IntraText Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I parlamentari borbonici erano: il generale Letizia e il colonnello Buonopane, capo dello stato maggiore. Trovarono Garibaldi seduto sopra una poltroncina, ed aveva tra le gambe una sedia, sulla quale erano diversi sigari, due o tre arance, un pugnaletto fuori della guaina e diversi fogli.
I due ufficiali fecero due o tre profondissime riverenze, e Garibaldi rispose con voce allegra:
– Addio, signori, – e stese loro la mano.
Avvicinai due seggiole a quella del generale e parendomi legge di convenienza l’andarmene, mi accostai in punta di piedi all’uscio per ritirarmi nell’anticamera. Ma appena ebbi messo il piede sulla soglia, Basso mi disse sottovoce:
– Che fai? Vorresti lasciar solo il generale? Torna subito dentro ed abbi occhio, perché, da qualche giorno, gl’insidiano la vita. Lascia socchiusa la porta, e io e Fruscianti siam qui.
Non sapevo se facevo bene o facevo male. Interrogai Garibaldi con uno sguardo ed egli mi accennò con un rapido movimento d’occhi il canapè.
Tornai, dunque, a sedermi, e fissai le pupille su’ due ufficiali, guardando di tanto in tanto la porta socchiusa, per la quale scintillavano i vivaci occhietti di Basso.
Il generale Letizia e il colonnello Buonopane eran sempre ritti e si perdevano in complimenti; Garibaldi li fe’ sedere dinanzi a sé, e chiese con gentili parole qual fosse il motivo della loro visita.
Era il detto generale, quello che si dice, a rigor di termine, un bell’uomo e dovette essere, a’ suoi anni, un giovanotto elegantissimo e fortunato con le donne. Statura alta, persona agile e ben portante, maniere un po’ fredde, ma garbate, fisonomia alquanto aristocratica, nella quale traspariva una lieve tinta d’orgoglio; tutto, insomma, parea riunirsi in lui per formare un bel soldato ed un cortigiano perfetto.
Il colonnello Buonopane, al contrario, aveva figura e modi di arguto caratterista; grosso, paffuto, e vero cuor contento, dispostissimo alle burle ed alle risate grasse.
Il generale Letizia aveva un tantino dell’inglese; il colonnello Buonopane era napoletano dal capo ai piedi, e non pareva possibile discorrerci a muso duro. Però, quanto serio e sdegnoso mi parve essere il generale, altrettanto giudicai buono e di larghe maniche il colonnello.
– Signori, – ripigliò Garibaldi, quando li ebbe visti seduti ambedue – mi rincresce di non aver da offrirvi se non i miei cattivi sigari di Nizza... Ma, à la guerre, comme à la guerre.
E offerse loro i soliti suoi mezzi sigari. Dico così, perché nessuno vide mai Garibaldi fumare o tenere in tasca un sigaro intiero. I due ufficiali ringraziarono.
Garibaldi disse allora al Letizia, guardando l’orologio:
– Mancano pochi minuti a mezzogiorno...
E il Letizia rispose subito, quasi interrompendolo:
– Appunto siam qui, perché mezzogiorno è vicino. Generale, noi abbiamo fatto quanto il nostro dovere ci comandava, ed ora...
– E ora, – saltò su Garibaldi – convenite meco nel concludere che questa guerra fratricida dev’essere egualmene amara per noi e per voi?...
Il Letizia non rispose, ma il Buonopane s’affrettò a rispondere in nome proprio e del suo illustrissimo superiore:
– Eh, non può negarsi, signor generale, che queste scene non piacciono a nessuno... e perciò brameremmo che cessassero.
– Ebbene, – soggiunse Garibaldi – tocca a voi...
– Per me, – tornò a dire il generale Letizia – troverei ben fatto che l’armistizio si prolungasse, e questa volta si prolungasse indefinitamente, cioè finché una delle due parti non credesse conveniente di rifiutarlo.
– Va bene, – rispose Garibaldi e tolto in mano il pugnaletto si diè a sbucciare un’arancia.
Il generale Letizia proseguì dicendo esser munito di pieni poteri per trattare un nuovo armistizio, e soggiunse che se avesse la sorte per concluderlo, partirebbe alla volta di Napoli, per dichiarare al re, suo signore, la vera condizione delle cose, e per invocare da lui ordini precisi circa il da farsi.
