Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

IX

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IX

 

Come a Dio piacque, una bella sera, i frati entrarono tutti allegri nel nostro stanzone, gridando:

Garibaldi è tornato in Palermo.

E dietro a loro, la gente affollata sulla piazzetta, cantava osanna a piene canne; e poi cominciarono a suonar le campane e cominciarono gli scoppi, e fu dappertutto una allegria universale, una baldoria da non ridirsi.

Da principio, dubitai alquanto di quella lietissima novella, ed ebbi paura che come le lingue avevano spesso esagerato nel crescer la dose al male, esagerassero allora nel magnificare il bene; ma poi mi persuasi che veramente se Garibaldi non era entrato in Palermo, doveva almeno aver dato qualche solenne batosta ai regi, e dovea occupare qualche posizione importante, vicino alla città.

Pure, volendo esser certo del fatto mio, scrissi una lettera al barone Sant’Anna, prodittatore nella vicina Alcamo, domandandogli notizie certe e precise, e chiedendogli ancora se fosse prudente che io togliessi meco quei feriti e li conducessi nella sua città.

La mia lettera ebbe risposta dopo poche ore, e il barone Sant’Anna mi confermava in tutto e per tutto ciò che, con rapidità meravigliosa, avean divulgato gli uccelli per tutta Sicilia: vale a dire che Garibaldi s’era ficcato a viva forza dentro Palermo, e vi si manteneva combattendo prosperamente, aiutato dalle guerriglie e dal popolo. Soggiungeva però che il generale non era padrone che d’una sola delle porte della città. In quanto poi al nostro mutamento di domicilio, mi facea sapere che, se le cose procedevano buone come sperava, fra tre giorni avrei potuto condurre in Alcamo, senz’ombra di pericolo, la dolente turba dei miei compagni.

Appena divulgata la voce dell’entrata di Garibaldi in Palermo, parve che tutta Sicilia corresse verso la metropoli come i turchi alla santa Mecca.

Per tutti que’ giorni, fu un continuo accorrere di squadre, che sbucavano numerose da ogni parte, e passavano a bandiere spiegate per Calatafimi, cantando e gridando, che era una gioia a sentirle.

Avvicinandosi, dunque, l’ora della nostra partenza, rammentai ai frati che noi eravamo quasi tutti nudi, e bisognava, in qualche maniera, vestirci. E i frati, non sapendo a qual santo raccomandarsi, pensarono a Gesù in sacramento; e messo Gesù sull’altare tra cento moccoli, nel più bello della festa predicarono ai devoti raccomandandoci alla loro carità, ed esortandoli a vestir gl’ignudi. La sera stessa il convento fu pieno delle offerte dei fedeli; cioè delle robe che la povera gente recò a noi, per amor di Gesù.

Fatta la distribuzione delle robe io mi vestii copanni vecchi d’un generoso mugnaio e mi ricopersi il capo con un berrettaccio da guardia nazionale, regalatomi da un compagno.

Due giorni dopo il nostro arrivo in città avemmo notizie certissime delle vittorie di Garibaldi e conoscemmo i meravigliosi fatti da lui compiuti tanto al di fuori di Palermo quanto nell’interno della città. Mi mordevo le mani dalla pena di non essere stato vicino a lui e maledicevo le palle che m’avean ridotto a starmene neghittoso sulla paglia mentre i miei più fortunati compagni combattevano in quelle splendide giornate, che saranno l’ammirazione della posterità. E avendo saputo essere Garibaldi padrone d’un’altra porta, ed essersi fissata una tregua a bordo del vascello ammiraglio inglese, ebbi fermo d’andar presto a raggiungerlo, e non sapevo star più alle mosse per quanto i chirurghi mi ammonissero che non avessi tanta fretta, perché la tregua era fissata per tempo assai breve e potea darsi che, mettendomi in cammino, trovassi riaccese le ostilità, prima di essere entrato in Palermo.

Intanto, trovandomi con diversi feriti coi quali non avevo mai parlato in Calatafimi, e parlando anche con diversi siciliani che avevano assistito a quel fatto d’arme, conobbi un singolare episodio, che mi sembra meritevole d’esser narrato in queste pagine. Mentre più disperata e viva era la zuffa sul colle di Pianto Romano, e mentre Garibaldi stava apparecchiando, in persona, l’ultimo e decisivo assalto, comparve su per l’erta un frate cappuccino. Quel frate era nero come un tizzone; aveva la barba del colore della fuliggine e cresputi i capelli; la sua tonaca era scucita e legata a’ fianchi, e andava armato d’un moschetto. Mescolatosi con gli assalitori correva su per l’erta, che parea avesse d’acciaio le gambe e i polmoni; e a quanti vollero trattenerlo, perché li confortasse, il frate rispondeva con voce cupa: «Non venni qua per benedire, ma venni per combattere!». Quattro testimoni almeno mi giurarono che il valente frate, precedendo Garibaldi, fu uno dei primi a saltare sulla spianata che corona il colle e sparò il suo fucile, ma una palla lo colse in mezzo alla fronte, e cadde giù ruzzoloni, e fu morto.

