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Tutto quanto ho narrato nelle pagine che precedettero a questa, accadde nello spazio di pochi minuti, ma furon minuti che sembraron secoli.
– Su ragazzi, due altri colpi ancora ed abbiam finito! – gridò Garibaldi. E tutta quella schiera, rispondendo con alte voci al suo invito, si spinse innanzi.
Allora, sentii un gran miagolio, e il berretto mi volò via di testa. Una palla cortese me l’aveva tolto, ma non senza strapparmi una bella striscia della cuticagna, e non senza inondarmi la fronte di sangue.
Rammento che Garibaldi mi guardò con un’occhiata piena d’inquietudine, ma non rammento altro, perché una palla mi colse sopra la scapola sinistra e mi cacciò supino per terra, dopo avermi fatto girar due volte intorno a me stesso, come fanno le trottole.
Mi pare che Bixio mi dicesse, vedendomi per terra:
– Bandi, alzati, i napoletani fuggono!...
Ma poi, veduto com’ero concio, gridò:
– Buttati di sotto!
Ed io ripreso sentimento, alla meglio, andai carponi fin sul ciglio della spianata e mi lasciai andar giù pian piano, e ruzzolai un bel pezzo, finché un grosso cespuglio non mi fermò.
Racconto queste cose perché l’esser ferito in battaglia è caso e non virtú, e perché mi è indispensabile raccontarle per proseguire esatta la mia narrazione.
Mentre me ne stavo accoccolato, aspettando che qualche anima cristiana pensasse a me, le palle fischiavano frequenti e spesso venivano a colpire in terra a tanta vicinanza dalla povera mia pelle, che fu miracolo se non ebbi il colpo di grazia e non rimasi lì ad aspettare il beccamorti. Parecchia gente mi passò vicino, ma siccome era gente vogliosa di menar le mani, non stetti neanche a dire: ohi, sapendo bene che chi ha voglia di far sul campo il dover suo, lascia i feriti alla provvidenza di Dio e all’ambulanza quando c’è.
Ora, la nostra piccola ambulanza se ne stava a Vita, cioè lontana un paio di miglia dal colle di Pianto Romano, e bisognava aspettare in pace che il combattimento avesse termine, e che venisse qualche compagno a raccogliermi. Ed io m’ero messo in buona pace, quando sentii singhiozzare vicino a me, e sentii una voce raccomandarsi a Dio e a San Gennaro e a diverse Madonne tutte sante e prodigiose, rompendo, ogni tanto, in un guaire così smiracolato, da rammentarmi il pianto di Pulcinella quando si spassiona in teatro.
Mi sollevai un tantino, sebben le ferite cominciassero a dolermi forte e il sangue venisse giù a fiotti per cinque buchi, e vidi un cacciatore napoletano disteso a pochi passi dal mio cespuglio, accanto ad un grosso sasso.
Il disgraziato aveva il viso tutto pieno di sangue ed era spaventatissimo per le palle che spesso coglievano il sasso e vi rimbalzavano sopra con rumoroso schioppettìo.
Pensai che anche costui era di carne e di ossa, e, per di più italiano come me; e, pieno di compassione, gli dissi:
– Fratello, non gridar tanto ché ti farà male; abbi pazienza come io l’ho.
Il napoletano, udendo la mia voce, cominciò a strillar più forte che mai. Quando poi m’ebbe visto si diè a raccomandarsi per tutte le sue Madonne, scongiurandomi che non l’ammazzassi lì come un cane e senza il prete, e non c’era verso che si quietasse.
– O bue, – soggiunsi – non vedi che sono ferito anch’io, e tribolo forse più assai di te?... Credi tu d’aver vicina una bestia feroce?... Credi che noi siam gente ghiotta del sangue delle povere creature, come t’avran detto quegli asini de’ tuoi ufficiali?...
A queste parole, il mio napoletano si confortò alquanto, e ripigliò a dire:
– Signor piemontese, salvatemi, mi raccomando a voi... avevo paura che foste siciliano e mi facevo morto...
