Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

VIII

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VIII

 

Adesso prima che io conduca i miei lettori nella città di Calatafimi, debbo dir loro qualche parola in proposito di quel sergente borbonico alto e rosso, per mano del quale fu ucciso, come narrai, il valoroso Schiaffino, degno portabandiera dei Mille. L’avventura che sono per narrare può darsi che paia strana a più d’uno; ma io giuro che racconto la verità e chi non vuol credere, non creda. Però, chi vuol mostrarmisi incredulo, pensi quanti mai sono i casi, che nel tempo di sua vita gli saranno accaduti dinanzi agli occhi, e che se volesse pigliare a narrarli altrui, sarebbero tenuti come inverosimili. E tornando poi al caso mio, gli dirò che dell’inverosimile non c’è neppur l’ombra, ma c’è soltanto una certa singolar novità di casi che nei tempi in cui occorsero le faccende da me narrate, poté facilmente accadere e senza opera di miracolo.

Erano scorsi appena due mesi dal giorno in cui combattemmo a Calatafimi, ed io marciavo col mio bel battaglione che era il quinto della brigata Medici, alla volta di Milazzo. Le mie ferite non erano rimarginate del tutto, ma le buone fasce, la gioventù e il desiderio di farmi onore mi tenevano ritto sulla sella e non avrei dato quella sella per una poltrona in palazzo Pitti.

Ora accadde, in quei giorni, che mettendosi insieme nuovi battaglioni in Palermo ed altrove, e scarseggiando gli ufficiali, si pigliassero volentieri i disertori dell’esercito borbonico, tra’ quali erano molti i sott’ufficiali, ambiziosi di guadagnarsi le spalline. Nel passare che facemmo per la città di Barcellona, trovai appunto uno di quei nuovi battaglioni, e questo ebbe il numero sei della nostra brigata, composta, sino allora, di tre battaglioni lombardi e due toscani. Comandava il nuovo battaglione un certo capitano Ferrandina, disertore borbonico, e disertori, come lui, erano quasi tutti gli ufficiali.

Fra questi ultimi me ne capitarono dinanzi due, che nel salutarmi fecero mostra di gran meraviglia, e si dettero quindi a pispigliare insieme, e cercarono tante volte occasione per passarmi vicino e per guardarmi fisso, non altrimenti che avessero una confusa ricordanza d’avermi veduto altra volta e Dio sa dove. Vedendo che quei due mi guardavano, entrai alquanto in curiosità, e mi posi a squadrarli dal capo a’ piedi. L’uno di essi era di statura mezzana, né sottilegrosso, con capelli e baffi scuri e con occhi mobili e nerissimi; l’altro era alto, membruto e di pelo rosso e con due occhi grigi, piccoli, ma pieni di fuoco. Non mi fece caldofreddo il vedere il bruno; ma più guardavo quel rosso dagli occhietti grigi e più mi sentivo persuaso che la faccia di costui aveva balenato dinanzi a me in qualche sogno terribile come se quella faccia fosse stata sulle spalle del diavolo o di qualche genio malefico.

Passammo tutto quel giorno a guardarci scambievolmente, e notai che più volte i due ufficiali si fermarono e fecero un passo innanzi per venirmi a parlare, ma poi si trattennero e finsero di avere sbagliato strada e sparirono discorrendo tra loro e facendo vista di guardare in alto o di chiamar qualcuno che passava, tanto per nascondere la tentazione che pativano e che parea loro temeraria.

Il seguente stavo montando a cavallo per accompagnare Garibaldi al convento di Santa Lucia, dove si recava per esplorare dall’alto i dintorni di Milazzo, quando la mia ordinanza mi disse:

Sor maggiore iersera m’hanno fermato due ufficiali del battaglione nuovo e mi hanno chiesto se lei era dei Mille e se fu ferito a Calatafimi. Io ho risposto di sì e loro sono iti via, dicendo: «Ma è lui, è proprio lui!». Stamani poi, li ho rivisti ancora e m’hanno detto che avrebbero davvero tanta voglia di discorrer con lei, ma non si arrisicano...

Andai ad accompagnare Garibaldi e dopo due ore tornavo all’alloggiamento, quando mi venne incontro il furier maggiore col libro degli ordini. Il brigadiere Medici non volendo lasciare tutti ufficiali borbonici nel nuovo battaglione aggiunto alla sua brigata, aveva voluto sparpagliarne qualcuno negli altri battaglioni, e uno di quegli ufficiali era toccato appunto a me. Il mio nuovo ufficiale si chiamava Caccavaio. Venne dunque il signor Caccavaio a farmi visita, e riconobbi subito in lui il compagno dell’ufficiale rosso. Fra un discorso e l’altro dissi al signor Caccavaio:

– Di qual corpo faceva parte nell’esercito borbonico?

