Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
Lettura del testo

PARTE SECONDA Da Marsala a Palermo

XIII

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XIII

 

Quante volte accadeva che Garibaldi escisse per la città, noi usavamo, a sua insaputa, le più grandi cautele per guardarlo, essendo corsa voce che il governo borbonico non rifuggisse dallo stipendiare sicari, che lo liberassero dal pericoloso nemico. Questo ci veniva detto spesse volte dai palermitani, e questo ci avvisavano spesso segrete lettere, per le quali si esortava tutti coloro che solevano esser vicini al generale, a non permettere che lo avvicinassero persone sconosciute, tanto più se avessero l’aria d’avvicinarglisi per fargli onore o carezze.

In quei giorni di entusiasmo indescrivibile, Garibaldi non potea mettere il piede fuori della soglia, senza che la gente non si precipitasse in folla addosso a lui, avida di baciargli le mani ed i panni, o di contemplare, almeno, in vicinanza il volto dell’eroe liberatore. Spesso, la folla si faceva intorno a lui così stretta, che minacciava soffocarlo, perché le persone s’accatastavano l’una sull’altra e facean cupola; allora si vedevano uomini rabbiosi e donne furibonde cercare d’afferrarlo e di strappargli di dosso la roba, non in diverso modo che se in que’ petti vulcanici l’amore si tramutasse in furore, e volesse sfogarsi colle unghie e coi denti.

Io, che pure avevo visto la carrozza di Garibaldi assalita dalle bellissime donne romagnuole per le vie di Faenza, di Forlì, di Forlimpopoli e di Cesena, ero costretto a confessare che se l’amore andava misurato da que’ trasporti d’ebbrezza, l’amor dei siciliani non aveva l’eguale nel mondo. Ma bene era a temersi che tra quei caldi e sinceri abbracciamenti tra quella folla di gente innamorata e festante non guizzasse insidiosa la lama di un pugnale avvelenato; e questo dubbio ci teneva tutti inquietissimi e faceva sì che quando Garibaldi esciva a piedi, non avessimo un minuto di bene.

Ed egli si rideva delle nostre paure, e talvolta avvenne che ci sgridasse, come accadde a me nella via Macqueda, quando essendomi cacciato innanzi per fargli largo, e’ mi tirò indietro, dicendomi:

– O che diavolo! Volete fare il battistrada?

Io non starò a ripetere le storie che si divulgarono allora in proposito de’ pericoli che corse il generale per le insidie degli assassini; ma fatto è che diversi sicari vennero colti in Palermo colle armi indosso e taluno di loro fu convinto o fu confesso.

Uno di costoro lo vidi incatenato in una stanza terrena del Palazzo Pretorio, e volli interrogarlo. Era un amico birro, un ceffo da far paura; aveva la bava alla bocca e batteva i denti come per freddo, e vedendomi avvicinare, temette che avessi in animo di ammazzarlo, e si raccomandò. Le mani furibonde del popolo l’avevano così malconcio che quasi non serbava più pelo né sulla testa, né sulla faccia, e da varie parti del corpo gli spicciava il sangue. Dalle domande che gli feci, non raccapezzai nulla, giacché il disgraziato non diceva altro se non: galantomene, galantomene, volendo far credere che era uno stinco di santo e che il popolo cieco l’aveva scambiato per un demonio. Tutti lo volean morto, e le guardie sudavano per salvarlo. Garibaldi, avvertito dalle grida della folla che a quel tristo non rimaneva neanche il tempo di raccomandarsi l’anima, ordinò che fosse salvo, e la folla, sebbene a malincuore, obbedì.

Dopo qualche giorno, seppe Garibaldi che il generale Letizia era tornato a Napoli, recando gli ordini del re. A Napoli erano accadute gran cose; il governo del Borbone avea capito che colla forza non era possibile vincere la partita e ricorse a un ingegnoso ripiego, al ripiego che sanno trovare tutte le male signorie quando le baionette cominciano a spuntarsi e le spade vendute piegano come giunchi. Si parlava di costituzione, si parlava di alleanza col Piemonte, e di grandi smanie per una lega italiana; si diceva che la bandiera tricolore coi gigli sventolerebbe quanto prima dinanzi alla nostra colla croce sabauda.

I parlamentari regi furono, questa volta, oltre il generale Letizia e il colonnello Buonopane, il generale Colonna ed un altro ufficiale di cui non ricordo il nome.

Introdotti che furono alla presenza di Garibaldi, il generale Letizia disse subito:

– Vengo con buone novelle.

E Garibaldi a lui:

Capisco, venite a metter termine a una lotta fratricida, penosa a me più che a tutti. Siate il benvenuto.

Cominciata la lettura dei capitoli, intesi che, appena giunte da Napoli le navi da trasporto, che erano in viaggio, le truppe borboniche sarebbero partite da Palermo, lasciando libera nelle mani la città, escluso il castello.

Concluso che fu l’accordo Garibaldi cominciò a pronunziare generosissime parole, rammentando ai parlamentari che erano essi pure italiani, e che l’Italia aspettava che tutti i suoi figli si unissero in un fascio per compiere la sua liberazione dalla tirannide straniera.

Quando ebbe detto, il generale Letizia volle rispondergli, ma prima di aprir bocca guardò me, quasi volesse dire: «Quel testimone è tutt’altro che necessario».

Garibaldi intese a volo il desiderio del Letizia e mi fe’ cenno d’andarmene.

Obbedii sorridendo, e li lasciai soli, e giunto nell’anticamera che era piena di ufficiali e di cittadini, dissi a voce alta accennando l’uscio:

– I peccatori si confessano al penitenziere...

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La mattina che i borbonici abbandonarono finalmente Palermo fu davvero una di quelle mattine che annunziano un giorno solenne.

