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Pochi minuti prima del mezzogiorno, i soldati regi, giunti in tre colonne sulle colline più basse, dinanzi alla nostra, cominciarono a manovrare, spiegandosi e ripiegandosi, come se fossero sulla piazza d’arme, come se tentassero d’impaurire con una artifiziosa mostra di forza e di disciplina le turbe degli «scomunicati ladroni» cui non parea sembrar vero il fuggirsene senza pagar lo scotto.
Garibaldi, seduto sempre sul suo greppo, guardava tranquillamente quello spettacolo, esclamando di tratto in tratto:
– Per Dio! Come manovrano bene! Son belle truppe davvero!
Poi cominciarono a suonar le trombe, e suonavano ch’era meraviglia a sentirle. Erano le trombe dell’ottavo battaglione dei cacciatori.
Il generale stette un pezzo a sentir quella musica, fumando sempre il suo sigaro; e quando la musica tacque, si volse a noi e disse:
– Hanno buone trombe davvero! Facciamo che sentano un po’ la nostra.
E soggiunse, volgendosi:
– Dov’è la mia tromba?
– Son qui – rispose il trombettiere Tironi, che sedeva, pochi passi indietro, sull’erba.
E Garibaldi a lui:
– Fate sentire a quella gente la mia sveglia.
Ci guardammo in faccia meravigliati, e credemmo che il generale burlasse; ma egli non facea segno di ridere, e il trombettiere intonò con chiara e sonante voce la stessa sveglia, che nelle prime ore di quella mattina, gli avea procurato tanta lode e una bella moneta da cinque lire.
In quel momento, guardando co’ binoccoli i cacciatori nemici che cominciavano a spiegarsi a mo’ di ventaglio, notammo che si fermarono all’improvviso, stupiti di quella singolar cantilena della nostra tromba, tutta dolcezza e serenità. La solennità dell’ora, il silenzio profondo della valle e la novità di quel suono debbono aver fatto credere ai napoletani, che qualche Fata si pigliasse giuoco dei fatti loro, o che noi togliessimo a canzonarli, rispondendo colle soavi modulazioni dell’idillio alle provocatrici note delle squille guerriere.
Dopo che il trombettiere ebbe ripetuto la sua cantilena, Garibaldi gli fe’ cenno che tacesse, e disse a noi che gli eravamo accanto:
– Adesso pensiamo a dar due buone bastonate a quei signori.
Mentre egli così diceva, Desiderato Pietri saltò giù dal greppo, e col mio fez in testa e il suo bravo schioppo in mano, si diè a camminare contro il nemico, in mezzo alle fitte pianticelle delle fave, che cuoprivano la campagna.
– Generale, debbo chiamarlo indietro quel matto?
– Lasciatelo fare – rispose il generale. – Ognuno ha la sua ispirazione.
Tacqui e seguitai a guardare. Il povero diavolo, tratto pei capelli dal suo destino, camminò ancora cento o dugento passi, e poi fece alto, e s’inginocchiò. Garibaldi trasse fuori l’orologio e disse:
– Guarda, è mezzogiorno giusto.
Il cielo era sereno e tranquillo, e non si udiva per tutta la vallata lo stormire di una foglia.
I volontari erano distesi sull’erba, guardando il nemico.
Avevo in quel momento accant’a me due bersaglieri; tre o quattro passi indietro avevo Nino Marchese.
– Nino – gli dissi – tra qualche minuto sentirai fischiar le palle. Sta fermo e guarda me; e quando vedrai ch’io salto giù, seguimi senza paura e non fermarti sinché io non mi fermi.
Nino sorrise, e alzò il cane della carabina.
A quel rumore, il generale volse il capo, ed esclamò:
– Nessuno faccia fuoco senza mio ordine! Tirare da lontano è segno di paura.
In quel mentre le trombe napoletane suonarono avanti, e udimmo le voci dei capi-quadriglie ripetere i comandi. Poi, dopo alcuni istanti, udimmo uno strano coro d’impertinenze, che que’ bravi cacciatori ci regalavano per antipasto, mentre venivano innanzi gobbi gobbi, come se andassero a caccia alle quaglie. Gridavano que’ poveri soldatelli: «Mo venimme, mo venimme, straccioni, carognoni, malandrini». Un altro squillo di tromba, e le palle cominciarono a fischiare sulle nostre teste.