– Dell’ottavo battaglione dei cacciatori.

– Ha ella qui un compagno se non sbaglio?...

Sissignore, c’è qui un sergente dello stesso battaglione e si chiama Certosini.

– Hanno combattuto, dunque, lor signori a Calatafimi?

Sicuro, – rispose l’ufficiale – anzi per una strana combinazione... Oh Dio! si sa bene...

– Che cosa? – gli chiesi interrompendolo. – Parli pure francamente...

– Eh, io, per vero, non posso dire molte cose, ma c’è il mio compagno, che... potrebbe rammentare al signor maggiore un certo fatto.

Scusi, – interruppi. – Dov’è il suo compagno?

Giù da basso. Voleva salire anche lui, ma...

Faccia il piacere; lo chiami, che venga su.

Due o tre minuti dopo, il sottotenente Certosini era dinanzi a me. Al primo guardarci egli divenne bianco come un morto, io cominciai a tremare e non sapevo perché.

Certosini, – dissi – ella fu dunque a Calatafimi?...

– Sì, maggiore...

– Ella era sergente?...

– Sì... E mi pare ancora di vederla, in uniforme di ufficiale piemontese, avventarsi addosso a me colla baionetta spianata...

– Ed ella mi sparò contro il fucile?...

– Sì...

– E allora, fu Certosini, il sergente che uccise con un colpo sul petto il nostro portabandiera?...

– Sì, – rispose Certosinitoccò a me ad uccidere quel prode... e ora... ora son qui con voi.

Mi parve che una mano di ferro mi stringesse la gola, e per qualche secondo non fui buono ad aprir bocca. Ma tosto facendomi animo, e sforzandomi a sorridere, ripigliai:

Va bene. Certosini, tra me e lei ci siamo misurati sul campo a viso aperto, e faremo quel che facevano i buoni cavalieri antichi. Ora, cerchi d’esser buon soldato per noi, come fu pel Borbone; e al primo fuoco che avremo, faccia qualcosa di magnanimo per compensarci, in parte, il gran danno che fece, coll’ammazzare Schiaffino.

Due giorni dopo, combattevamo sotto Milazzo, e la giornata era calda. Trovandomi con poca gente a dover tenere un punto che il nemico mi disputava con incredibile furia, mandai per soccorsi, e tra i soccorsi che vennero, c’era la compagnia del Certosini.

Appena veduto costui, dissi a certi amici ufficiali:

Tenetemi d’occhio quel napoletano rosso, che se mi ciurla col manico e mi si mostra carogna, faccio voto a Dio di rendergli nella zucca la palla che mi diè nel petto a Calatafimi, e vendicherò Schiaffino.

Per tutto il tempo che durò ancora il combattimento, non lo persi di vista un istante; ma debbo dire che Certosini e il suo compagno Caccavaio parvero due leoni, e alla fin del salmo dovetti cantar gloria ad ambedue, abbracciandoli a più riprese, e accennandoli a Giacomo Medici siccome degni di ricompensa.

Quattro mesi trascorsero, e Certosini moriva della morte dei valorosi sotto le mura di Capua, colla fronte aperta da una scheggia di granata. . . . . . . . . .

 

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Ripigliando adesso l’ordine del racconto, condurrò il lettore nel convento di San Michele in Calatafimi, dove, pel maggior numero, giacevano per terra su poveri pagliericci in un lungo corridoio e in diverse stanzucce, i feriti garibaldini. Io mi trovavo a dividere il mio giaciglio con Giovanni Tabacchi da Mirandola, che fu poi luogotenente di Enrico Cairoli a Villa Glori ferito in una coscia, e, come me, quasi nudo.

Buoni e caritatevoli per noi furono i pochi frati del meschino convento che si levaron il pan di bocca e vegliarono notte e giorno e non fu cosa che non facessero per alleviare i nostri mali e la miseria che era il principale fra quelli. Cortesi poi, ed anche caritatevoli, ci furon diversi preti, tra i quali rammento con affetto il signor Nocito, poi non più prete, ma avvocato e deputato al Parlamento.