Capii subito ciò che voleva dirmi, giacché sino dal 1848 avevo udito esser tanto fiero l’odio che correva tra i napoletani e i siciliani, che quando venivano alle prese, non si dava quartiere né si usava misericordia a chi fosse rimasto per le buche. Ma quello non era il tempo di far lunghi ragionamenti, né di mostrare al poveretto che si poteva essere italiani senz’essere piemontesi, e gli dimandai dove fosse stato ferito, qual fosse la sua patria e tante altre cose, che venivano opportune.
Mi rispose che aveva ventun anno, era nativo di Nola, e l’aveva ferito nel collo una palla, passandoglielo da parte a parte, mentre fuggiva inseguito da noi, per rifugiarsi sul colle, accanto alle artiglierie. Poi soggiunse che i suoi ufficiali avean detto esser falso che fosse con noi Garibaldi, ma c’era invece un tristo bandito, per nome Garibaldi, il quale specolava sulla somiglianza del nome suo con quello del gran capitano, per far chiasso tra i siciliani e per rubare a man salva. Da lui seppi finalmente che i cacciatori eran venuti tutti baldi all’assalto della nostra posizione, credendo aver che fare coi «malandrini» e non con altri, ma che udita la tromba e veduto che combattevamo con le baionette ed eravamo, insomma, tanti piemontesi, avean detto tra sé e sé: «Che facciamo?».
Mentre stavo così ciarlando col cacciatore certi siciliani vennero alla nostra volta, e sbirciato il vicino mio gli corsero addosso. Allora, io, sollevandomi quanto seppi e potei, mi detti a gridare a que’ malanni che guardasser bene a ciò che farebbero. I siciliani si fermarono e parvero disposti ad ubbidirmi; ma io, vedendo passar da lontano tre o quattro dei nostri, ai quali il fuoco era parso forse troppo caldo e se ne venivano in giù al fresco li chiamai a me, ordinando loro che pigliassero il napoletano e me lo mettessero accanto. Que’ tali, che uno era il telegrafista Pentasuglia, due eran veneti e uno mi parve marchigiano, presero il ferito sulle braccia e me lo posero a fianco; ma sentendo le palle scoppiettare d’intorno e fare tic tac sul sasso mi lasciarono un limone e se n’andarono via come il vento promettendomi che presto sarebber tornati coll’ambulanza.
Il cacciatore m’afferrò subito la mano e vi fisse sopra le labbra, e parea me la volesse mangiare. E io dicevo, staccando dalla mia mano quella mignatta:
– Via, sciocco, m’hai preso per il tuo curato o pel vescovo di Nola? Sta su e succhia questo mezzo limone che ti do, e non aver paura.
*
* *
Intanto la battaglia continuava, e qualche fuggiasco che mi passò vicino, mi disse, scappando, qualche parola, che mi fece accapponare le carni.
– Che sarebbe di me, – pensavo – se i nostri fossero rotti, ed io cadessi vivo nelle mani dei regi?...
E spaventato da questo pensiero, provai ad alzarmi in piedi, ma ricaddi giù con grandissimo dolore.
Passai in quella triste condizione altri dieci minuti, in capo ai quali, il rumore delle fucilate si fe’ men vivo, e quello delle artiglierie cessò affatto. Allora, i due veneti, che avevo veduti poco prima, ed erano due studenti di medicina dell’Università di Padova, tornarono a me, accompagnati da altri quattro o sei e mi presero su alla meglio, insieme al napoletano, e con lunghi e penosi sforzi, ci trassero giù in fondo all’erta, dove era una casetta. In quella casetta erano quindici o venti insorti e c’era anche taluno dei nostri ma né per preghiere né per minacce ci fu maniera di persuaderli ad escir fuori e venirci in aiuto. Eravamo appena adagiati sul pavimento della casetta quando parecchie voci gridarono in lontananza: «Vittoria! vittoria!» e i nostri due cannoni orbetellani fecero udire la loro voce sulla strada maestra.