Non ci furono spari di cannoni, né doppi di campane, né suoni di bande per le vie; ma al primo sorgere dell’alba, tutta Palermo era in piedi, e tutti volean vedere la partenza degli sgherri degli abborriti signori.

«I borbonici se ne vanno!» Tale era la novella che uomini e donne si ricambiavano, tale il buon giorno col quale si salutavano tutti, conoscenti e sconosciuti. Le truppe regie, lasciati gli alloggiamenti sotto il monte Pellegrino, cominciarono a comparire sul porto verso le ore cinque; numerosi legni napoletani da guerra e non pochi legni da trasporto francesi dovevano imbarcarli. Nino Bixio con tre o quattrocento volontari fu presente alla partenza. I reggimenti napoletani passarono dinanzi a lui in buon ordine, e con sembianteallegro, né mesto; solo qualche ufficiale un po’ verde si contentò di guardare in cagnesco lui e i suoi uomini, le cui vesti cascavano a brandelli.

Ma quando venne la volta dei reggimenti stranieri la faccenda mutò d’aspetto. Li precedeva il colonnello Von Meckel, vecchio e feroce soldato svizzero, il quale bestemmiava in tedesco e in italiano, lagnandosi che per colpa di un governo pecorone e di qualche generale d’anticamera più che da campo, egli, vecchio e leale soldato, dovesse volgere le spalle dinanzi a pochi strappati ragazzi e ad una spregevole popolaglia.

L’insolente mercenario, che avrebbe voluto veder subissata la città sotto le bombe non sapea darsi pace, e giunto dinanzi a Bixio, esclamò, guardandolo coll’occhio del porco:

– Ci rivedremo.

E Bixio rispose, alzando il dito:

– Ti rivedrò a Napoli!

La soldatesca rispose a quella sfida del prode genovese con un ruggito; i volontari gridarono a coro: «Viva l’Italia!» e questo grido, ripetuto di bocca in bocca per le strade affollate, giunse fino a noi, che eravamo con Garibaldi sul ballatoio della porta del palazzo reale.

Era segno che tra pochi minuti, i legni carichi dell’esercito del generale Lanza leverebbero le àncore. Ma restava ancora da farsi la consegna del castello e la consegna degli ostaggi, che colà dentro eran chiusi.

Il popolo era ansioso di veder sorgere su quel propugnacolo antico della tirannia la bandiera italiana, era impaziente di accogliere tra le sue braccia gli ostaggi.

Verso mezzodì, il generale lasciò il ballatoio, rientrò in palazzo, e sedette nella sala. La giornata era magnifica; pareva che il cielo spiegasse tutte intiere le sue pompe per far riscontro alla gioia d’un gran popolo. Dal balcone che si apriva dinanzi a noi, vedevamo, quant’è lunga, la via Toledo sino alla marina.

La superba via era deserta come la vasta piazza prospiciente il palazzo. Ma la gran gente che formicolava sui tetti più alti e sulle torri e sulle specole, ci facea vedere che tutti i palermitani voleano godersi lo spettacolo della partenza dei borbonici ed esser testimoni di quel supremo trionfo della santa causa.

Ad un tratto tutte le campane, mute da tanti giorni, si sciolsero, come quando s’annunzia che risorto è Cristo, e con lieti concenti annunziarono che le soldatesche del Borbone partivano a buon viaggio pel mare. Sui tetti, sui campanili, era un agitar di cappelli e di fazzoletti, un gridare senza fine.

Poi, di fondo a via Toledo cominciò a venir su pian piano la folla; quella folla urlava con centomila e più bocche, e cresceva ad ogni passo. Guardando cobinoccoli, vedemmo gli ostaggi portati a braccia in trionfo, e io volli avvertirne Garibaldi.

Garibaldi era seduto su d’una poltrona ed avea il viso pallido e gli occhi scintillanti di lacrime. Mi strinse fortemente la mano, ma non rispose nulla. Capii che la gran commozione lo rendea muto, e mi scostai.

Poco dopo, la piazza era piena di popolo, e le grida del popolo chiamavano Garibaldi.

L’eroe liberatore s’alzò, e venne sul balcone. Nel vederlo, la folla innumerevole tacque come per incanto; pareva che a lei mancasse la voce, come mancava a Garibaldi.

Durò quel silenzio non meno di quattro o cinque minuti. Credo che non ci fosse tra tanta gente chi resistesse alla voglia di piangere.

Alla fine, Garibaldi parlò.

Dovrei io ripetere ciò che egli disse?...

Ho ancora negli orecchi, e più nel cuore, il suono della sua voce, ma non rammento che sette o otto parole: «Popolo di Palermo, popolo delle barricate, col quale ho diviso speranze, pericoli e gloria!... Popolo che lasciasti rovinare le tue case, innanzi di piegare il capo alle ignominiose proposte dei tiranni, eccoti libero!».

Mi saprà male il lettore se a questo punto io faccio fine al capitolo? Certi momenti solenni non c’è lingua, non c’è pennello che valgano a ridirli, a ritrarli come vorrebbe il cuore, come vorrebbero gli occhi...

Ma posando la penna, che non è pari alla grandezza dell’argomento, chiederò in prestito una strofa ad Alessandro Manzoni, l’autore del più stupendo inno patriottico che onori la civile poesia italiana, e dirò con lui:

 

Oh giornate del nostro riscatto!

Oh dolente per sempre colui,

Che da lunge, dal labbro d’altrui,

Come uomo straniero le udrà!

Che a’ suoi figli narrandole un giorno,

Dovrà dir sospirando: io non v’era.

Che la santa vittrice bandiera

Salutata quel non avrà.


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