Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

XII

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XII

 

In que’ giorni comparve tra noi il barone Nicotera, escito, per voler di Dio e per opera di Garibaldi, dall’infame ergastolo di Favignana, dove il Borbone l’avea condannato a penare, finché il becchino non lo liberasse. Il poveretto era giallo come un popone vernino, ed avea gli occhi verdi, e la pelle attaccata alle ossa. L’abbracciai con tanto di cuore e gli dissi:

– Quando siamo passati dinanzi alla tua isola, Garibaldi si è rammentato di te, e ci ha detto: «Ecco, lassú sta il povero Nicotera».

E Nicotera soggiunse:

– Ero a pigliar aria, quando cominciarono a vedersi i due vapori. Non avevano bandiera, né potevo immaginare chi ci fosse a bordo; nonostante, sentii nel cuore un non so che, e una strana allegria mi prese... Poi, quando, poco dopo sentii il cannone, allora immaginai che legni fossero que’ due vapori sconosciuti, e pensai subito a Garibaldi.

Giovanni Nicotera, in quel tempo, aveva il diavolo addosso, e pativa il male che patiscono tutti coloro che all’improvviso passano dalle pene alla gioia, dalla disperazione al trionfo; e’ non vedeva che coi propri occhi, ma vedeva a traverso d’un paio di lenti verdi, o, per dir meglio, infocate.

Quando sentii che Garibaldi l’aveva scelto per andare in Toscana a far gente, io dissi subito tra me: «Ecco, che mettendo Nicotera a tu per tu col baron Ricasoli, si mettono insieme Satana e l’acqua santa».

Rammento che il generale avrebbe voluto che andassi anch’io con Nicotera a Firenze, parendogli che, come toscano, avrei potuto forse aiutarlo efficacemente, ma io me ne schermii, dicendo:

Generale, sento che guarirò presto, perché le palle non mi hanno toccato le ossa, o me le hanno lambite con gentilezza e tutto il guaio fu nelle cicce e non altrove. Mi consenta, dunque, di rimaner qui, ché troppo mi dorrebbe l’andarmene dal teatro, sul principio del secondo atto.

Il generale mi rispose col suo solito intercalare:

– Eh va bene!

E Nicotera partì solo, ed ebbe col barone Ricasoli quel che ebbe, e nol rividi che a Napoli in casa di Giuseppe Mazzini, quando egli ed io con pochi calabresi, lo difendemmo dalla canaglia che gli gridava: «Morte!» sotto le finestre, e si provò anche a battere alla sua porta.

 

Tra la molta gente che capitò in Palermo dopo che la città fu sgombra dai soldati regi, notai Giuseppe La Farina. Fu detto, e lo credemmo, che costui fosse venuto in Sicilia per sollecitare il plebiscito, innanzi che Garibaldi avesse proceduto più oltre nella liberazione dell’isola, e specialmente innanzi che e’ ponesse piede sulla terra ferma. C’era allora in Torino chi pensava avesse un gran danno ed un maggior pericolo ancora che Napoli venisse a far parte del nuovo regno per opera di Garibaldi, e ci fu eziandio chi temette che Garibaldi, cedendo alle tentazioni di Mazzini, non fosse tomo di ritardare o anche di impedire l’annessione.

Il La Farina era venuto tra noi per affrettare, come dissi, il plebiscito, e sembrava non parergli vero che la serie miracolosa delle vittorie garibaldine terminasse a Palermo, o, nella peggiore ipotesi, al Faro. Certo è che per suo consiglio si cominciò a metter fuoco nelle moltitudini, eccitandole a reclamare l’annessione immediata, per quanto le parole e gli atti di Garibaldi facessero chiara testimonianza che egli lavorava lealmente per la santa opera dell’unificazione della patria e nulla affatto per i capricci delle sette.

Garibaldi si tenne giustamente offeso dall’affaccendarsi del La Farina, e spesse volte manifestò a noi il gran dispetto che sentiva nel vedere che si dubitasse della sua sincerità, e che si cercava di troncare la ben cominciata sua opera, per un indegno sospetto ed anche per una ignobile e tirchia gelosia.