In un baleno, il grido di vittoria fu ripetuto con altissime voci per tutti i vicini poggi, le cui vette erano gremite, come dissi, di siciliani spettatori della battaglia, i quali, vedendo i borbonici fuggire, cominciarono a calar giù dalle alture in lunghe file simili agli sciami delle formiche e in un batter d’occhio ebbero invaso il campo.
S’era combattuto per tre ore e mezzo e con grande accanimento. Garibaldi attribuì in gran parte la vittoria ai cattivi fucili che non essendo adatti a far fuoco costrinsero i suoi volontari ad entrar sotto colle baionette rendendo così inutili gli schioppi dei regi che tiravano stupendamente ed a grandi distanze. La vittoria gli fruttò un cannone ma può dirsi che gli fruttasse assai più giacché da quel momento tutta l’isola fu per lui.
I regi accusarono non a torto di quella rotta, la viltà dei loro ufficiali; e veramente, se gli ufficiali borbonici avessero avuto un po’ più di cuore, o ci avrebbero impedito di vincere o avrebbero reso assai più sanguinoso il trionfo.
La zuffa, massime negli ultimi momenti, fu accanitissima, e si combatté finalmente a sassate; perché da queste non si astennero i napoletani nel difendere l’ultima posizione, nella quale s’erano ridotti nel retrocedere, tanto è vero che Garibaldi stesso ebbe da un artigliere una sassata sul petto che lo fe’ restare senza fiato per qualche minuto secondo.
Agli esempi di valore e di rabbia, che accennai poco sopra, aggiungerò il caso di un lombardo, che a testa bassa si lanciò solo contro i due cannoni che sputavano mitraglia, e giunse tant’oltre che i cannonieri gli sfracellarono sul pezzo il cranio, coi calci delle carabine.
Questo fatto fu celebre lungo tempo presso i nemici, alcuni de’ quali narrandomelo poi in Palermo, dicevano aver combattuto, presso Calatafimi, non contro soldati, ma contro bestie arrabbiate.
Scarsi di numero e stanchi, non inseguirono i volontari il nemico per lungo tratto; il quale nemico, piantate nuove artiglierie con truppe fresche presso la città, si dispose a tornarsene, nella notte, verso Palermo, atterrito dall’audacia di Garibaldi e dei suoi e dall’irrequieto aspetto dei popoli circostanti, che incominciavano a balenare.
Restò Garibaldi padrone del campo su cui giacevano centodieci napoletani morti o feriti, e prese alcune munizioni e qualche diecina di prigionieri, tra i quali, alcuni soldati del decimo reggimento di linea, di quello stesso che combatté così gloriosamente in Lombardia a fianco dei toscani nella battaglia di Montanara e Curtatone nell’anno 1848.
Le perdite dei garibaldini furono eguali presso a poco a quelle dei borbonici ma ognuno dei nostri morti valeva per dieci.
Cominciava a far sera, quando mi trasportarono su d’una barella formata di rami d’albero, nella via maestra, dove passando il carretto d’un contadino, mi ci caricarono alla meglio. A pochi passi da Vita, incontrammo Garibaldi, che tornava in giù, insieme a Fruscianti ed a Bovi che conducevano per le briglie alcuni cavalli.
Il generale veduto un ferito giacere sulla carretta, chiese con premura chi ci fosse sopra.
– Sono io, generale.
– Oh, bene, bene! – esclamò. – Vi vedo con piacere, perché v’avevo fatto morto. Coraggio! Coraggio!
E volto a coloro che mi accompagnavano, soggiunse:
– Ve lo raccomando; è un mio aiutante di campo; non lo abbandonate.
La nostra ambulanza aveva piantato le sue tende in un meschino convento dove non erano più di tre frati o quattro, come accadeva, in que’ tempi in Sicilia, dove ogni catapecchia s’onorava di possedere una frateria, la quale, mentre i peccatori dormivano o folleggiavano, orasse e vigilasse per loro.
La stanza che mi accolse avea un solo letto, su cui giaceva don Ciccio Sprovieri, dipoi deputato al Parlamento; io dovetti contentarmi d’un pagliericcio, steso per terra, ed ebbi accanto Giorgio Manin, il tenente Maldacea e due altri che non rammento.
