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La sera del 18 di luglio, un gran suono di voci festive ed un gran correre di gente mi annunziò l’arrivo di Garibaldi. Era giunto in vettura col colonnello Cosenz, e alcuni battaglioni lo seguivano a breve distanza, i quali tra poche ore sarebbero stati fra noi. Una voce segreta mi cantava nel cuore: «Garibaldi è venuto, Milazzo è nostra».
La mattina seguente, tutti gli ufficiali superiori fummo a fargli visita, ed egli c’invitò a seguirlo fin sul poggio di Santa Lucia, volendo da quella sommità esplorare il terreno e darne qualche notizia anche a noi.
Garibaldi, appuntato il solito suo gran cannocchiale, guardò lungamente lo stretto istmo, su cui sorge torreggiando Milazzo, e tratto tratto si volgeva a noi, per darci qualche avvertimento. Da quella specola si vedeva benissimo tutto, come a vol d’uccello: vedevansi le tre strade, che congiungono l’istmo alla terra, si vedeva la città disposta in pendio, a mo’ di anfiteatro, e si poteva scorgere il vecchio castello, che le sovrasta dal lato di settentrione, forte di due ordini di mura e ben guarnito d’artiglierie. Il terreno circostante era tutto frastagliato da orti, cinto da muri e da viottoli e da folte siepi di fichi d’India e da grossi cespugli d’agave; qua e là si vedevano case e mulini, poi un semicerchio di canneti profondi. Solo la parte che guarda il mare, a man destra del castello, appariva nuda per ampio tratto, e tutta scoperta ai tiri de’ cannoni, che facevano capolino dalle feritoie. Nel vedere quanto difficoltoso apparisse il farsi largo fra quelle strette, con sì poche genti e senza aiuto d’artiglierie, e pensando alla gran facilità colla quale avrebbe potuto agevolmente difenderla il nemico, non sapevo che pensare, e avevo fissi gli sguardi su Garibaldi, per cercar di cogliergli sul viso il segreto pensiero. Ma Garibaldi, era gaio e sereno, come sempre, e di quando in quando lasciava il cannocchiale per discorrere tranquillamente con Medici e con Cosenz, e si sarebbe detto che i suoi occhi non vedevano se non rose ed allori.
A me parve impossibile il poter pigliare Milazzo, cacciandosi a testa bassa in mezzo alle indescrivibili difficoltà di quel terreno, tanto più se si pensi che l’istmo è largo forse 1300 metri e sottoposto ai tiri delle batterie del castello, senza contare le batterie da campagna che avea seco il maledetto Bosco. Credetti allora che Garibaldi avesse in animo di attirare con qualche stratagemma il nemico fuori da quella posizione vantaggiosissima per lui e dargli battaglia in più aperto luogo lontano dai cannoni della città, ma la mia povera testa andava infinitamente lungi dal disegno che già avea fermo in animo il gran capitano.
Il quale, posto fine alle sue esplorazioni depose il cannocchiale tra le mani di Basso ed esclamò:
– Ebbene, domani daremo quattro buone bastonate anche a quel fanfarone del signor Bosco.
– Amen, – sclamai volgendomi al colonnello Malenchini, che m’era accanto, e mi parve mill’anni di poter vedere alla prova che cosa avea risolto Garibaldi, e che cosa s’aspettava egli da noi.
Ora è bene che il lettore sappia che il famoso colonnello Bosco non era sconosciuto a Garibaldi, il quale lo avea visto in Palermo, e lo avea trovato arrogantissimo e provocatore al maggior segno, quando gli capitò di venire a parlamentare dentro il Palazzo Pretorio.
In quell’occasione, il bollente Achille dell’esercito borbonico si arrischiò a parlare con tanta insolenza, e fu tanto il chiasso che fece battendo i piedi per terra e flagellando col fodero della sciabola le zampe de’ tavolini e delle sedie, che Garibaldi durò gran fatica a tenersi in cristi, e la durarono più di lui i suoi ufficiali, stomacati di tanta impertinenza.
