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Sparite che furono le soldatesche del Borbone la città di Palermo pigliò un aspetto di piacevole gaiezza. L’allegria traspariva da tutti i volti, mista ad un sentimento ineffabile di fiducia nella fortuna del gran capitano e nei felici destini d’Italia. Si sarebbe detto che il popolo della metropoli siciliana sentiva certa ed eterna la sua vittoria e non dubitava, nemmeno per lontanissimo sospetto, che a quei giorni di giubilo avessero a seguire i giorni del dolore, come era accaduto undici anni addietro, quando dal soglio infranto era nata (per dirla col poeta) la brutale forza che vendicò l’antico dritto ed il re.
Le barricate cadevano ad una ad una, le rovine si sgombravano, le botteghe venivano riaperte in migliore aspetto che mai; le belle donne riapparivano nelle passeggiate, le case ospitali s’aprivano a lieti e cortesi ritrovi, nei quali veniva fatta parte larghissima ai soldati di Garibaldi.
Del resto, pareva che da ogni parte si facesse a gara nel darci segno del gran bene che tutti ci volevano; il tugurio del povero, la modesta casa del borghese, il palazzo del ricco nobile, erano aperti per noi; dovunque entrassimo, eravamo sicuri d’essere i benvenuti.
Chi potrebbe descrivere con lingua o con penna le deliziose serate, trascorse in quegli ameni giardinetti in riva al mare, in mezzo al profumo de’ fior d’arancio, in mezzo agli sguardi di quelle vaghe bellezze siciliane; chi saprebbe mai dire quanto fosse per noi gradito il linguaggio di quei cittadini, i quali ci dicevano di continuo: «Grazie a voi, liberatori nostri; questa felicità che godiamo è tutto vostro merito!».
Io guardavo con occhio di sincera ammirazione quella città, i cui abitanti s’eran lasciati tempestare per due dì e per due notti dalle bombe, senza dare un lamento, senza tradire un senso di sconforto, senza lasciarsi sfuggir dalle labbra una parola, che accennasse a paura. E veramente in que’ terribili giorni ultimi di maggio, si poté dire che la grande anima di Garibaldi aveva pieni di sé i petti dei palermitani, e che questi parlavano per bocca sua, quando gli ignominiosi patti, offerti dai bombardatori, vennero respinti con urla di sdegno, e quando il grido: mora, mora! suonò più forte, quasi a provocare il nemico ché, rotta la tregua, ricominciasse più fiera la sua spietata battaglia.
E pensavo sovente: “Quante altre delle nostre città avrebbero fatto ciò che fece Palermo?”.
Stringiamo in un serto il nome della superba regina della Trinacria con Milano, con Brescia, con Venezia e con Roma.