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Insopportabile cominciava a farsi, in parecchi punti della città il fetore dei cadaveri, giacché oltre quelli travolti sotto le ruine, moltissimi giacevano per le fogne e in fondo ai pozzi. Il combattimento era stato assai lungo dentro la città fra gl’insorti ed i birri, la caccia de’ quali non era terminata ancora, perché, quanti sbucavano da’ nascondigli, tanti eran presi e fatti a pezzi, se non riesciva a noi, per vero miracolo, di salvarli e di chiuderli nelle prigioni. Per far cessare la caccia ai birri ed altre rappresaglie feroci, nel calore delle quali si esercitarono parecchie vendette private, Garibaldi dovette pubblicare un bando, col quale si minacciavano pene severissime ai micidiali; ma non oserei dire che quel bando fosse scrupolosamente osservato in tutte le ore del giorno e della notte.
Ora, mentre si dava opera a togliere di tra le macerie i morti e a purgarne i pozzi, il generale pensò ai poveri feriti, disseminati per gli spedali della città e, in parte, per le case, dove il popolo li aveva raccolti e li assisteva con amore.
– Andiamo – disse – a vedere i nostri compagni, e mostriamo loro che non li abbiamo dimenticati.
E mentre dava ordine che si apprestassero de’ canestri pieni di aranci e di limoni, e si preparasse del danaro e quant’altro potesse recar conforto ai feriti, soggiunse:
– Non dimentichiamo di cercare Benedetto Cairoli, ve’. Non l’han trovato per gli spedali, ed è segno che qualche buona famiglia se l’è preso in casa.
– O dov’è mai, il povero Benedetto? – dimandavano tutti.
– Lo so io dov’è Benedetto Cairoli – saltò su un ragazzo di Pavia, vestito d’una camicia rossa, tutta lacera. – Venite meco e lo vedrete.
Garibaldi seguì il ragazzo, e noi con loro.
Camminammo un bel pezzo, scavalcando le innumerevoli ed alte barricate che asserragliavano le vie, e giungemmo finalmente ad una casa alta, d’aspetto tutt’altro che signorile, in certa strada, della quale non rammento il nome, ma che deve essere non lungi dalla via Macqueda. Al terzo piano, il ragazzo pavese batté dolcemente ad un usciolino, l’usciolino s’aperse e comparve un giovane tozzo, bruno, bassotto, dal viso maschio e aperto, incorniciato in una folta barba, nera come le penne del corvo. Entrò il generale, ed entrammo con lui. La stanza era quadra, larga e lunga forse sei passi, e addobbata poveramente. In un lettuccio basso e stretto, come quello di un cappuccino, giaceva il Cairoli.
Garibaldi asciugò una lacrima e stampò un gran bacio sulla fronte del ferito, e disse:
– Benedetto, finalmente v’ho trovato!
Indovinate un po’, lettori miei, per qual caso si trovava Benedetto Cairoli in quella meschina stanzuccia?
Benedetto Cairoli, che comandava, all’assalto di Porta Termini, la compagnia dei suoi pavesi, ebbe tronca una coscia da una maledettissima palla di schioppo. Per qualche ora, giacque in terra, confortato da due o tre de’ suoi che gli bagnavano la ferita coll’acqua d’un ruscello, e poi, terminata la zuffa, venne tratto all’ospedale civico, prossimo alla porta, dove molti feriti garibaldini vennero raccolti.
Ora avvenne che dopo poco cominciò la squadra borbonica a bombardare, e le bombe principiarono a piovere anche sull’ospedale, e i tetti ballavano. Medici e pappini e malati non sapean più a qual santo raccomandarsi, e già una parte del soffitto rovinava, quando quattro picciotti di buon cuore tolsero una barella e caricatovi sopra il Cairoli, lo trasser fuori per ricoverarlo in qualche luogo, dove quelle indiavolate bombe, che Garibaldi colla sua imperturbabile ilarità chiamava rondini, non svolazzassero. Ma ad un tratto, dopo un cinquecento passi o poco più, ecco casca una bomba nel mezzo della via e scoppia col rumor del tuono; i picciotti fuor di sé dalla paura, lasciano cadere a terra la barella, e se la dànno a gambe, facendo vedere al povero ferito più stelle assai che non facesse vedere il padre Secchi nelle sue lezioni d’astronomia.