Le parole del Letizia erano state chiarissime, ma il colonnello Buonopane volle pigliare ad illustrarle con un abbondantissimo commento, lasciandoci intendere che i loro soldati incominciavano a mostrarsi insofferenti della disciplina e che gli svizzeri e, in special modo, i bavaresi, eran divenuti veri diavoli d’inferno, e rispettavano appena appena gli ufficiali della loro lingua, mostrandosi arroganti e minacciosi con quanti parlassero italiano. Ei concludeva, dunque, col dire che se Garibaldi avesse accordato condizioni onorevoli e discrete, si poteva stipulare una tregua, e si potea sperare eziandio da quella tregua... Dio sa che cosa.
Mentre il colonnello così parlava, Garibaldi aveva mondato tutt’intiera un’arancia e l’avea aperta; ora, egli ne infilò uno spicchio con la punta del pugnaletto e lo porse a Letizia, dicendo: «A voi, generale»; e poi ne infilò un altro e l’offrì a Buonopane, dicendogli: «A voi, colonnello».
Io guardavo, e avrei voluto avere in mano una penna intinta nell’inchiostro, e in aiuto della penna, un pennello.
– Benissimo! – ripigliò Garibaldi infilzando col pugnaletto un terzo spicchio. – Non sarà per cagion mia che questa tregua non si stipuli qui sul tamburo. Proponete pure le vostre condizioni...
– Le condizioni le ho già scritte, – disse Letizia, togliendosi di tasca alcuni fogli piegati in quattro. – Se permette, le leggerò.
– Leggerò io, signor generale, – ripigliò il colonnello, allungando la mano per pigliare i fogli.
E messo in bocca un altro spicchio d’arancia, che Garibaldi gli porse, cominciò a leggere le condizioni della tregua.
La prima condizione voleva che si restituisse subito l’acqua potabile al castello.
– Accordato, – rispose Garibaldi.
La seconda che si mandassero al castello medicine per gli ammalati e feriti.
– Con tutto il cuore, – disse Garibaldi.
La terza che si scambiassero i prigionieri.
Garibaldi acconsentì anche a questa condizione, ma chiese che fossero ancora rimandati liberi gli ostaggi, presi dal generale Lanza in Palermo e custoditi nel castello.
Il Letizia rispose che in quanto agli ostaggi, non aveva facoltà di trattare, ma assicurò sull’onor suo che gli ostaggi eran tenuti benissimo, e che probabilmente il re li avrebbe fatti rimettere in libertà, non appena egli fosse giunto a Napoli.
Garibaldi rifletté alquanto; poi esclamò:
In quel momento, proprio in quel momento, una gran scarica di moschetteria rimbombò a breve distanza, e fece tremare tutti i cristalli della sala.
Il Letizia e il Buonopane balzarono in piedi, pallidi come due morti.
– Bandi, – disse il generale – andate a domandare chi è che fa fuoco senza mio ordine...
M’alzavo per obbedire, quando l’uscio della stanza s’aperse e comparve il Cenni, annunziando che gl’insorti, udendo suonare mezzogiorno, aveano attaccato il palazzo reale e il castello.
– Fate che cessino, – disse Garibaldi, senza scomporsi, e seguitò a sbucciare le sue arance.
Cenni escì, ed io tornai a sedermi sul canapè.
I due ufficiali parevan più morti che vivi.
– Oh Dio! generale, – esclamò Letizia – fate davvero che cessino... Non ci date più diacciacuori!...
– Sì, generale, per carità, è tempo che si finisca, – soggiunse il Buonopane, giungendo le palme in atto di preghiera.
– Siate tranquilli, signori, – disse Garibaldi – siete in casa d’un galantuomo.
Queste parole furono dette come io le ridico, e non parrà inverosimile che io me le abbia scolpite nella memoria, perché certe parole non si dimenticano mai.
– Sì, – tornò a dire il Letizia – io partirò oggi stesso, sarò a Napoli domattina, parlerò a Sua Maestà, ma pensate voi, generale a tenere a freno questi benedetti insorti...
– Li terrò, li terrò, – rispose Garibaldi – ma voi, pensate, dal canto vostro, a far sì che le tregue si rispettino un po’ meglio. Dovete sapere meglio di me che i sobborghi sono in fiamme, che molte case della città vanno a sacco...
