Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

II

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II

 

In mezzo a quella gioia universale giunse in Palermo la brigata Medici.

L’arrivo della brigata Medici fu festeggiata con indicibile allegrezza dal popolo di Palermo e da noi, i quali vedevamo alla fine che i nostri fratelli dell’alta e della centrale Italia non ci avevano dimenticati. L’incontro fra le nuove schiere e la vecchia schiera dei Mille, lacera e decimata, non potrebbe dipingersi al vero né con la penna né col pennello.

Ognuno di noi rivedeva un amico, un parente, un compagno d’armi; ognuno dei nuovi giunti avea per ciascun di noi una lettera, un saluto del padre, della madre, della moglie, dei figli... una lieta novella, una parola di conforto o di congratulazione. Erano, in tutti, tremila e più volontari e recavano seco il prezioso corredo di ottomila carabine Enfield e una scorta ricchissima di munizioni, di oggetti di vestiario e armi d’ogni genere.

Giacomo Medici era, allora, fra i luogotenenti di Garibaldi, quello che godeva particolarmente la sua stima e la sua amicizia, essendogli stato compagno nella guerra d’America, e in Roma, e, per ultimo, in Lombardia.

Il Medici fu il solo che io abbia udito trattare Garibaldi con affettuosa domestichezza e dargli del tu. Fu un galantuomo e un gentiluomo in tutta l’estensione della parola, capitano accorto e prudente, soldato valorosissimo, come tutti sanno, ed alieno, in politica, da ogni intemperanza.

Ci pareva che l’eroe del Vascello fosse, per così dire, il braccio destro di Garibaldi; e come c’era parso amaro il non averlo con noi da Genova a Palermo, così fu grande la gioia che provammo nel vederlo giungere proprio alla vigilia del principiare della nuova campagna.

Il primo reggimento della brigata Medici era comandato dal colonnello Simonetta; il secondo, composto quasi interamente di toscani, e per la più parte di livornesi, obbediva a Vincenzo Malenchini.

Aveva dunque Garibaldi sotto i suoi ordini tre piccole brigate, provviste di buone armi e comandate da scelti ufficiali, di cui molti già vecchi del mestiere, sebbene giovani d’età, e vogliosi tutti di trarre a felice compimento l’opera così ben cominciata. A queste brigate se ne aggiungeva un’altra che stava formando il La Masa, e s’aggiungevano parecchi corpi franchi, o guerriglie, tuttora in armi.

Le tre brigate suddette erano composte di oltre seimila e cinquecento uomini, esercito che a Garibaldi pareva già numerosissimo e formidabile a segno, da non tardar più a lungo a passar le porte di Palermo e mostrarsi in campagna aperta, per occupare i punti migliori dell’isola e serrare un po’ da vicino gli ultimi propugnacoli della dominazione borbonica.

Egli ordinò, dunque, a Türr di incamminarsi verso Catania, mandò Bixio alla volta di Girgenti, e spinse Medici per la via litoranea sopra Messina. A Medici veniva così assegnato il posto d’onore, perché mentre le altre due brigate muovevano contro deboli presidi ed anche verso terre sguarnite affatto di nemici, la sua brigata si volgeva verso un punto, in cui sotto le bandiere borboniche si riunivano ottomila uomini e forse più, appostati in ottime posizioni tra le fortezze di Milazzo e di Messina.

Mentre le brigate si disponevano alla partenza il dittatore ordinò che si requisissero in Palermo e nei dintorni i cavalli necessari, e così tutti quanti avevam diritto alla cavalcatura, potemmo scegliere nelle scuderie del palazzo reale quel che faceva al caso nostro.

Rammento questo, per dire che, in quei giorni, dopo aver provveduto d’eccellenti cavalli le guide, comandate dal valoroso Missori, si diè mano ad ordinare un corpo di cavalleria e si provvide a mettere insieme qualche centinaio di carabinieri, ma la tanto desiderata cavalleria non fu in pronto se non qualche mese dopo, e in numero sempre scarso.