Qualche volta, udendolo rammaricarsi, io gli dissi:

Generale, quando l’anno scorso si vollero legarvi le mani ed impedirvi di passare alla Cattolica il Rubicone, voi non voleste chiudere nel vostro salotto da pranzo il general Mezzacapo e il general Rosselli, ed anche il general Sanfront che vi venne a prendere per condurvi a Torino; oggi sarebbora che pregaste il signor La Farina d’andarsene via dall’isola, e d’ordinarglielo se le preghiere non bastassero.

Il generale non rispose mai né sì, né no; ma un bel giorno, mentre passeggiavo per la via Macqueda, seppi che il signor La Farina avea ricevuto una visita da Fruscianti e da Gusmaroli, e da alcuni altri miei compagni, i quali l’avean pregato a fare in fretta i suoi bauli e ad andarsene subito, così volendo il dittatore della Sicilia...

Mentre stavamo così tranquillamente a guardarci in faccia coi regi, accampati sotto il monte Pellegrino o chiusi nel castello, le squadre dei picciotti si moltiplicavano sempre più tanto che ebbi per fermo che i nostri irrequeti ausiliari non dovessero essere in minor numero di quindici o sedici mila. Una parte di dette squadre obbediva al generalissimo La Masa, che avea messo su un grande stato maggiore e stava d’alloggio in un bel palazzo, con due sentinelle alla porta e si sarebbe detto volersi paragonare a Murat; un’altra parte s’andava formando in battaglioni sotto gli ordini di Bixio, mentre una buona dose vagava, quasi senza capocoda, per le vie o per i dintorni della città, tirando fucilate per aria e vociando a più non posso.

Una volta mentre passava una brigata di dette squadre, noi che dal Pretorio eravamo andati ad abitare il palazzo reale, vedemmo alla testa dei picciotti, tutto lustro d’oro e dritto su di un bel cavallo, un tale che con fama di uomo valorosissimo, era partito in nostra compagnia da Genova, e parea dover mangiare bestie e cristiani. Ora, correndo voce che costui, dal primo giorno in cui cominciarono a fischiar le palle avesse meritato tutt’altro che i fiocchi d’oro e il pennacchio, ci fu chi lo accennò e disse:

Vedete, amici, come marciano le carogne?

To’, o non è il tale? – dissi io, guardando con occhi di meraviglia colui che avea scagliata la prima pietra. – Non fu de’ nostri sino a Genova?

– Sì è il tale veramentesoggiunse l’altro. – Ma dovete sapere che quel gran Rodomonte, appena sentì a Calatafimi le prime zizzole, s’appiattò come un topo spaurito, e poi finse di smarrir la strada ed entrò in Palermo tra gli ultimi, cioè con un branco di spogliatori di morti, e di ladri... Ora l’han fatto quel che l’han fatto, e se il boia non l’appicca, diventerà generale.

Francesco Nullo e Missori e tutti gli altri soliti, eran presenti a quel discorso, e ci fu presente anche Menotti.

E Nullo disse:

Gua’, anch’io ho sentito dir qualcosa intorno a quel bel signore; anzi, i tali e i tali – e nominò alcuni bravi compagni nostri – m’avean pregato di parlarne al generale... è una vera vergogna, e noi faremmo male a tollerarla.

– E parliamone oggi al generalesoggiunse uno, che non ben ricordo chi fosse.

Guardatornò a dire Nullo – potreste parlarne tu, o Bandi, pel primo, e poi verremo noi ad aggiungere il resto.

Oibò! – esclamaisapete meglio di me, quanto è pericoloso il parlargli a carico della gente, anche se la gente se lo merita. Garibaldi fa sempre brutto viso a chi gli parla male di qualcuno. Rammentate che quando a villa Spinola lo voleste avvertire che non conducesse seco un tale, che nei cacciatori delle Alpi aveva meritato tutt’altro che fama di santità, egli vi mandò in pace paragonandovi a don Marzio alla bottega del caffè. Facciamo piuttosto così, tra poco andremo a tavola, entri in discorso Menotti, e noi gli verremo dietro appena il ghiaccio sia rotto.