– E voi che dite, generale? – esclamò il Buonopane. – Non sapete che i bavaresi rubano anche a noi, e che i soldati di un nostro battaglione hanno saccheggiata perfino la casa del loro maggiore?
Dopo questi ed altri discorsi, si riprese a trattare delle condizioni. La condizione più importante era quella relativa ai luoghi, che avrebbero occupati i due eserciti durante l’armistizio. Garibaldi volle che tutta la città fosse sua. I parlamentari si provarono a fare qualche eccezione, ma trovando duro il terreno, convennero che le truppe regie si ritirerebbero nel castello e formerebbero un campo sotto il monte Pellegrino.
Fissata questa condizione, e le rimanenti che non ricordo, il generale fece chiamare Sirtori, suo capo di stato maggiore, e Cenni comandante la piazza, e ordinò loro che stipulassero in modis et formis la tregua, ponendo per patto che, la mattina dipoi, alle ore sette, la città rimarrebbe libera del tutto dalle truppe regie.
Erano usciti da poco tempo gli ufficiali del Palazzo Pretorio, quando un gran chiasso s’udì nella piazza. Nino Bixio avea schioccato un ceffone all’Agnetta: che, due anni più tardi, dovea costargli una mano, trafitta da una palla di pistola, in un duello a morte. I soldati d’Agnetta, vedendo offeso il loro capitano, avean preso lo spunto; certi soldati di Bixio, lì presenti, vollero fare alto là; e poco andò che non nascesse un parapiglia. In quel giorno doveano celebrarsi le esequie del maggiore Tuckery, morto per amor nostro, e Bixio dovea presiedere alle esequie. Per fortuna, amiche mani si frapposero tra Bixio e l’Agnetta, e il chiasso finì lì, e i due nemici si separarono, digrignando i denti, e bestemmiando; ma con le mani monde di sangue.
Garibaldi, appena avuto notizia di quella nuova scappata di Bixio e del gran rumore che se ne facea per Palermo, mandò a chiamare il peccatore, e gli disse cose da chiodi.
Nino Bixio, che si rammenta e si celebra come uomo audacissimo e intollerante d’ogni autorità, pareva un pulcin bagnato, quando venne al cospetto di Garibaldi. La parola del gran capitano suonava così:
– Bixio, voi mi avete guasta una bella giornata, una gran bella giornata... Come farete a comandare diecimila uomini, voi che non sapete comandare a voi stesso?
Io non seppi mai immaginare uomo più terribile di Garibaldi adirato, sebbene ei fosse nelle sue ire temperatissimo e incapace di torcere un capello al suo prossimo. Ma appunto quella moderazione, quella padronanza de’ suoi impeti faceano sì che egli esercitasse una potenza misteriosa e irresistibile su quanti lo vedeano adirato; perché guardandolo e ascoltandolo, bisognava dire: «Costui tiene in briglia se stesso, dunque è capace di tenere in cristi centomila uomini».
Il dittatore condannò Nino Bixio a star prigione nelle sue stanze, e l’uomo fortunato ebbe (dicono) per consolatrice della prigionia una ninfa gentile, le cui dita sfiorarono più volte la mia pelle e mi fecero vedere il sole e la luna, mentre medicavano, su d’un terrazzo prospiciente il mare, le mie fortunatissime ferite.
La mattina seguente, i regi abbandonarono di buon’ora il palazzo reale e altre loro posizioni e si posero a campo, com’era stabilito, sotto il monte Pellegrino, famoso al mondo pel santuario della miracolosa Rosalia, al quale vanno pellegrinando, ogni anno, tutti i buoni e fedeli palermitani.
A una cert’ora, vennero a palazzo due nuovi parlamentari borbonici; ma questi non dovean far altro che consegnare a Garibaldi i suoi volontari prigionieri, e ripigliare i loro, se mai acconsentissero a tornarsene sotto la bandiera bianca.
Uno dei parlamentari era il capitano di artiglieria Riario Sforza, l’altro era il tenente Colonna, di cavalleria. Il Colonna fece motto nell’anticamera, ma poi, avendo non so che negozi da sbrigare con Sirtori, se ne andò con lui, e solo rimase il capitano Riario Sforza. Quando fu tempo, lo condussi, tutto armato com’era, dinanzi a Garibaldi, che lo accolse coll’usata cortesia, e gli disse:
– Capitano, il vostro casato mi rammenta un nome glorioso nella storia d’Italia. Senza dubbio i vostri antenati furono lombardi...