Quali artiglierie avessero seco Bixio e Türr non saprei dirlo; posso però assicurare che la brigata Medici non aveva l’ombra d’un cannone, ed io che comandavo il quinto battaglione della detta brigata, stupii fortemente vedendo come s’andasse a intraprendere una guerra regolare in aperta campagna e contro truppe fornite d’ogni desiderabile argomento, senz’altr’arme che quella che i soldati recavano sulla spalla, cantando le allegre canzoni, per cui si dimenticano la fame, il sonno, la sete e la stanchezza. Ma chi poteva darci i cannoni? Dovevamo forse trascinare dietro di noi le vecchie e miserabili caronade, che Garibaldi aveva compre da certi capitani di mare greci, per guarnirne qualche barricata delle più importanti, nei giorni ultimi di maggio?

 

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Ci mettemmo in marcia in una bella serata di luglio, vestiti tutti alla foggia dei cacciatori delle Alpi. Tutta Palermo era sulla marina, e gli evviva dei palermitani e delle palermitane percossero le nostre orecchie a un miglio buono di distanza dalle mura della città.

Ora, siccome io non mi sono proposto null’altro se non di descrivere brevemente le cose principali che accaddero sotto i miei occhi, nel seguito della guerra che tolse il trono al Borbone, così mi astengo dal raccontare per filo e per segno quanto avvenne nei lunghi giorni di cammino in cui percorremmo la strada che corre lungo il mare da Palermo a Barcellona.

Dirò soltanto, perché mi sembra degno che lo rammenti, d’un pietoso caso che avvenne nella città di Termini Imerese, dove facemmo sosta per due giorni e mezzo, e dove il generale Medici volle che i soldati s’esercitassero al tiro al bersaglio, per imparare a conoscere, ad un bel circa, la gittata delle loro stupende carabine inglesi.

Avvenne, dunque, che, certa sera, un volontario, non so se livornese o fiorentino, che era ordinanza d’un capitano, ed aveva in custodia il suo revolver, entrò in un caffè, e si mise a far vedere quell’arme a diversi siciliani, innamoratissimi di quel nuovo portento.

I siciliani, non paghi di aver veduto e adorato il revolver, vollero esaminarne il movimento, e il nostro volontario, senza punto badare che l’arme era carica, si mise a mostrar loro come si faceva a maneggiarla e a far sì che guizzassero ad una ad una fuori della canna le sei palle.

Caso volle che, nonostante le precauzioni che sogliono aversi da tutti nel maneggiare armi cariche, il revolver scattò e un proiettile andò a colpir nel cuore un povero ragazzo di 13 anni, che giacque morto, senza aver neanche il tempo di gridare: «Dio aiutami!».

Era quello appunto il figliuolo unico di una povera vedova, la quale, udito il triste caso, parve voler seguire il suo diletto nell’altro mondo, giacché a stento le donne del vicinato la tennero che non balzasse giù dalla finestra, o non si facesse mortali offese colla coltella o con altre armi, che la disperazione le somministrava.

Il colonnello Malenchini, udito ciò che era occorso, si turbò tutto; e buono e tenero di cuore come fu e come tutti lo conobbero, se ne afflisse tanto, che si sarebbe detto esser morto il figliuol suo. Il degno uomo rimproverò acerbamente il capitano, proprietario del revolver, sebbene non avesse colpa alcuna della sbadataggine dell’ordinanza e delle tristi conseguenze che ne nacquero, e si mostrasse, non men di lui, dolente dell’accaduto. Poi, dato fine ai rimproveri e al compianto, disse a noi che cercavamo di calmarlo:

Andiamo adesso da quella povera mamma e vediamo di consolarla, ché non maledica l’ora e il momento in cui siamo venuti in Sicilia.

Lo seguimmo in una modesta casetta, dove alcune donne del vicinato ci introdussero nell’abitazione della vedova. Trovammo in una piccola, ma pulita stanzetta, una donna ancor giovane, di belle fattezze e con due occhi pieni di fuoco, la quale si struggeva in lacrime, ed aveva tra’ capelli le mani.

Al rumore de’ nostri speroni e delle nostre sciabole, la poveretta si volse e ci salutò con un cenno, e parve voler rivolgerci la parola, ma la sua voce fu soffocata dai singhiozzi.