Fu tra i feriti più gravi un giovane mantovano con una gamba rotta, e ci fu un Maironi da Bergamo, diciottenne appena, dolente per una palla che gli aveva offeso il braccio destro, poco sopra l’ascella. Il mantovano andava sempre di male in peggio e la gamba gli minacciava la cancrena, ma non essendo in paese alcun chirurgo non c’era da apprestare allo sventurato altre cure, se non quelle che poteano dargli due studenti dell’Università di Padova, ed un vecchio medico siciliano, che in materia di chirurgia non avrebbe tolto neanche la pelle a una lepre morta. Il giorno in cui la cancrena cominciò a manifestarsi nella gamba del mantovano con sì chiari segni che l’avrebbe conosciuta un cieco volle il caso che i frati avessero in chiesa non so qual cantata; e il Maironi, che espertissimo era nel suonare l’organo volle salire in orchestra ed accompagnare il Te Deum. Lo sforzo del suonare fece sì che all’infelice si riaprisse la piaga, e si rompesse, per soprassello, un’arteria.

per , non essendoci il cerusico nessun sapeva dove cacciar le mani per chiudere quella fontana, zampillante sangue, e invano i due studenti di Padova ci si provarono e si provaron poi, tentando sigillarla con una lira d’argento, fortemente serrata con una fascia. Sul principio, il rimedio parve buono, ma indi a poco il Maironi si diè a urlare come un dannato, e i due chirurghi senza matricola dissero a tanto di lettere che era sopraggiunto il tetano. Avevamo, dunque, in quell’infernale corridoio che era il nostro albergo, due condannati a morte certissima, le cui pene si tradivano dalle urla disperate che mandavano, e che ci toglievan tutti di cervello.

Avevo in quel giorno un’ardente febbre e vagellavo su pei peri; sicché tra il caldo della stagione ed il fastidio della febbre e le grida di quei due martiri non capivo più se fossi in questo mondo o in una bolgia d’inferno e sentivo martellarmi il cervello e strane e spaventose visioni mi turbavano gli occhi e la mente.

Il mantovano che giaceva accanto a me, si veniva raccomandando per l’amor di Dio benedetto che lo togliessimo da tanti spasimi ammazzandolo o dandogli un’arme per ammazzarsi da sé; il Maironi quando non avea più fiato per urlare, scongiurava quei buoni frati a usargli la misericordia di mettergli in bocca una qualche pillola, che l’addormentasse per sempre.

I frati chiamarono il medico e lo speziale e tennero consulto coi due studenti di medicina, e fu messo in sodo che i due disgraziati potean campare quattro o sei ore al più ma soffrendo pene che neanche ai cani si potevano augurare. Allora il guardiano chiese a me se avrei creduto mal fatto che le preghiere dei disperati moribondi s’esaudissero, ed io risposi:

– Che cuore avreste di lasciarli vivere, se ei debbono morire, e se prolungando la loro vita di qualche ora, non si fa che allungare il martirio?

La mia ragione tolse ogni dubbio ai frati, al medico, allo speziale e ai due studenti padovani; e il mantovano e il Maironi, comunicati ed unti, ebbero una pillola d’oppio per ciascuno, e s’addormentarono in pace per non destarsi più.

Questo spettacolo, insieme ad altri, egualmente tristi che ve ne furono, aveva logoro il nostro coraggio, e noi udivamo con terrore le male novelle che correvano in proposito di Garibaldi, che si dicea battuto a più riprese e fuggiasco per le montagne coi miserabili avanzi dello scarso esercito. A misura che tali voci pigliavano credito, ci vedemmo abbandonati da tutti, tranne dai monaci e da qualche prete, che sino all’ultimo istante ci furono fedeli e benevoli.

Nel mentre che la febbre mi tormentava ancora, e tra i sogni e i fantasmi mutabilissimi ballonzolavano dinanzi a me il cupolone del Duomo di Firenze, il viso onesto del mio vecchio babbo, e il fanale di Livorno e la bella torre di Siena, e il boia con la scure, e il re Bomba con le fiamme in mano, e cavalli magri, e cani furiosi e scheletri e demoni, un suon di pianto mi riscosse improvviso ed aprii gli occhi.

Sulle mie gambe stava steso per mezza la persona un uomo, e quell’uomo era Nino Marchese.

Eccellenza! – diceva tristo, singhiozzando o facendo vista di singhiozzare. – Povera eccellenza!

Eccellenza un corno! – risposi tutto invelenito. – Fu quello il bel servizio che mi facesti, scannapagnotte senza fede, lasciandomi di botto e fuggendo come il più sconsacrato vigliacco?... Fu quello il gran bene che dicevi volermi? Vedi come son concio, e tu dove sei stato mentre io ti cercavo e t’aspettavo, come s’aspetta un amico?...