– Lo furono veramente – rispose il capitano – ed io sono nipote dell’arcivescovo di Napoli.
Dopo queste parole, il capitano dichiarò lo scopo della sua missione e soggiunse che tredici prigionieri (quanti erano) aspettavano di presentarsi a lui.
– Fateli passare – disse Garibaldi a Stagnetti.
Stagnetti escì, e rientrò poco dopo, coi tredici prigionieri.
Que’ tredici disgraziati, pel solo fatto di essere rimasti tra le mani dei regi e d’avere assaggiato sulla schiena quanto pesassero i calci dei loro moschetti, credevano d’aver preso Budda, e vennero dinanzi al generale col viso ridente e con tanto di cuore aperto.
Garibaldi li squadrò ad uno ad uno, e chiese:
– C’è tra voi nessuno che sia ferito?
Tutti tacquero e diventarono di mille colori. Il loro silenzio voleva dir di no.
– Orbene – seguì a dire il generale – dove vi fecero prigionieri?
– Al parco – risposero ad una voce.
Il generale tornò a guardarli, e volse le spalle, e passeggiò per la stanza. Quindi, facendosi a guardarli ancora, con aria più severa che mai, disse:
– Voi siete quei tali, che i francesi chiamano trainards, e che noi, in buona lingua italiana, chiamiamo... con un altro nome. Non v’avrei pianti, se il nemico v’avesse ammazzati dal primo all’ultimo. Andate.
E con un cenno sdegnoso li accomiatò.
Partiti che furono, il capitano Riario Sforza pregò il generale che volesse farlo accompagnare alla casa dove aveva abitato, prima della rivoluzione, dicendo di dover pigliare certe argenterie.
Garibaldi accondiscese volentieri a quanto il capitano dimandava, e mi disse:
– Accompagnatelo voi.
Non era un compito molto facile ad eseguirsi pulitamente e bene, quello di condurre per le vie di Palermo un ufficiale borbonico in divisa ed armato di tutto punto, in mezzo a quella gran gente che vi s’affollava, e che appena veduto da lontano un borbonico, pareva volerlo divorare con gli occhi.
Mi feci dare quattro uomini dal comandante la guardia del palazzo, e escii col capitano.
Appena arrivati alla casa che cercava, feci far largo a certi picciotti che sedevano in frotta sugli scalini, e questi si ritrassero mormorando. Il capitano entrò nel suo appartamento, e ne uscì, poco dopo, con un involto, che mi disse contenere alcune posate d’argento. Tornando sulla strada, i picciotti parvero avere annasato ciò che avea per le mani il capitano, e si affollarono intorno a noi, in sembianze tutt’altro che rassicuranti, sicché dovetti alzar la voce un tantino e dichiarare che il capitano era cosa, non di Dio, ma di Garibaldi, e guai a chi lo avesse toccato.
Giunti che fummo nella via Toledo, dove miserando spettacolo davano le rovine delle case e de’ bei palazzi, il capitano mi pregò che volessi permettergli di fare alcune visite, dicendo piacevolmente di non voler partire da Palermo senza accomiatarsi dalle sue più care conoscenze. Gli risposi che lo avrei accompagnato dovunque volesse, se non gli dispiaceva di passeggiar più a lungo in mezzo a quel popolo che lo guardava con occhi biechi e non si stava dal lanciargli addosso imprecazioni e maledizioni. Infatti, mentre passavamo accanto alle rovine, non mancava mai chi esclamasse, additando il capitano d’artiglieria: «Lo vedi che cosa hai fatto? Le vedi le tue belle opere, scellerato?».
Lo accompagnai, dunque, in due o tre case, dove le accoglienze che ebbe, furono assai diverse da quelle che sperava, perché, invece di trovare carezze, non trovò che silenzio o parole che lo persuasero ad abbreviare, più che fosse possibile, la sua visita.
Ripassando per Toledo, in vicinanza del duomo, il mio capitano mi disse, additandomi un palazzo, mezzo rovinato:
– Vi contentate che salga su in questo palazzo a dire addio a una signora?...
– Come? Non vi basta la salsa che aveste e ne volete qualcuna un po’ più agra? Non vedete come l’hanno concio questo palazzo, le vostre bombe?
