cosa ho da farmi di questa roba?

Vedi, – soggiunse il Pietri – ci son dentro sessanta napoleoni d’oro, parte guadagnati in terra e parte in viaggio. Piglia quel denaro per amor mio, e non volere che caschi tra le unghie di qualche ladro, perché tra un’ora io sarò morto.

– Tu sarai morto? – esclamai. – E chi t’ha messo in testa una tal corbelleria?

Dico davvero, – rispose il Pietri. – Sento che debbo morire, e mi tengo già un uomo in agonia...

Lo guardai fisso nel bianco degli occhi, e credetti che il sole gli avesse dato al cervello. Ma il poveretto mi guardava serio serio e co’ più sani occhi del mondo.

Via, – dissiripiglia la tua ventriera, perché non voglio roba d’altri, e perché non sono uomo da accettare certe eredità.

E il Pietri a raccomandarsi e a scongiurarmi che non ricusassi quell’offerta che veniva dal cuore, dicendo che tanta grazia non gli dovevo negare né potevo negargliela, e dicendo tant’altre cose, che mi fecero strabiliare. Ma io tenni forte, e risposi:

Desiderato, vuo’ tu ch’io mi metta in tasca ciò ch’è tuo? Vuo’ tu vedermi morto? Non capisci, che, pigliando cotesti denari, segnerei la mia esistenza?... Va e se l’oro ti cattivo augurio, buttalo.

Il Pietri veduto che non c’era verso di smuovermi, si cinse nuovamente la ventriera e, guardandomi cogli occhi lacrimosi, ripigliò a dire:

– Allora, se non vuoi un ricordo da me, fa ch’io abbia un regalo tuo, e muoia con quello indosso.

Piglia, matto, – risposi, spalancando le braccia – tutto ciò che vedi, è roba tua.

Caso volle che io avessi annodato per la nappa all’impugnatura della sciabola un bel fez barbaresco, che avevo comprato a Genova. Desiderato Pietri pose la mano su quel fez, e disse:

– Me lo regali?

Piglialo, se vuoi.

– Lo piglio e verrà meco sotto terra se non me lo rubano.

E sciolto d’intorno alla fronte un fazzoletto di cotone che vi tenea annodato, si pose in capo il mio fez, mi dette due gran baci, e sparì.

 

 


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