I due bersaglieri che avevo alla mia sinistra mi guardarono con tanto d’occhi, e io accennai loro che stesser fermi. Infatti il generale che s’era accorto che i fischi delle palle e l’avanzarsi rapido de’ cacciatori avea già messo l’argento vivo addosso ai volontari per tutta quanta la linea, si raccomandava più che mai, dicendo:
– Non tirate; fermi, ragazzi; lasciateli venir qui sotto, e poi li piglierete a legnate...
Ma il generale propone e il soldato dispone. Chi potea mai tenere più lungamente al canapo tanti puledri?
Nel tempo che il generale si raccomandava e tutti gli ufficiali ripetevano le sue parole, Carlo Mosto, fratello del capo dei carabinieri genovesi, gridò: «Indietro, canaglia!».
A questa voce tenne dietro un colpo di carabina, a quel colpo ne seguirono altri due, tirati dai due bersaglieri, miei vicini... Tosto altri cento rimbombarono e, nel punto stesso, Francesco Nullo, sbucato a cavallo di dietro una macchia, si slanciò colla sciabola nuda per la valle, gridando:
– Avanti alla baionetta!
Strappai di mano al trombettiere lo schioppo e saltai giù del greppo. Mi seguì Montanelli con la sciabola in pugno.
– Eh! per Dio! Non possono star fermi un momento!
Altre parole non potei udire di sua bocca, ma è certo che egli impedì, non senza grande difficoltà, che tutto il suo piccolo esercito non si precipitasse all’assalto.
Poco tratto avevamo corso, inseguendo i cacciatori napoletani, che fuggivano a più non posso e solo si fermavano, di quando in quando, per mandarci un saluto all’usanza de’ Parti, allorché vidi steso in mezzo ai solchi Desierato Pietri.
– L’ha avuta! – dissi a Montanari.
E Montanari mi fe’ un cenno, che volea dire: «Chi cerca, trova».
Procedendo innanzi, vidi un cacciatore, più indietro degli altri, che mi precedeva forse di centocinquanta passi. Volli bollarlo sulla schiena, ma lo schioppo mi fece cilecca. Cambiai il cappellotto, e giù da capo; ma da capo cecca!...
Allora mi rammentai quel che Garibaldi ci avea detto, che il fucile non dev’essere se non il manico della baionetta, e mi contentai di correre, senza fare pel momento ulteriori tentativi per rendere atto a far fuoco quel meschino catenaccio.
Corremmo un bel pezzo, dando la caccia ai cacciatori fuggenti, che volgevano a frotte verso sinistra, cercando riparo sul poggio, che indicai col nome di Pianto Romano, sul qual poggio erano in batteria due cannoni, sostenuti da parecchie compagnie. Volgendo, dunque, a sinistra, incontrammo una casetta disabitata e diverse piante di fico, in fondo a un’erta assai ripida, che era necessario salire, in barba alle palle e alla mitraglia che cominciavano a tempestare. Non so quanti fossimo allora, ma eravamo pochissimi.
Appena principiammo a salire quell’erta, cadde Giorgio Manin. Volli rialzarlo, ma non fu buono a reggersi in piedi e ricadde. Passò in quel mentre Benedetto Cairoli colla sua compagnia, e ci salutammo, gridando: «Viva l’Italia!». Eran pavesi, per la maggior parte, e correvano colla miglior voglia del mondo. Ci unimmo a loro, ma dopo pochi passi, Francesco Montanari cadde bocconi.
– Che hai, Montanari?
– Una palla in un ginocchio...
Lo volemmo rialzare, ma fu lo stesso che alzare un cencio.
– Aspettami, – dissi – verranno a prenderti o ti prenderò io quando sarà tempo.
Il poveretto, mi par di vederlo ancora, alzò la mano tre volte o quattro finché io mi volsi a guardarlo, e parea dirmi: «Non ti scordare di me!». . . . . . . . . . . .
Quando giungemmo sotto la spianata che sovrasta al poggio, eravamo trafelati. Fortuna volle che il ciglio della spianata venisse giù, in guisa di parapetto, un po’ più che ad altezza d’uomo, e ci servisse di riparo, dal quale ci fu agevole il tener fermo alquanto il nemico, bersagliandolo colle carabine dei genovesi e con quegli schioppi della compagnia di Cairoli, che furono buoni a far fuoco.