Cairoli rimase privo di sensi sul lastrico, per parecchio tempo, finché un giovine praticante di medicina, per nome Albanese, gli passò vicino, e lo vide e sel caricò sulle spalle e lo salì al terzo piano e lo adagiò sul suo lettuccio, e lo medicò e lo vegliò notte e giorno, coll’amore d’un fratello.
Il bravo Albanese era appunto quel giovine tozzo e bassotto e dalla barba nera, che ci aveva aperto l’usciolino, e a lui dovette Benedetto Cairoli la vita.
Il signor Albanese deve rammentare, senza dubbio, che Garibaldi gli strinse la mano e gli disse: «Voi siete un uomo di cuore, e io vi ringrazio!».
Queste poche parole, in quei tempi di buona e santa poesia, valevano assai più di una commenda dei SS. Maurizio e Lazzaro, o della Corona d’Italia, che Dio ne liberi sempre gli uomini dabbene.
Curiosissimo, per non dir peggio, fu il caso che occorse a parecchi feriti nostri, per opera di un frate della Gancia, che si chiamò padre Garibaldi. Costui raccontando che, in anni Domini, i suoi vecchi erano scesi giù da Nizza a Palermo, avea fisso d’aver comune col generale l’albero genealogico, e mai non se gli accostava senza chiamarlo a voce alta e con visibile compiacenza, caro parente. Il generale lasciava chiamarsi parente, senza farsene né qua né là; e il frate era sempre in giro per il palazzo a far beata pompa della sua parentela, mettendo il becco in tutte le verzicole e dandosi aria d’essere uno dei sette savi della Grecia o poco meno. Fra le altre virtù che il frate si attribuiva, era primissima quella della medicina; onde egli, veduti un giorno certi volontari feriti, le cui piaghe tardavano a cicatrizzare, disse a Garibaldi:
– Caro parente, è gran guaio davvero che tutta questa brava gioventù stia dolorosa per gli spedali, mentre avete bisogno di gente sana. I medici vostri e quelli di Palermo son sempre alle ricette del buon padre Noè, ed ignorano i mirabili segreti che abbiamo noi. Vedete, io ho appresa in convento la ricetta d’un farmaco, il quale, applicato che sia sopra una ferita, la chiude dolcemente e per sempre, innanzi che corrano ventiquattr’ore.
Piacque a Garibaldi questo discorso del frate, e fattosi assicurar da lui che la ricetta era buona e infallibile, chiamò me e parecchi altri, dicendoci:
– Ecco qui un buon frate, parente mio, il quale promette chiudere le vostre ferite in poche ore e ridurvi sani e capaci di combattere, se mai ne venga il caso. Fatevi medicare da lui e dite a’ compagni vostri che stanno per gli spedali, che il frate va a medicarli per mio ordine, e che si fidino di lui.
Il frate mi pigliò subito a braccetto, e si diè a commendarmi la virtù miracolosa del suo specifico, citando casi bellissimi di uomini, feriti gravemente di punta o di taglio o di palla, tornati in piazza sani e salvi e gagliardi, senz’altra medicatura che quella di un po’ d’unguento, steso su d’una foglia di noce e applicato sulla piaga.
E io gli dissi:
– Senti, frate caro, io non credo a’ miracoli, né parmi savio che si faccia violenza barbara alla natura, col chiudere a forza una piaga che dee purgarsi e richiudersi a poco a poco; oltre a ciò, mi pare che se certi segreti li conoscete voi, ragion vorrebbe che li conoscessero anche coloro che studiano per le università e che chiamano in aiuto della medicina tutte le scienze del mondo, e quelle specialmente, che impermaliscono i preti e i frati.
Ed egli a me:
– Come? Tu puoi dubitare del mio specifico? Uomo di poca fede... Or vado e torno subito con le medicine e vedrai tu...
Il frate andossene, e io corsi a cercare il dottor Ripari, e gli narrai il caso. Il vecchio Ripari saltò su tutte le furie e mi ammonì che non dessi retta al monaco cerretano, spiegandomi in brevi termini il gran danno che potea nascere alle ferite da quella violenta medicatura.
Io capii subito il latino, ma altri non seppe o non lo volle capire.