Dissi già che fino dal nostro arrivo in Sicilia, amicissimi ci si erano mostrati i frati e, in parte, anche i preti; ora dico che in Alcamo ebbi un primo e solenne saggio dell’eloquenza rivoluzionaria dei frati siciliani, e l’ebbi in occasione delle belle esequie che si fecero nella chiesa de’ Francescani, al povero compagno nostro Baiguerra da Brescia, morto in que’ giorni per la ferita che ebbe a Calatafimi. Il morto, vestito della sua camicia rossa, giaceva sopra il catafalco, in mezzo a una infinità di grossi ceri; intorno al catafalco stavamo noi e stavano tre o quattrocento siciliani armati, e poi tutti gli uomini e le donne della città, poveri e ricchi.

A un certo punto delle esequie, comparve sul pulpito un bel frate, che, con una voce stupenda di baritono sfogato, intonò un’orazione, nell’udire la quale, io dissi tra me e me: «Se a’ tempi del Vespro i frati predicarono così, non fu miracolo che non restasse vivo un francese sulle zolle di Sicilia».

Adesso non rammento con precisione che cosa disse il predicatore, ma ricordo che, in un certo punto, spenzolandosi per metà della persona fuor del pulpito e scuotendo le braccia, gridò: «Su, in nome di Dio su dal monte e dal piano sorgete, o siciliani, e piombate sugli oppressori, come le lave dei vostri vulcani; udite le squille del Vespro che rintoccano ancora, vedete Giovanni da Procida, risorto in mezzo alle schiere degli oppressi. L’ora della vendetta è suonata; pugnate per la patria, pugnate per la fede, sterminate le torme degli ingordi mercenari dei tiranni;... Dio lo vuole, Dio lo vuole!».

Mi pareva di sognare e benedicevo quel frate e tutti i frati che lo somigliavano; ma poi pensavo in cuor mio: «Quanto tempo dureranno questi gran bollori dei frati? quanto dureranno le scalmane dei preti, che credono aver chiappato nel pozzo la luna?». Così pensando, prevedevo con occhi sicuri che non passerebbe un anno, e frati e preti manderebbero in quel paese Garibaldi e i suoi Mille e l’Italia e magari Giovanni da Procida e le campane che suonarono il Vespro.

 

Una mattina, finalmente, mi si annunziò che una nuova spedizione era sbarcata a Marsala, e veniva avvicinandosi ad Alcamo.

Fui subito per le furie, e dissi ai compagni: «Se questi uomini che vengono a darci aiuto, vogliono andar diritti a Palermo, vi do la parola che andrem con loro».

Infatti, verso mezzogiorno giunsero in Alcamo i nuovi amici. Erano settantadue in tutti ed avean seco duemila schioppi e assai munizioni. Li conducevano il siciliano Agnetta ed un altro, egualmente siciliano, i quali eran partiti da Genova sopra un piroscafo rimorchiatore, guidato da quel fior di patriota che fu Francesco Lavarello da Livorno.

Il barone Sant’Anna ci dette quante carrozze poté trovare, e il giorno dopo, partimmo insieme alla schiera dell’Agnetta e a una numerosa banda d’insorti, che venne di conserva con noi.

Giungemmo la sera a Partinico. La città che dopo le batoste toccate dai regi a Calatafimi, avea dato loro il resto del carlino, mentre passavano per tornarsene, era tutta in arme. Nell’entrare, la strada asserragliata avea per sentinelle due frati cappuccini, con un gran berretto rosso in capo, colla tonaca rimboccata intorno alla vita, e colla sciabola al fianco e il moschetto sulla spalla.

Quando fummo dinanzi alla casa dove erano le carceri, cinque soldati napoletani, che stavano col viso alle inferriate, cominciarono a raccomandarsi a noi, dicendo:

Signori piemontesi salvateci perché qui ci vonno accidere.

E proseguirono la loro giaculatoria con accenti così dolorosi, che feci fermare le carrozze per dimandare chi fossero e perché si trovassero .

– Siamo prigionieri, eccellenza, – risposero – e tutti i giorni vengono dicendo che ci vonno accidere. Salvateci, signori piemontesi, per l’amor di Dio, perché lasciandoci in questo luogo, ci vorreste morti.