Mentre stavamo sopra il ciglio della spianata, due o tre volte i napoletani mossero correndo per venirci addosso, e altrettante volte si fermarono e tornarono a’ fianchi de’ cannoni. Noi li udivamo gridare: «Viva ’o re!» ed una volta intonammo il nostro inno, ma per la gran fatica della corsa fatta, si rimase a mezza strofa.
Intanto, uno dei genovesi, che ebbe nome Profumo, bello e carissimo giovane, sollevandosi sul parapetto, fu còlto da una palla e lasciato lì sul tiro. I compagni l’appoggiarono colle spalle al greppo, e parea che dormisse. Lo baciai, e volli sentirgli il cuore; il cuore di quel martire batteva ancora.
– Che facciamo noi qui? – mi disse Benedetto Cairoli. – Montiamo sopra e finiamola.
– Montiamo, – risposi, e in quanti eravamo, montammo su.
Se invece di salire su quell’altipiano, fossimo scesi nella bocca d’inferno, credo che il fumo e il fuoco non sarebbero stati in tanta dose. Perduti quindici o venti compagni, le cui grida dolorose mì suonano ancora negli orecchi, tornammo giù sotto il ciglio, e fu ventura che i napoletani si fermassero a mezza la spianata e non avessero cuore di venire oltre.
Mi volsi per vedere se qualcuno venisse a soccorrerci, e vidi a metà dell’erta una compagnia. Fu riconosciuta per la compagnia dei bergamaschi, e tosto un grido di giubilo la salutò: «Viva Bergamo!».
Incontanente, avuto questo rinforzo, ripetemmo l’assalto, e montammo su. Ma la prova fu infelice anche questa volta; e dopo aver lasciati per terra alquanti de’ nostri, fra i quali il tenente De Amicis, che avendo veduti i cannoni, era corso a compiere il suo voto, tornammo dietro la provvidenziale trincea.
Pochi minuti eran corsi da quella seconda ritirata, quando alte grida che suonavano dietro di noi ci avvertirono che nuova gente veniva a soccorrerci.
Precedea quella gente Nino Bixio, a cavallo, il quale, chiamando a nome quanti di noi conosceva, cominciò ad invitarci ad un terzo assalto, e si mise a correre intorno alla spianata, agitando la bandiera di Garibaldi, che aveva nelle mani. Le gran schioppettate che ebbe quel demonio, quando fu alla destra della spianata, dove il ciglio era bassissimo e non offriva alcun riparo, sono impossibili a ridirsi; ma pareva fatato, e corse e ricorse e sventolò la bandiera sul viso ai nemici, senza che neanche lo stoppaccio d’uno schioppo lo cogliesse, per quanto i cacciatori lo tempestassero talvolta quasi a bruciapelo.
Giunto che fu il soccorso, Menotti Garibaldi tolse di mano a Bixio la bandiera, e seguito da Schiaffino e da Elia, montò sulla spianata. Un minuto dopo, ne scesero tutti e tre, e Menotti porse la bandiera a Schiaffino. Bixio e Menotti, gridavano, incoraggiando i soldati a salir di nuovo all’assalto; e l’assalto fu rinnovato ancora.
I regi erano stati ingrossati da parecchi rinforzi, noi eravamo il doppio più di prima. La zuffa ricominciò più accanita e feroce; le palle grandinavano da ogni parte; e di tanto in tanto si sentiva passare sulle nostre teste la mitraglia, flagellando l’aria come il vento che stormisce furioso tra le fronde.
Ora, io narrerò quel che vidi co’ miei occhi, soltanto, lasciando agli altri la cura e la fatica di raccontare quel che videro con gli occhi loro.
A quel terzo assalto, chiamandomi Bixio a voce alta, seguii il suo cavallo, là dove si entrava sulla spianata quasi senza alzare il piede. In un baleno, il fumo mi ravvolse, e tra il fumo, che il vento dileguava a tratti, vidi che eravamo frammisti, alla rinfusa, garibaldini e borbonici, e si combatteva a corpo a corpo, e con tutte le armi che venivano tra le mani, non esclusi i coltelli e non esclusi i sassi.
Era una pugna feroce, dolorosa unicamente perché fra italiani si combatteva.