– Ah! eccellenza, – soggiungeva il poltrone, fingendo di piangere sempre più forteu frate meo era morto nella battaglia, e io me lo caricai sulle spalle e lo trassi a casa per tante miglia...

E io l’interuppi con una gran risata, dicendogli se mi teneva per così menno da credere che un suo pari potesse portar di peso sulle spalle un cadavere per tante miglia.

Vanne al diavolo, – concludevo – e rendimi almeno il mio pugnale...

Nino Marchese alzò gli occhi al cielo, giurando che il pugnale glielo avean rubato; e poscia, quasi per attenuare il danno, mi pose accanto (indovinate, o lettori) mi pose accanto un mazzo di sparagi selvatici.

Era quello il dono che mi recava, e fu quello l’ultimo segno dello smisurato affetto suo, perché, indi a poco, tolta una scusa, se n’andò, né l’ho rivisto più mai...

Un bel giorno, corse voce in città che i soldati regi di presidio in Trapani erano esciti in campagna e s’avviavano verso Calatafimi per pigliarci prigionieri, vale a dire per ammazzarci a suon di calciate di schioppo o per rosolarci vivi, o per usarci qualche altra simile cortesia.

Già si diceva che i soldati erano a tre miglia o quattro di distanza, e c’era chi ne aveva contate le centinaia, e chi sapeva quanti erano a piedi e quanti a cavallo. Sulle prime, nessun di noi pigliò per contanti quella paurosa diceria; ed anzi, per la più parte, cominciammo a riderne.

Ma, dopo un momento, ecco che spariscono ad uno ad uno i servigiali e sparisce la sentinella siciliana, che stava all’uscio del convento, e i frati vengon su, gridando: «Figliuoli, figliuoli, raccomandatevi a Dio, perché i borbonici son qui!».

A questo annunzio, io e tanti altri balzammo su e corremmo alle finestre. La gente fuggiva a frotte abbandonando le case, e recando seco i bambini e le robe più preziose; le donne strillavano, e dappertutto era uno spavento, un diavoleto da non descriversi.

Io mi volsi ai frati che stavano a mani giunte in mezzo al corridoio, e dissi:

Va bene che ci raccomandiamo a Dio, ma Dio ha detto: aiutati che t’aiuto. Che facciamo noi qui? Fasciatemi ben bene, e salto fuori anch’io; perché, morire per morire, vomorir da uomo.

Udendo me, tutti quelli che poterono reggersi sulle gambe, tanto in quella stanza che nelle altre si disposero ad escir fuori. E il padre Luigi Mistretta gridò:

Figliuoli, state fermi: noi piglieremo il Santissimo, e ci metteremo con quello in mano, sulla porta del convento, e se i soldati vorranno entrare, ammazzeranno prima noi e passeranno sul Santissimo.

Bravo frate, – risposi – fa pur questo per coloro, che non si possono muovere, ma noi usciremo fuori e morremo colle armi in mano.

E tosto mi feci fasciare ben ben il petto con una fascia da bambini e gittar sulle spalle un mantello; e sebbene patissi atroci doglie, uscii fuori colla mia legione di tribolati e con quel passo che si poté, ci avviammo verso la porta per dove i regi dovevano entrare. Uno dei frati, il padre Bianchi, volle venir con noi, e per la strada chiamava la gente, incoraggiandola a difendere la città, e additando per esempio, noi, che laceri e malmenati, pure arrischiavamo a muovere incontro al nemico e a fargli fronte sulla porta.

La voce del frate fece sì che cinquanta o sessanta uomini armati si unissero a noi e così giungemmo in discreto assetto di guerra alla porta, mentre ne uscivano tante persone, che colle robe e con le bestie andavano a cercar rifugio sui monti che sorgono dalla parte opposta a quella di dove s’aspettava il nemico.

Arrivati su alla porta che sta in alto, capitò per ventura una banda di quindici o venti uomini a cavallo, venuti non so di dove, ma armati fino ai denti. A costoro dissi:

– Ecco, mentre le campane suonano a storno, mentre io faccio alzare una barricata, per tener ferma la gente e far sì che all’occorrenza si difenda con minor paura, voi uscite alla campagna e vedete dove sono i regi.

I cavalieri stettero alquanto sopra pensiero, ma poi risolvettero obbedirmi e partirono al galoppo. Per buona sorte in capo a un’ora e mezzo tornarono, assicurandoci che non un soldato borbonico s’era visto, parecchie miglia all’intorno, e che i paurosi di Calatafimi avean preso per soldati certi villani che andavano per i fatti loro in giro per la pianura.

 

 


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