Promisi che avrei pensato a loro, e li confortai a starsene in pace.

Sceso che fui, insieme col Tabacchi, in una casipola, dove alcuni giovani della città ci offersero per cortesia un po’ di cena, mandai a chiamare il sindaco, e gli dissi che in nome del generale Garibaldi, gli ordinavo di consegnarmi i cinque prigionieri borbonici, volendo condurli meco a Palermo.

Il sindaco, dopo aver voluto saper chi ero e chi non ero, promise che al momento della partenza avrei avuto meco i prigionieri, e soggiunse che ringraziava Dio del gran favore che gli facevo togliendoglieli dalle mani. Pare che il popolo di Partinico s’acconciasse di mala voglia a veder vivi que’ disgraziati, e fosse di continuo a far ressa intorno al sindaco perché glieli consegnasse, e si rimettesse in tutto e per tutto alla sua discrezione, che per verità non doveva essere molta.

Narrano (ma non saprei guarentirlo vero) che que’ cittadini, bastonando furiosamente i borbonici che tornavano rotti da Calatafimi e cominciavano ad abbottinarsi per le vie di Partinico, ne uccidessero alcuni, e volendo poi serbare intatti i cadaveri, per farne pompa dinanzi a Garibaldi quando passasse, li fermassero in forno, cioè li cuocessero a metà, come suol farsi de’ tordi, quando pel pericolo che si guastino per l’indomani, si rosolano al fuoco, quanto basti perché la putredine non li corrompa.

Vero o non vero che fosse questo fatto, i cinque prigionieri piansero lacrime di consolazione, quando, la mattina dipoi, me ne posi due nella carrozza, e i tre altri feci salire su d’un barroccio, ammonendo i siciliani della guerriglia che avrebbero reso stretto conto a Garibaldi di qualunque offesa ricevessero, per parte di loro o di altri, i cinque disgraziati.

Avvicinandomi a Palermo, fermavo la gente che passava, chiedendo novelle di Garibaldi, e tutti, a una voce, mi rispondevano che Garibaldi era in Palermo coi Mille e con un visibilio di picciotti, ma che a mezzogiorno in punto dovea spirare la tregua, e dovea ricominciarsi la battaglia.

Il capo della guerriglia mi avvertì, sulla piazza di Monreale, mentre certi preti medicavano le nostre ferite, che per entrare sicuramente in Palermo, era mestieri far un giro assai largo, perché (come dissi) Garibaldi non aveva in sua balìa che due sole porte, e quelle erano distanti assai dalla strada che da Monreale mena diritta a Palermo.

Gli risposi che andasse pure per la strada che gli parea buona, ma guardasse bene di affrettar la marcia, per far sì che entrassimo in città un’ora prima del mezzogiorno.

Il caporione m’intese, e precedemmo la colonna del signor Agnetta, col quale non ebbi luogo di scambiar neanche una parola per tutto quanto il viaggio.

Procedevamo per luoghi amenissimi, ed avevamo sotto gli occhi la Conca d’oro, come si chiama, con poetico linguaggio, la vallata dove siede Palermo. A destra e a sinistra, boschi d’ulivi e d’aranci e di cedri, e spalliere di fichi d’India, tra cui biancheggiavano eleganti casette, e pittoreschi conventi, che parean castelli; in fondo, la città, distesa sulla spiaggia a semicerchio, e poi, da un lato il monte Pellegrino, dirupato e rossastro, e dall’altro, il mare azzurro, pieno di navi da guerra di tutte le nazioni.

Era uno spettacolo che avrebbe strappato alle labbra di un poeta un cantico sublime di ammirazione; noi, poveri diavoli, pieni di poesia nel cuore, ma impotenti a ridire ciò che il cuore sentiva, non sapemmo fare altro se non stendere le braccia verso la Conca d’oro e gridare con le lacrime agli occhi: «Palermo! Palermo!».

Ad un tratto, incontrammo per via parecchie brigatelle d’uomini, vestiti tutti di bordatino azzurro, e con uno strano berretto in testa, che andavano camminando co’ loro fardelli sulle spalle, come la gente più onesta e più tranquilla di questo mondo.

Dissi a Tabacchi:

– O che gente è questa?

Ed egli a me:

Domandaglielo e lo saprai.

Feci fermare la carrozza e chiesi ad uno della brigata:

Buona gente, chi siete?

Eccellenza, siamo li galeotti.

– Li galeotti? – esclamai. – O dove andate a quest’ora?

– Alle case, signorino, alle case, – risposero in coro.

– E chi v’ha sferrati? – soggiunsi.