Il gruppo dei garibaldini più vicino a me, era formato da Menotti, da Elia e da Schiaffino che aveva la bandiera. I borbonici erano quasi sull’orlo del ciglio della spianata e menavano sante busse. Un drappello di costoro, veduta la ricca bandiera, si fe’ vicino al terzetto, e cominciò a serrarglisi sopra. I tre moschettieri, belli e bravi quanto possono essere tre eroi da romanzo, tirarono colpi di carabina e di revolver finché ebbero cariche le armi, poi si avventarono colle baionette in resta contro gli assalitori.
Me ne rammento come in sogno, perché io pure avevo pane pe’ miei denti. Il drappello dei cacciatori che voleva conquistar la bandiera ad ogni costo, si spinse, gridando, addosso ai tre compagni. Due cacciatori afferrarono la bandiera e ne strapparono un lembo; Elia e Menotti li respinsero ancora.
Vedendo la bandiera in quel tremendo risico e quasi sola nel mezzo ai nemici, cominciai a gridare: «Salviamo la bandiera!». E tre o quattro che mi erano più vicini, mossero con me verso la bandiera. In quell’istante, cioè quando fummo distanti venti passi o poco più dal valoroso terzetto, sopraggiunsero sette o otto cacciatori, a capo dei quali era un sergente, alto della persona e rosso, e tutti insieme unitamente agli altri, avvilupparono i tre. Il fucile del sergente, appoggiato colla punta della baionetta al petto di Schiaffino, fece fuoco, e Schiaffino cadde indietro sollevando in alto, nel cadere, la bionda e lunga barba, e lasciò la bandiera, che in mezzo a grida di giubilo, sparì dai miei occhi. Nel tempo stesso che Schiaffino cadeva, Menotti era ferito in una mano, ed Elia riceveva una palla in bocca, che lo stese per morto.
Avevo messo un terzo cappellotto al mio fucile, dopo aver forato ben bene con uno spillo il focone; ma come non era ragionevole che mi fidassi del fucile, tirai tutti i sei colpi del mio revolver nel branco dei cacciatori, e non saprei dire in coscienza se i miei colpi colsero, o se andarono a vuoto. Dirò soltanto che il sergente rosso non lo ammazzai, né mi venne fatto di ferirlo; e noto questo perché non andò guari che ei fu lì lì per ammazzar me, come vedremo fra poco. Ma di quel diavolo di sergente riparlerò nel capitolo che segue, dicendo chi fosse e qual morte gli toccasse. Sparita la bandiera e spariti i più audaci dei cacciatori, sopraggiunse di bel nuovo Nino Bixio, gridando come un falco, e mi chiamò a nome più volte, e si cacciò in mezzo al fumo, che accecava gli occhi ed ammorbava col puzzo acre dello zolfo. Le palle non fischiavano più, ma miagolavano alle mie orecchie come tante gatte in amore. Mi cacciai correndo, dietro quello spiritato, e dopo alquanti passi mi fermai, non avendo accanto se non un giovane siciliano, che ho riveduto in seguito, parecchie volte, e sempre mi ha rammentato quel fatale momento.
Stando fermo nel punto dove mi ero messo, vidi improvvisamente quel sergente rosso, che aveva ucciso Schiaffino, ricaricare, a pochi passi da me, il suo schioppo e guardarmi fisso con certi occhi, che ripensandoci, mi paiono fossero due carboni accesi. Capii subito che se quel diavolo terminava di caricare il fucile, ero spacciato per aeterna saecula; laonde, spianai la baionetta, e gridando il nome di Garibaldi, mi slanciai sul sergente. Io non so dire se fu il sergente o se fu altri che mi tirò; ma sta il fatto che una gran botta mi colse sopra la mammella destra, e caddi per terra, non altrimenti che mi ci avesse spinto un vigoroso pugno.
Un urlo feroce salutò la mia caduta, e quell’urlo lo mandò il sergente e lo mandarono i suoi compagni, che avendomi visto indosso una divisa che si distingueva dalle altre, credettero che la fortunata palla avesse tolto dal mondo un qualche pezzo grosso, e non un pover’uomo qualunque, nato e destinato a far numero.
Mi riebbi quasi subito, e mi ritirai indietro carponi, e così percorsi un tratto di quaranta o cinquanta passi, finché non vidi un gran numero dei nostri farsi innanzi, e non udii tante voci gridare: «Salviamo il generale!».