Don Ciccio trafitto nel collo, parlava a voce alta snocciolando in sua calabrese favella i moccoli più giocondi che potesse mai inventare un poeta sacrilego; Maldacea spasimava per un braccio crudelmente rotto; gli altri tacevano, ed io tacevo più di loro, sfinito com’ero dalla gran perdita del sangue.
Nel tempo della medicatura m’ero accorto che pietose mani m’aveano alleggerito della sciabola, del revolver, della sacchetta da viaggio e del portamonete che conteneva poche lire; sicché quando il cerusco Ripari e il suo compagno Boldrini mi ebbero sdrucito col bisturi la tunica e m’ebber tolta la camicia e le mutande, tutte inzuppe del mio sangue plebeo, rimasi nella condizione in cui mi trovai uscendo dal materno grembo, e dissi tra me: «Ecco, tutti i miei beni li ho meco».
Mi ero appena adagiato sul doloroso letto, che un mormorio di voci, unito al tintinnio d’un campanello, si venne avvicinando; e spalancatasi la porta della cameretta comparve un frate, col càmice e col pallio addosso, e con roba in mano, che era roba del suo mestiere. Egli smise di mormorare il suo latino e disse ad alta voce:
– Fedeli cristiani, vengo a darvi i conforti della nostra santissima religione.
E alzando la roba che aveva in mano cominciava a benedirci. A cui don Ciccio Sprovieri afferrando una scarpa che aveva vicino, rispose:
– Va via, prete, lasciaci in pace, perché abbiam bisogno de’ buoni brodi e non delle tue storie.
Il frate sparì in un lampo, né seppi se miglior fortuna ebbe nelle altre stanze dei feriti.
Poco prima che fosse buio del tutto, venne a visitarmi il mio carissimo Andrea Rossi, l’eterno timoniere del Piemonte, il quale mi confermò felicissimo l’esito del combattimento, e mi dette, da parte del generale una camicia e dodici aranci.
Il generale aveva incaricato ancora un certo suo elemosiniere di consegnarmi venti lire, ma quel denaro non l’ebbi mai, ed accadde a me ciò che accadde, allora e poi, a molti altri.
Garibaldi, dopo aver serenato sul campo di battaglia mandò gli esploratori a vigilare gli andamenti dei regi, e fu certo che i regi, sulle prime ore del mattino, lasciavano Calatafimi per tornarsene a Palermo, dove era destino che tornassero rotti e tartassati per tutta quanta la via, e dopo cinque giorni (come scrisse il giornale del governo borbonico) di «gloriosi combattimenti».
Avuto notizia della partenza di costoro, entrò il piccolo esercito nella città per riposarvi e non ne ripartì se non il giorno di poi, recandosi ad Alcamo, dove la sosta fu più lunga e dove le guerriglie siciliane cominciarono a formarsi numerose e ad aiutare efficacemente i disegni del generale.
La mattina che seguì al giorno del combattimento, noi poveri feriti fummo oggetto della curiosità di tutti i popoli circostanti che accorrevano a vedere, come sarebbero accorsi a veder l’orso o il lionfante. Una deputazione di cittadini di Salemi recò vino, cenci da far lacce, aranci e non so quali altre robe, e il caporione dei deputati, un vecchio allegro e animoso, pigliò a farci una bella e lunga predica, dicendo che col nostro modo di combattere a petto scoperto e colla nostra fretta di correr sotto al nemico, non faremmo mai altro, che tirarci addosso malanni.
Ascoltammo pazientemente quella predica, poco o punto persuasi della saviezza delle censure del degno vecchio; e verso una cert’ora dovemmo dire al dottor Ripari che impedisse il gran viavai de’ curiosi.
Taglierò corto a queste particolarità, noiose senza dubbio per chi mi legge, dicendo in brevi termini che sulla sera i nostri medici se ne andarono tutti per raggiungere Garibaldi, e che la mattina seguente, quanti fra noi poterono essere trasportati, vennero tolti dal convento di Vita e condotti a Calatafimi nel convento di San Michele.