Tornato a palazzo il frate co’ suoi intrugli, parecchi si lasciarono medicare, ma io stetti duro, sebbene Garibaldi mi motteggiasse dicendomi che non era buono il dubitare quando si trattava di un galantuomo, che si asseriva certo del fatto suo.
Il giorno dopo, tutte le ferite medicate dal frate eran chiuse, e rammento che un giovane bresciano, il quale era stato ferito sulla gota destra, mi venne allegramente innanzi, mostrandomi la sua bella cicatrice e dandomi del minchione. Ma la gioia del bresciano e degli altri fu breve, perché, dopo poche ore, le cicatrici cominciarono a gonfiare e a diventar maligne e a cagionar spasimi infiniti, sicché fu d’uopo ai nostri cerusici il riaprirle colla punta del gammautte, e la gente di troppa fede si ebbe doppio il male e il malanno.
Garibaldi, al quale corsi a raccontare l’accaduto, rispose al solito:
– Eh, diavolo!...
E il frate parente, per qualche giorno non si vide più; e quando poi volle tornare a palazzo, ci tornò con la cresta bassa, ed io gli detti quel che si meritava, cantandogli e ricantandogli la famosa aria del dottor Dulcamara e consigliandolo a comprarsi un moro e una tromba e a correre per le fiere...
La mattina seguente, Garibaldi volle che escissimo seco di buon’ora, per visitare certe monache, il cui convento vicino assai alla nostra piazza era stato guasto e vituperato dai soldati regi, in modo degno dei vandali. Prima però di andare nel convento, fummo a vedere il duomo che era stato anche esso guasto dai soldati, e specialmente dagli svizzeri protestanti, i quali non avevano avuto ritegno di manomettere i sacri vasi e di spargere per terra l’olio santo e le specie consacrate, e di fare in pezzi i quadri e i simulacri e persino i confessionari. I preti che vennero a riceverci sulla porta del Tempio, esprimevano con parole e co’ cenni un profondo orrore, e pareano inconsolabili di quella scelleratissima profanazione.
Il generale cercò di consolarli, e disse loro che vedessero in quell’esempio come nulla sia sacro pe’ tiranni e pei loro sgherri. Quindi, lasciatili con Dio, salì con noi nel monastero. Le monache erano (poverette!) senza fiato e parevan tuttavia fuor di sé dallo spavento. Certe signore palermitane, venute a consolar le misere, e forse avevano scelto quell’ora per veder da vicino Garibaldi e a tutto agio parlargli, ci condussero a visitare per lungo e per largo il vasto edifizio, additandoci le vestigia del vandalico scempio, che di tutte le robe che non poterono portar seco, fecero i soldati. Qua, un altare rovinato, là, un quadro forato a colpi di baionetta, là, una statuetta senza capo e senza braccia; nelle cantine c’era alto l’olio più d’un palmo, e galleggiava sul vino; i dormitori, le sale non avean più se non tizzoni spenti e rottami.
Le monache ci dissero che nel momento del saccheggio, avevano in custodia molte e gentili giovanette della città, e narrarono, quand’ebbero ripreso animo, diversi episodi commoventissimi.
Garibaldi era inorridito e commosso, e lo vedevo stringer forte le labbra e dilatare le narici, come usava fare mentre il cuor gli piangeva.
Quando avemmo girato di cima in fondo il convento, trattenendoci alquanto su un bel balcone, dal quale si godeva la veduta della città e del porto e de’ vaghissimi colli circostanti, ci accomiatammo dalle monache, le quali vollero regalarci (scusandosi col non aver di meglio) un gran cartoccio pieno di zucca candita, che in Palermo suol essere una ghiottoneria.
Nel tornare a casa, mentre eravamo per scavalcare una barricata, un bel pezzo d’uomo ci venne incontro, e da lungi salutò in lingua francese il generale. Quell’omaccione era tutto vestito di bianco ed aveva in testa un gran cappello di paglia adorno d’una penna azzurra, d’una penna bianca e d’una rossa.
– Indovinate un po’ chi è colui? – mi chiese Garibaldi.
– Chi può essere? – risposi. – Louis Blanc, Ledru Rollin?...
– Oibò – soggiunse il generale, ridendo – è Alessandro Dumas.