Il capitano sorrise e salì su. Trovammo una bella signora, di mezz’età con due figliuole giovanissime, e leggiadre tanto, che pareano due verginee figure di Pietro Perugino. La signora, appena veduto il capitano, cominciò a spassionarsi del cattivo governo, che della povera sua casa s’era fatto dalle artiglierie borboniche, le quali non aveano rispettato neanche il pianoforte... Le signorine, udendo spassionarsi la madre, avean negli occhi le lacrime e additavano al poco gradito visitatore le rovine ammonticchiate per ogni parte.
C’era poco da rispondere; tuttavia il capitano volle provarsi a far le scuse proprie e quelle dei cannoni ma con poco o niun frutto; perché le signore, quasi per far contrasto, si volsero tutte insieme a me, e vedutomi pallido e infermiccio, mi fecero sedere, e vollero rinfrescarmi la fasciatura delle ferite, e quindi m’empirono le tasche di finissima tela, e fu necessario ch’io dicessi loro chi ero e chi non ero, e facessi la storia dei nostri casi. Il capitano era mortificato quanto mai: credo avrebbe bombardato di bel nuovo il palazzo, se avesse avuto in tasca le artiglierie. Finalmente, vedendo che per lui tutti i lumi erano spenti e le elemosine eran fatte, volle venirsene, e mi tolse, prima assai che lo avessi desiderato, da quella gentile compagnia.
– E ora, volete qualche altra visita?
– No di certo – rispose. – Vi ringrazio tanto, ma farete bene ad accompagnarmi agli avamposti.
Lo contentai colla miglior volontà del mondo, e pigliando giù verso la marina, sempre in mezzo alle occhiate torve e alle vociferazioni della folla, giungemmo al campo dei regi, sotto il monte Pellegrino.
Le nostre sentinelle erano forse a distanza di trenta passi da quelle del nemico, e si guardarono in cagnesco.
Il capitano voleva condurmi dal suo generale, ma lo ringraziai, e fui contento d’aver veduto le mostre di quell’esercito, le quali non mi fecero entrar la voglia di conoscere a fondo la derrata.
Allora, il capitano cominciò a ringraziarmi della buona e cortese compagnia che gli avevo fatta, e prese a discorrere dei pericoli della nostra impresa e della poca fede che meritavano gli insorti siciliani, i quali (secondo lui) alla prima ombra d’un mutamento di fortuna ci avrebbero piantati in asso, senza neanche darci il buon giorno. Io gli risposi come dovevo, ed egli mi pregò che gli lasciassi il mio biglietto da visita; e come, in quei giorni, era più facile avere in tasca una cartuccia che non un biglietto di visita, così dovette contentarsi di scrivere il mio nome sul taccuino.
Lo guardai, come per dimandargli: «E che v’importa del mio nome?».
Ed egli mi disse con viso molto serio:
– Amico mio, son tante le combinazioni... In ogni caso, voi potete far capitale di me...
– Grazie – risposi sorridendo – è vero che i casi son tanti, ma quello che aspettate voi, cioè di vedere le cose andare a ruzzoloni, è più lontano della fin del mondo.
– Sì? – ripigliò il capitano. – O guardate.
E mi accennava un bel parco d’artiglieria disposto in bell’ordine a poca distanza da noi, e poi girò gli occhi verso quattro battaglioni esteri, che un generale (non so chi fosse) passava, in quel momento, in rassegna.
– Quanti siete in tutti? – gli domandai.
– Quasi diciottomila, e fra tre giorni potremmo essere altrettanti...
– Buon per voi – dissi; e salutandolo me n’andai. Nel tornarmene via uno degli ufficiali che comandavano gli avamposti, mi disse:
– Ci hanno messi qui coll’ordine di tener quieta la nostra gente e di dare il buon esempio nel rispettare la tregua, ma c’è da scommettere che innanzi sera ci pigliamo pei capelli con quei maledetti bavaresi. Costoro canzonano i nostri volontari perché son tutti in cenci, e perché qualcuno ne vedono col pugnale alla cintola... Diglielo a Garibaldi che provveda subito: altrimenti, questa musica finisce molto male.
Mi volsi a guardare i bavaresi, e vidi che il mio compagno avea ragione, perché a me pure vollero ridere in faccia, e mi fecero sentire qualche parola tedesca, che non doveva certamente esprimere una carezza.
Non ti curar di lor, ma guarda e passa...
per la qual cosa, guardai e passai, e fui di ritorno, in breve tempo, al Palazzo Pretorio.