Detto fatto. A un certo punto del desinare, Menotti ruppe il ghiaccio, e Nullo gli tenne dietro, e poi parlò Missori, e quindi entrammo tutti a far coro, e il generale seppe vita e miracoli dell’uomo, che avevamo visto poc’anzi. Le prove erano state piene e abbondantissime; nonostante, Garibaldi fece qualche interrogazione e volle chiarirsi ben bene; poi mutò discorso, e mangiato che ebbe quattro o sei fila di maccheroni e qualche frutto, si alzò, dicendo:

Mangiate voialtri che siete giovani; io non ne ho più voglia.

Restammo a tavola e mangiammo a nostro agio, non pensando più alla “esecuzione capitale” che avevamo fatta; poi, sparecchiata la tavola, chi andò qua, e chi , e rimanemmo soli nell’anticamera, Fruscianti ed io. Il generale mi chiamò forte e mi disse:

Andate subito a chiamare il signor X.

Corsi e trovai il signor X nella sala di un bel palazzo, vestito tutto in ghingheri, in mezzo a un crocchio d’ufficiali dei picciotti, che parea Carlo in Francia.

Appena mi scorse, s’alzò per venirmi incontro, e mi chiese:

– Che notizie abbiamo?... Abbiamo ordini?

– Sì – risposi – il dittatore vi ordina di venir subito a palazzo.

Il malcapitato si fece di cento colori; e tirandomi in disparte, mi domandò con gran premura che cosa potesse esserci di nuovo.

– Non soreplicai asciutto, asciutto. – Venite meco e sentirete.

Quell’uomo doveva avere, come suol dirsi, il cul di paglia; perché lungo la strada non fece altro che tormentarmi per sapere qual fosse il motivo perché il generale lo chiamava con tanta premura a palazzo, ma fu lo stesso che dire a un sordo.

Giunti che fummo nell’anticamera, la porta della stanza del generale era spalancata, ed egli se ne stava nel vano di una finestra. M’inoltrai annunziando l’arrivo del signor X.

Fatelo entrare.

Entrò e fece sosta in mezzo alla stanza inchinandosi profondamente.

– Venite qua – gli disse Garibaldi.

Il signor X si avvicinò.

Io m’aspettavo di sentire una risciacquata a voce alta, di quelle proprio da levare il pel di dosso, ma invece, Garibaldi gli mormorò all’orecchio dieci o dodici parole e non più, le quali non intesi, ma che dovettero essere più acute degli stiletti.

Il peccatore divenne bianco come un morto e rimase immobile.

La mano del generale gli accennò la porta.

Quel cenno parve rendergli il movimento, perché e’ vacillò un mezzo minuto e parve voler cascare, ma poi uscì precipitosamente dalla stanza, fece le scale a due gradini per volta e scomparve.

Guardai il generale, ma non mi fece motto, e seguitò a fumare battendo con le dita il tamburello su i cristalli della finestra.

Seppi più tardi che il signor X era corso alla marina, s’era gittato sopra una barca, ed era ito a bordo di non so qual legno, che apparecchiava in quel punto per Genova. Non l’ho veduto più mai, né ho più mai inteso rammentare il suo nome. . . . . . . . . . . . . . .

 

In quella stessa sera, dopo tanti giorni che domandavamo invano novelle di Montanari, sapemmo finalmente che il povero compagno nostro era morto. Rimasto nel villaggio di Vita, dove l’avean ricoverato in una cameruccia, dopo che giacque per quasi sedici ore sul campo, Francesco Montanari avea sofferto e soffriva spasimi terribili, non essendoci in paese un chirurgo, che fosse buono a spiccargli la gamba, divorata dalla cancrena.

Certa gente pietosa, non avendo animo di lasciarlo morire arrabbiato, andò, dopo tanto, in cerca di un chirurgo in non so qual luogo, e trovatolo, lo condusse a Vita. Il chirurgo conobbe che il caso era disperato assai, ma pur cedendo alle istanze di Montanari che si raccomandava lo togliessero da quell’inferno, segò la gamba, che la palla avea crudelmente spezzata nel pieno della rotella. Poche ore dopo l’operazione, Montanari era moribondo. Certi barbari villani, immaginando che il poveretto, per essere ufficiale d’ordinanza di Garibaldi, dovesse avere il capezzale imbottito di monete d’oro, si fecero in frotta nella casa ospitale, chiedendo di vedere il morto.