– Come? L’autore del Conte di Montecristo e dei Tre Moschettieri?...
– Proprio lui.
Le grand Alexandre abbracciò Garibaldi con infinite dimostrazioni d’affetto, ed entrò insieme a lui nel Palazzo Pretorio, predicando e ridendo forte, non altrimenti che della sua voce e della sua allegria volesse empire il palazzo.
Fummo chiamati a colazione. Alessandro Dumas avea condotto seco una poltroncella vestita in abito maschile, e precisamente da ammiraglio; la qual poltroncella, piccina e leziosa e piena di gesti, si pose a sedere alla destra del generale, come non fosse suo fatto.
– O per chi ci ha presi quel glorioso bue? – dissi ai compagni che m’erano accanto – È vero che molte licenze s’accordano ai poeti; ma questa che si piglia adesso, di mettere a tavola col generale e con noi quella minuscola figlia del peccato, è tal licenza che non concederebbero mai né gli Dei, né gli uomini, né le colonne.
Il grande Alessandro mangiò come un poeta, e si mostrò tanto voglioso di discorrere, che mai non volle prestar lo staio a nessuno. Vero è che parlava come sapeva scrivere, e io stetti a bocca aperta ad udirlo, anche quando per la soverchia velocità del discorrere, non capivo un’acca delle sue parole.
Mentre mangiavamo di buon appetito, le innumerevoli bande musicali comparse in Palermo con le torme degli insorti, alternavano sulla piazza le sinfonie guerresche. Una di quelle bande suonò in modo meraviglioso il finale dell’atto primo della Leonora di Mercadante, che è un pezzo stupendo, e sentii con molta meraviglia, che, tranne il direttore, non c’era in quella banda chi sapesse leggere la musica. Quei diavoli suonavano a orecchio, ma si sarebbe detto che eran tanti professori.
Quando comparve in tavola la zucca delle monache il grand’Alessandro fece tanto d’occhi, e se ne cacciò in bocca una gran fetta; poi si diè a cantarle il magnificat, e tanto l’ebbe commendata, che il generale la fece riporre in un cartoccio, e tutta gliela offerse perché la portasse seco. Monsù Dumas tolse lietamente il cartoccio e lo consegnò all’ammiraglio, cioè alla femminuccia che aveva seco; e poi disse a Garibaldi:
– Voi mi avete regalato una delizia, ma io saprò ben ricambiare il dono.
E, bevendo un ultimo bicchiere di vino di Marsala, dette la fausta novella d’aver recato a bordo della piccola sua nave che si chiamava Emma, tante e bellissime armi le quali eran tutte del dittatore, senz’altra fatica che quella di mandarle a prendere.
Noto, a questo proposito, che il generale ci mandò più tardi a pigliare le armi d’Alessandro Dumas, e noi ci andammo con un grosso navicello; ma le armi che ci dette il francese, non avrebbero empiuto un carrettino di competenza d’un somaro. Infatti, tutto quel gran tesoro consisteva in sette o otto sciaboloni da cavalleria, e in dodici vecchie carabine; roba degnissima del ferravecchio. Ossequienti al proverbio che «a caval donato non si guarda in bocca», pigliammo le armi e le recammo al generale, che rise assai paragonando i doni minuscoli del gran romanziere francese, colla magnificenza delle sue promesse.
In quello stesso giorno, essendo a fumare il mio sigaro sulla porta del palazzo, vidi all’improvviso entrare sulla piazza una gran folla, e a tutte le finestre affacciarsi gente con vivi segni di curiosità. Era l’arcivescovo di Palermo, che con tutto il clero della città veniva a far riverenza al dittatore. Quando egli fu vicino alla porta, gli mossi incontro e col berretto in mano gli dimandai che volesse. Rispose:
– Vedere il generale Garibaldi, e presentargli il mio clero.
– Benvenuto, monsignore – risposi.
E quando lo vidi incamminarsi su per la scala, in quattro salti lo precedetti nell’anticamera, dov’erano i miei compagni, i quali, sentito da me che stava per entrare l’arcivescovo con un nugolo di preti, cominciarono a inviperirsi e a maledire i corvi e chi li guidava.