Alzai gli occhi e vidi allora Giuseppe Garibaldi nell’attitudine nella quale auguro che lo vegga in sogno lo scultore che, primo, dovrà modellare la statua dell’eroe; aveva il cappello sugli occhi, lo sguardo acceso, la bocca sorridente e un pezzo di sigaro in bocca, e stringeva colla destra la sciabola e stava dritto come sta San Giorgio, effigiato da Donatello.
Veduto il generale, saltai su, ed e’ mi vide subito e mi disse, vedendomi insanguinate le mani:
– Nulla, – risposi – una pillola che mi è toccata, ma spero che la digerirò.
Tutti si serravano intorno a lui, e conobbi che il momento era terribile, e le palle fischiavano e miagolavano da tutti i lati. Sirtori giunse, proprio allora, galoppando su di un cavalluccio, e si fermò accanto a noi, chiamando con gran voce i soldati, che avea dietro, e che erano le ultime carte che si giocavano in quella incerta partita, e chiese al generale:
– Generale, che dobbiamo fare?
Garibaldi guardò intorno, e con voce tonante gridò:
– Italiani, qui bisogna morire.
E per vero, la gente moriva e moriva volentieri; ma quella tempesta di palle, che ci sfolgorava per ogni parte, avea cominciato a dar da pensare a parecchi.
Adesso racconto un episodio doloroso, che ho sempre nella memoria, e che mi tien vivo un sentimento ineffabile di compassione.
Capitò accanto a me l’ungherese Tuckery, uomo valorosissimo, che doveva, indi a poco, essere ucciso sotto Palermo. Questo Tuckery, vedendo il gran pericolo che correva il generale, mi disse, accennandolo, essere un gran peccato che egli si tenesse così scoperto dinanzi al nemico, e in un punto dove le palle venivano da ogni parte. Infatti, le guerriglie siciliane schioppettavano su’ nostri fianchi alla maledetta, facendo poca o punta attenzione alla via che pigliavano le loro palle, e una parte dei regi cominciava a girare la nostra diritta.
Queste cose me le fece notare parlando in francese, ed io gli dissi nella stessa lingua, ma più piano che potei:
Tuckery accennò di sì; mentre ei si volgeva a Sirtori per dirgli non so che cosa, un bel giovane alto, con baffi neri, vestito colla camicia rossa e con un cappello nero di feltro sulla testa, si fece innanzi a Garibaldi, gridando:
– Generale, siamo presi in mezzo! – e accennava le compagnie dei regi, che facean mostra di girarci dietro davvero.
Quelle parole, proferite così a voce alta, eran tali da sgominare un esercito, non che la piccola banda dei poveri volontari, che combattevano facendo dei loro corpi scudo al generale; e il generale conobbe subito il gran rischio che si correva, perché sollevata la sciabola, fe’ segno d’avventarsi sul malcauto lombardo, e gridò con voce terribile:
– Vigliacco! Una parola ancora, e vi taglio la faccia!...
L’infelice, che non aveva avuto colpa se non di esser novizio innanzi alle fucilate, diventò come la bragia, alzò le mani come per raccomandarsi a Dio, e poi si cacciò di corsa in mezzo al fuoco, e là scomparve per sempre dai nostri occhi.
Garibaldi lo aveva chiamato vigliacco!...
Ma è fama che in quel momento disperato, Nino Bixio dicesse a Garibaldi:
– Generale, ritiriamoci!
Ed è fama che Garibaldi rispondesse a Bixio:
Quelle parole non giunsero a’ miei orecchi, e io debbo registrarle sulla fede degli altri, senza però mettere in dubbio che fossero pronunziate veramente, perché così la domanda come la risposta mi paiono naturalissime ed adattate quanto mai alle strettezze di quell’ora.
Nino Bixio aveva ragione di dire a Garibaldi: «Ritiriamoci», e Garibaldi aveva centomila ragioni per rispondere come gli rispose. Dove potevamo ritirarci? Non era chiaro che, volgendo noi le spalle su quel terreno quasi nudo, saremmo stati conci a quel biondo Dio, prima che avessimo riguadagnato le colline dirimpetto? E non c’era anche da aspettarsi che le turbe numerose dei siciliani che s’affollavano sulle cime dei più alti poggi, aspettando l’esito della battaglia, nel vederci rotti e fuggiaschi, ci si chiarissero nemiche?
Non c’era da scegliere. Era necessario farsi largo tra i nemici, o saper morire ripetendo il grido dei fratelli Bandiera:
vissuto è assai!