Vincenzo Malenchini cominciò allora a confortarla, dolendosi della disgrazia, che per opera di un compagno nostro avea voluto cagionare tanta pena; poi, tratta di tasca una buona somma in tanti napoleoni d’oro, la pregò che l’accettasse, non come farmaco a un dolore che non comportava medicina, ma come un affettuoso ricordo che le tributavano, insieme al loro sincero rammarico, i soldati del secondo reggimento della brigata Medici.

Queste parole sembrarono aver restituita la favella alla misera donna, la quale, asciugati gli occhi, si drizzò fieramente dinanzi a noi, ed esclamò:

– A me dell’oro?... Dell’oro a me? Oh Dio benedetto! Se pigliassi quest’oro, le mie mani si tingerebbero del sangue del figlio mio... Tenetevi quelle monete, signore, e giacché la vostra voce mi dice che siete tanto buono, io vi giuro che il povero figliuolo mio lo consacro alla patria, e faccio conto che sia morto combattendo, al fianco di Garibaldi!...

Dopo queste parole, che furono per lei uno sforzo supremo, la disgraziata madre stralunò gli occhi e vacillò, e sarebbe caduta a terra, se non l’avessimo raccolta per tempo, nelle nostre braccia.

Malenchini piangeva, e noi piangemmo con lui.

Appena usciti da quella casa del dolore, il colonnello si recò dal sindaco e gli consegnò cinquecento lire, perché cercasse di indurre la vedova ad accettarle.

Io, per quanto ventisei anni sieno scorsi, non ho dimenticato ancora la madre siciliana, e l’ho tuttora dinanzi agli occhi e la vedo piangere e la ascolto dire in sua favella: «Farò conto che il figliuolo mio sia morto per la patria, accanto a Garibaldi!».

 

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Quando nel costeggiare, per una strada serpeggiante sul fianco d’un alto colle, scorgemmo la fumante isola del Vulcano, e poi il gruppo delle leggiadre Eolie, dove gli antichi collocarono la sede del re dei venti, Giacomo Medici seppe dai suoi scorridori che una parte del presidio di Messina muoveva sopra la città di Barcellona, per occuparla prima del nostro arrivo e fortificarvisi dentro. Fu risoluto allora di accelerare la marcia, e camminammo, infatti, rapidamente lungo la marina, per luoghi fuor di mano, calpestando la sabbia, dove la gamba affondava fino alle caviglie, e passando, assetati morti, certi vivi torrentelli, le cui acque che scaturivano dalle montagne e avean corso per certi strati di minerali, si dicevano esser funeste a chi osasse beverle.

Entrammo nella città di Barcellona, quasi sulla mezzanotte, e quivi ci avea preceduti, venuto non so di dove, un battaglione di volontari siciliani, comandato da ufficiali disertori dell’esercito borbonico, che venne aggiunto alla brigata nostra, e fece parte del secondo reggimento.

Essendo in Barcellona, potevamo dirci essere in faccia al nemico, perché la distanza da questa città a Milazzo e alle alture del Gesso, dove accampava una divisione borbonica, non è che di poche miglia. Era dunque tempo che ci preparassimo a scrivere col sangue la prima pagina del secondo volume di quella memorabile campagna, fidando nel valore e nella fortuna dell’uomo, che la fama asseriva maggiormente assennato e prode, dopo il nostro invincibile ed invitto supremo duce.

 

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Il nostro piccolo esercito mosse da Barcellona, dopo una sosta di due giorni, e si fermò nel villaggio di Meri, a poche miglia di distanza, in riva al torrente dello stesso nome, che scendendo dai poggi di Santa Lucia, scaturisce nel mare. Il detto torrente era asciutto come l’esca, e l’ampio suo letto pieno di sassi bianchissimi, correva tra due ripe fiancheggiate da muri e da siepi di fichi d’India e d’aloe d’àgave, le quali potevano all’occorrenza, far le veci di trincea dinanzi al fronte di ciascuno dei due eserciti.

Il Medici schierò le sue forze dal villaggio di Meri sino all’altro poggio di Santa Lucia, avanzando un po’ il centro fino al casolare di Coriolo, dinanzi a cui scorre un fiumicello angusto, ma profondo, che, in caso di bisogno, avrebbe potuto formare una linea di difesa, e ritardare alcun poco l’avanzarsi del nemico.