I signori galeotti sorrisero maliziosamente e seguitarono la loro strada; ma certi villani che passavano in quel punto, mi dissero che i galeotti erano stati sferrati per ordine del governo del re, poco innanzi che Garibaldi entrasse in città.

Il largo giro che facemmo sotto la scorta della guerriglia, la quale era numerosa di cinque o seicento uomini, ci menò ad un bel sobborgo, che ci parve popolatissimo. Le case portavano sui muri le vestigia del recente combattimento, e tutte quelle abitate da famiglie straniere, avevano inalberato la bandiera della nazione a cui ciascuna famiglia apparteneva.

Lasciata la carrozza, per le barricate che le impedivano d’andare innanzi, procedemmo a piedi con gli altri feriti, aiutandoci alla meglio la gente che c’incontrava per le vie. Le barricate erano alte e robuste, e fatte, per la maggior parte, in solida muratura per la provvidenza d’un comitato d’ingegneri. Siccome s’aspettava che tra un paio d’ore ricominciasse la battaglia, così la gente si affollava in armi dietro le barricate, e preti e frati erano intenti a predicare, facendosi mallevadori che chiunque morisse combattendo per la Sicilia, meriterebbe subito un posto bellissimo in paradiso, tra gli angeli, tra i martiri, tra le vergini e i confessori.

Notai che gli insorti siciliani aveano appiccicate sul calcio dei fucili le immagini di Santa Rosalia, e lo stesso avean fatto sulle culatte dei cannoni, che guardavano l’imboccatura delle strade, per le quali era più da temersi improvviso e gagliardo l’assalto del nemico.

A misura che ci avvicinavamo al Palazzo Pretorio, dove Garibaldi avea messo il suo quartiere, le barricate si faceano più frequenti, e la folla cresceva. Nella folla riconobbi parecchi dei miei vecchi compagni, i quali mescolati in quella gran baraonda di popolo e di contadini, comandavano con grande autorità ed erano obbediti quasi con reverenza. Ognuno de’ Mille contava, in quei giorni, per cento uomini e più.

Giunti che fummo in piazza del Palazzo Pretorio, vedemmo da vicino le rovine della via Toledo, spietata e codarda opera del naviglio borbonico, che per tre giorni e due notti si esercitò, tirando senza misericordia contro la città, che per esser priva di artiglierie grosse, pativa, senza resistere, quel barbaro strazio.

Prima di giungere dal generale, traversammo tre grandi sale piene zeppe di gente che parlava a voce alta e pareva aspettare con impazienza che i comandanti borbonici mandassero a trattare per una nuova tregua, o ricominciassero le offese. Tra quella gente vi erano parecchi preti, che sembravano più calorosi di tutti; ed uno di essi, che poi seppi essere l’abate Fiorenza, si sarebbe creduto che fosse il comandante del quartier generale, perché in quel palazzo il factotum era lui.

Quando Garibaldi ci vide, spalancò le braccia e ci baciò ad uno ad uno. Quindi, affidati che ebbe gli altri al capitano Cerri, comandante della piazza, e rimasto con me e coi familiari suoi, volle sapere per bocca mia centomila cose, e guardando con aria di piacevole curiosità il mio strano vestito, diceva motteggiando:

Povero Bandi, mi parete un mugnaio!

Poi mi disse:

Scommetto il collo che avrete in tasca, per lo meno, centomila lire...

– Neanche un soldo, – risposi.

Ed egli volgendosi a Fruscianti, gli ordinò di farmi dare venti scudi, e poi disse a Bovi che mi rivestisse tutto.

Avevo ritrovato la mia nicchia, rivedevo sano e salvo e trionfante l’uomo che per me era più d’un padre, e non avrei, in quel punto, barattato la mia condizione con quella di un re. Era però necessario che barattassi i panni, vergognandomi di far la figura del mugnaio tra quella gran gente che s’affollava per le sale; e così pregato il mio amico Andrea Rossi che mi accompagnasse fuori, in quattro e quattr’otto mutai buccia, e ricomparvi in capo a mezz’ora, con una bella camicia rossa, con un berretto nuovo, e con un magnifico fazzoletto di seta a fiori gialli e rossi, annodato largamente intorno al collo. Un medico m’avea rinfrescato la fasciatura alle ferite, il buon Rossi m’avea fatto mangiare qualche cosa e mi pareva di essere Dio sa chi.

Ricomparso così, tutto ripicchiato, al cospetto di Garibaldi, egli mi additò un canapè e mi disse:

– State seduto più che potete e riposatevi.

Sedetti, e dopo poco, la voce di Stagnetti annunziò l’arrivo di due parlamentari borbonici.

 

 


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