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Avevamo lasciato da poco tempo Garibaldi, ed io m’ero ridotto in casa per mangiar la minestra, quando udii nella strada altissime grida e un grande accorrere di gente. Mi affacciai, e vidi sette o otto soldati del mio battaglione che conducevano una donna, salvandola a stento colle preghiere e colle mani da una turba di popolo furioso, che pareva volerla mettere in pezzi.
Quella donna aveva il viso pieno di sangue, le trecce sparse per le spalle, e il vestito in brandelli, e urlava come un’aquila. Balzai giù sulla soglia, e aiutato da alcuni miei ufficiali potei afferrare la sciagurata, tirarla in casa, e chiuder l’uscio, lasciando fuori la gente, che vociferava e strepitava a più non posso, ad esempio de’ giudei di Jerusalem, quando sotto le finestre del buon Pilato gridavano: «Crucifige».
Si trattava né più né meno che di questo. Certi miei soldati che facevano la guardia agli avamposti, dalla parte della strada che da Milazzo va a Messina, veduta una donna oltrepassare la nostra linea e correre a più non posso giù pe’ campi, le avevano intimato che si fermasse. La donna volle far la sorda, e i soldati si dettero ad inseguirla, e per quanto ella corresse come una lepre, poterono acciuffarla e fermarla. Mentre la conducevano dentro Meri al comando del reggimento, i paesani che s’affollarono intorno a lei, la riconobbero per la moglie d’un tristo sbirro, e argomentando che la non avesse voluto correre da Milazzo a Messina se non per commettere qualche diavoleria, volevano strapparla ai suoi custodi e farne giustizia all’americana.
Feci sedere quella donna. La guardai in faccia ed ella guardava me nel bianco degli occhi. Era bruna, adusta, e non poteva aver passati i ventott’anni. Il suo volto aveva una strana espressione di sfacciataggine e di furberia.
Alle prime mie domande rispose con grande aria d’ingenuità, dicendo esser moglie d’un calzolaio, dimorante in Messina, ed aver voluto fuggirsene da Milazzo per paura della guerra e per ritrovare il marito. Negava che il suo marito fosse mai stato sbirro, negava d’aver parlato col colonnello Bosco o con qualche altro ufficiale dell’esercito regio; giurava poi per tutti i santi e per tutte le vergini del paradiso di non aver avuto né d’avere indosso alcuna lettera, sebbene minuscola quanto il polizzino della pasqua.
Mentre io faceva con tutto il miglior garbo immaginabile quel solenne interrogatorio, la gente gridava più che mai sotto le mie finestre, e due persone assai pulite del paese, fattesi strada fino a me, vollero assicurarmi che la scellerata era una procaccina del colonnello Bosco, e che essendo moglie d’un maligno sbirro, non poteva essere escita da Milazzo se non per farci qualche gran danno.
– Guardate bene, eccellenza, – mi diceva uno de’ due valentuomini – guardate che costei ha indosso qualche lettera, o se non l’ha indosso l’ha in corpo, perché ne ha fatto una palla e l’ha inghiottita.
– Diamine! – esclamai – vorreste forse che la sparassi viva per frugarle dentro lo stomaco?
– Oh no! – rispose l’altro – ma vi prego a voler credere che una lettera in carta velina, chiusa dentro una piccola palla di cera, può trangugiarsi benissimo e poi....
E io l’interruppi con un gran scoppio di risa e soggiunsi:
– Va bene; se così fosse, la cosa sarebbe di competenza dello speziale.
E ripigliando il mio colloquio colla donna, le dissi:
– Tu non mi farai credere di non avere indosso qualche lettera, o qualche imbasciata in punta della lingua.... Or sii sincera con me, e smetti di fingere e di spergiurare, e non avrai da pentirtene.
– Eccellenza, – rispondeva costei – non date retta a questa gente, che mi vuol male: io non so nulla, e nulla ho indosso, e se mi troverete bugiarda, fatemi accidere.