Avvisai subito il generale, ed egli uscì dalla sua stanza e mosse incontro a quel vecchietto piccin piccino, col quale favellò amorevolmente per una mezz’ora buona, ascoltando i lamenti che faceva della sacrilega improntitudine dei borbonici, e consolandolo come meglio seppe e poté; indi con bella e chiara voce e con parole oneste arringò tutti quei preti; e quando poi li accompagnò in cima alle scale per accomiatarli, erano innamorati pazzi di lui e lo avrebbero santificato.
Rammento che a questa udienza assisté anche il padre Pantaleo, tenendo in mano la croce di legno, che una palla borbonica gli avea rotta in due, mentre nel momento più caldo della zuffa, esortava le turbe dei picciotti a voler correre all’assalto.
Mezz’ora forse, dopo che era partito l’arcivescovo, salirono su due ufficiali di marina, uno de’ quali era uomo di una certa età, grassoccio e traverso e di fisonomia volgarissima. L’altro era giovane, biondo e simpatico. Il più vecchio mi disse sgarbatamente, in lingua francese, che lo annunziassi al generale Garibaldi.
– Chi debbo annunziare? – gli chiesi.
– L’amiral français – rispose il grasso, con un’aria tanto vanitosa e superba, quanto se avesse detto: «Sono Carlomagno o sono Duguesclin».
Era il famoso Le Barbier Du Tinan, che più tardi doveva far la parte dell’avvocato del re Bomba in Gaeta, e doveva spingere l’arroganza sua tant’oltre, da tirare a palla contro le fregate italiane.
Lo introdussi da Garibaldi, e lo chiusi dentro; stettero insieme venti minuti o poco più; e quindi monsù Barbier se ne andò col suo biondo aiutante, e nell’andarsene sentii che sghignazzava.
I francesi si chiarirono, per tutta quella guerra, poco meno che nemici nostri; giacché ci tennero continuamente il broncio e non fecero cosa che rammentasse i francesi dell’anno scorso.
Al contrario, l’ammiraglio inglese ci fu largo di assistenza in parecchi casi e mostrò sempre di volerci bene. Il suo segretario veniva ogni giorno a far visita a Garibaldi, e spedì nel continente le nostre prime lettere, e si tratteneva con noi domesticamente e col più gran piacere del mondo.
L’ammiraglio Persano, per quanto s’arrisicasse di nascosto a far capire a Garibaldi che e’ non era nemico nostro, si tenne in quei giorni assai al largo, e non ci rese la centesima parte dei servigi, che ci resero gli inglesi.
Non occorre dire che gli austriaci ci guardavano con gli occhi torti, e che accigliatissimi erano gli spagnuoli, i prussiani ed anco i russi, mentre gli americani ci vollero un bene dell’anima, e ce lo fecero vedere.
L’aspetto della rada popolata da quasi cinquanta legni da guerra, dodici de’ quali erano borbonici, appariva magnifico oltre ogni dire. Inglesi e francesi avevano ancora i grossi vascelli da centodieci cannoni, meraviglia delle antiche genti; gli austriaci avevano belle fregate, e gli americani due agili corvette. C’erano poi i portoghesi, e c’erano anche i turchi.
Una tal volta, sessanta o settanta marinai della squadra inglese vennero a palazzo, pregando Garibaldi che li pigliasse con sé; un’altra volta certi marinai delle navi di Persano; ma è inutile dire che, un po’ con le buone, un poco con le cattive, li mandammo con Dio.
Sebbene l’armistizio fosse rinnovato e prolungato a tempo indefinito, non cessavamo dallo starcene in guardia. Le barricate erano sempre ritte, e le custodivano in gran parte i ragazzi di Palermo, che ordinati in un grosso battaglione e armati di picche, erano le più diligenti e vispe e fedeli sentinelle, che un prudente capitano potesse mai desiderare. Affidati a quelle scolte impareggiabili, i nostri volontari e i picciotti potevano avere un po’ di requie, e starsene tranquillamente accoccolati presso le barricate, che, come dissi, erano tanto alte, da sorpassare soventi i primi piani delle case. Nella notte, pareva sempre che ci fosse la luminaria, perché era ordine del dittatore che ad ogni finestra ci fosse un lume, nel modo stesso che sui tetti c’erano le provviste dei ciottoli, per fulminar dall’alto i napoletani, caso mai fosse venuto loro il ticchio di tornare nella città.