Il padron di casa, aiutato da alcuni preti, fece quel che poté fare per indurre i villani ingordi a lasciar morire in pace il morto, che non era morto, e vi riuscirono sudando sangue. Però non appena l’infelice ebbe dato l’ultimo sospiro, i villani entrarono nella cameretta e vollero cercare il tesoro; ma non trovarono che un cadavere nudo e poche lire in argento e in rame, quante non bastavano a comprare una corda che fosse buona per tutti loro.

Garibaldi onorò d’una lacrima la memoria di Montanari, ed esclamò:

– Ecco, ecco i veri martiri!

Poi, vòlto a Cenni, soggiunse:

Fate che sia promosso colonnello; vediamo se la povera sua vecchia madre avrà un tozzo di pane per non morire di inedia.

Rammenti chi mi legge che Francesco Montanari avea detto, la mattina del 15 di maggio: «Oggi, la prima palla è la mia».

Non fu sua la prima palla, perché l’ebbe Desiderato Pietri; ma fu sua la seconda. . . . . . . . . . . . . .

 

Da che eravamo scesi in Sicilia nessun provvedimento avea preso il dittatore per regolare le nostre paghe; né ufficialisoldati avevano soldo fisso, e solo, di quando in quando, s’era distribuito loro qualche pizzico di denari, tanto perché assaggiassero la moneta coll’impronta del Borbone e de’ suoi gigli.

Questa musica non piacque a Bixio, che un tal giorno, rammaricandosene con parecchi di noi, disse:

– Nessuno partì per la Sicilia coll’idea di diventar ricco, ma nessuno può starsene qui in buona pace, quando pensa che ha moglie e figliuoli a casa, come io li ho, che non aspettano da Dio la manna, ma aspettano pane dai mariti e dai babbi. Il generale ha certe sue idee stupende intorno al disprezzo del denaro; ma bisogna riflettere che egli non ha bisogno di danari per vivere, e tutti sappiamo che riescirebbe appena a distinguere un soldo da una lira. Ora, sarebbe tempo che pensasse a noi e ci mettesse in caso di mandare qualcosa alle nostre famiglie, perché chi non ha moglie e figliuoli avrà il babbo vecchio e povero, o avrà delle sorelle, ed è giusto che se ne rammenti. Parliamogliene un poco e vediamo di persuaderlo.

– Hai ragionedissi – e credo che anche il generale dovrà capirla. Noi combattiamo per l’unità d’Italia e spiegammo la bandiera di Vittorio Emanuele ed è giustissimo che ci si consideri come i soldati dell’esercito.

Le nostre ragioni eran buone e non facevano una grinza, e tutta la brigata ci fece eco, ed ogni bocca manifestò il parere che qualcun di noi movesse primo la pedina verso il generale.

Salito su in palazzo, colsi un momento che il generale era solo, e gli riferii ciò che tra noi s’era detto e misi innanzi Bixio, come quegli che aveva moglie ed era carico di figliuoli, ed aveva un sacco di ragioni dalla sua.

Garibaldi mi stette a sentire, e poi, stringendosi nelle spalle rispose:

– E che cosa volete fare della paga? Quando un patriota ha mangiato la sua scodella di zuppa, e quando le faccende del paese vanno bene, che mai può desiderar di più?

Non m’arrisicai a rispondere, e còlto il destro d’andarmene senz’aver l’aria di ritirarmi colle trombe dentro il sacco, corsi a trovar Bixio, e gli dissi:

– Ho adempiuto la commissione, ma il generale mi ha risposto così e così.

E gli ripetei parola per parola, quanto mi aveva detto. Ed egli a me:

– T’ha detto questo, e tu non hai soggiunto nulla?

– Nulla – risposi. – Lo sai bene che quando il generale s’è fitta in capo una cosa neanche Cristo sarebbe buono a smuoverlo.

Bixio se ne andò taroccando, e non so con chi altri tornasse sull’argomento; ma il fatto è che, due giorni dopo, un decreto del dittatore, pareggiava in tutto e per tutto l’esercito de’ volontari all’esercito regolare, mettendo in vigore tra noi i regolamenti, il codice penale militare e la magna tabella delle paghe e vantaggi, e di quant’altro c’era di dolce e di brusco negli ordini militari del regno sardo.

 

 


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