Nel casolare di Coriolo, Giacomo Medici alzò una barricata che chiudeva la via, e munì la barricata di due piccoli cannoni, avuti, non so come, in Barcellona, i quali potevano paragonarsi a due cannocchiali e avevano a mala pena la voce necessaria per farsi udire da chi non fosse sordo. Poi, collocato a guardia del convento di Santa Lucia un piccolo battaglione siciliano, comandato dal Fabrizi, si mantenne cauto e guardingo, ben sapendo quanto soverchianti fossero le forze del nemico e quanto incerti fossero gli aiuti sui quali potea fare egli assegnamento, in caso di necessità.

La mattina del 17 luglio si seppe che il colonnello Bosco, uomo spavaldo quant’altri mai, ma accettissimo ai soldati del re e fedele a tutta prova, marciava da Messina alla testa d’un poderoso corpo, per gettarsi dentro Milazzo, e per muovere quindi contro di noi e sgominarci, innanzi che da Palermo ci giungessero gli aiuti. Avuta questa notizia, si ventilò il disegno d’assalire i soldati del Bosco durante la marcia, cogliendoli di fianco alla sprovvista e sconcertandoli con un improvviso, temerario assalto, ma nella consulta, tenuta da Medici co’ suoi due colonnelli e co’ suoi ufficiali di stato maggiore, fu deciso limitarsi ad una semplice ricognizione. Questa ricognizione fu fatta nelle ore del mattino, e vi presero parte alcune compagnie, le quali, per quanto animosamente combattessero, non riuscirono a riportare alcun vantaggio sull’avanguardia nemica, che procedeva numerosa e serrata. Rammento che sul principio della detta ricognizione, mancando affatto la cavalleria, il colonnello Simonetta, milanese, grande amico di Medici, e uomo di straordinario valore, raccolti alquanti cavalli, li fe’ montare da certi fantaccini a’ quali non era nuovo stare in sella, e con essi si spinse a tutta foga sul fianco del nemico, esplorando e volteggiando con incredibile audacia, in barba alle fucilate, che, spesse come grandine, lo tempestavano.

Nel combattimento della mattina, che accadde presso il paese d’Archi, non si mostrò al nemico se non il primo reggimento; ma nelle ore pomeridiane l’onore del fuoco toccò anche al secondo, quando l’impaziente Bosco volle tentare la nostra linea, lusingandosi di coglierci alla sprovvista e di metterci, in quattro e quattr’otto, a mal partito.

Medici, veduto come il nemico tentasse qualche serio colpo, fece avanzare successivamente, sino a Coriolo, i battaglioni di Malenchini, che uniti ai battaglioni lombardi, tennero duro dinanzi all’assalto dei borbonici, e riescirono a respingerlo. In quel fatto, poco mancò che i regi non perdessero un pezzo di artiglieria, e lo perdevano senza alcun dubbio, se il quinto battaglione della nostra brigata, calando ormai la sera, non veniva chiamato indietro dalla sua caccia.

Il combattimento di Coriolo fu un felice principio della seconda parte della campagna, e i soldati di Medici ne trassero ottimo augurio e se ne rallegrarono senza fine. Ma io pensavo che, nonostante la nostra piccola vittoria, un corpo di cinquemila uomini era entrato in Milazzo, e che noi eravamo in sì picciol numero, senza artiglierie e senza Garibaldi, la cui presenza valeva, per me, più di tutte le artiglierie del mondo.

– Che avverràpensavo – se quei cinquemila uomini di Bosco, riposati e abbeverati secondo il bisogno, ci capiteranno addosso nelle deboli posizioni nostre, e si faranno ragione coi tiri dei cannoni, mentre la guarnigione di Messina, calando giù dalle alture del Gesso, potrà coglierci alle spalle?

Se Garibaldi fosse stato tra noi, un tal pensiero non mi avrebbe tormentato nemmeno in sogno; ma io non potevo, né sapevo aspettar miracoli se non da lui, né credevo mai che, in sua lontananza, si potessero ripetere sotto Milazzo i miracoli di Calatafimi e di Palermo.

E infatti, tra i volontari era un chiedere continuo: «Dov’è Garibaldi? quando verrà Garibaldi? si piglierà Milazzo senza Garibaldi?».

 

 


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