Visto e provato che nulla c’era da guadagnare colle buone, cominciai a pigliarla colle cattive, minacciando di farla accidere ed anche uccidere come una mala cagna, se non mi rivelasse quel che Bosco le aveva detto, nel farla escire da Milazzo.
Poi vedendo che era lo stesso che dire al muro, feci entrar nella stanza un caporale e tre uomini, e finsi ordinare al caporale che la traesse giù nella strada per farla fucilare; ma la tristaccia non si scuoteva.
– Or bene, – dissi impazientito – tu hai tre punti più del diavolo, ma si ha a vedere se noi siam più demoni del diavolo che ti vuol bene.
E dissi a un ufficiale che era lì:
– Faccia prendere questa ostinata e frugarla dal capo ai piedi.
Tosto, due sergenti le furono addosso per condurla via, ma essa cominciò a dar calci e a graffiare e a cercar di mordere, e fece tanto chiasso e diè in tante furie, che fu d’uopo che la togliessero di peso e la portassero così nella vicina stanza, dove era un letto. Poco dopo, l’ufficiale tornò a me, mostrando un rotolino di carta, avvolto in un sottile pezzo di taffetà, e disse: – Ecco quel che abbiamo trovato indosso a quella vipera.
Svolsi la carta e la aprii. Era un foglio velino, scritto da tutte le parti, per mano del colonnello Bosco. Il quale si lagnava col generale Clary, comandante in Messina, della codardia, mostrata, il giorno innanzi, da certi suoi ufficiali, e lo pregava di spedire sollecito nelle acque di Milazzo due fregate a vapore, esortandolo nel tempo stesso a far discendere un qualche po’ di truppa dalle alture del Gesso e minacciar così il fianco destro e le spalle al nemico, nel punto in cui egli lo assalirebbe di fronte. La lettera terminava colla promessa che se il Clary facesse con prontezza quanto gli si chiedeva, il meraviglioso Bosco sarebbe entrato ben presto trionfante in Palermo «sul cavallo di Medici».
Letto che ebbi quella lettera, reputai superfluo l’interrogar più oltre la donna, e ordinato che la custodissero strettamente, volai da Garibaldi.
Garibaldi scorse da capo a fondo quel foglio senza far parola e senza dar cenno d’inquietudine o di meraviglia; soltanto quando fu a leggere la promessa che faceva Bosco, di entrare in Palermo sul cavallo di Medici, esclamò:
E fino da quel momento fu risoluto in cuor suo che Bosco non entrerebbe in Palermo sul cavallo di Medici, ma bensì quest’ultimo farebbe il suo ingresso in Messina sul cavallo di Bosco.
Di questo parleremo poi a suo luogo.
Allora, io chiesi a Garibaldi, che cosa avessi a fare della rea donna, che ci avea messo in quel gran pericolo, e che sarebbe stata per noi peggio della sperpetua, se Dio l’avesse condotta sana e salva in Messina al general Clary.
Garibaldi rifletté alquanto, e soggiunse:
– Che vorreste mai farne?... Vorreste forse fucilare una donna?... Mandatela a Barcellona.
Tornai a casa, ed entrato nella stanza dove era custodita la prigioniera, le dissi:
– Potrai negare ancora d’aver parlato con Bosco? Quanta gente c’è in Milazzo? Quanti cannoni hai veduti? Che cosa dicono che sia per fare il comandante? Che si pensa di Garibaldi?
Quella cagna non rispondeva parola e seguitava a guardarmi con gli occhi torvi.
Le volsi le spalle, perché mi faceva male a vederla, e ordinai che la conducessero a Barcellona, dove non giunse viva, se non in grazia alle baionette dei nostri volontari che la salvarono con grandissima pena dalle ugne vendicatrici della plebe furibonda di Meri, alla quale si aggiunse per via una turba numerosa di villani, i quali chiedevano con alte grida la morte della moglie del sorcio.
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Io non potrei dire che cosa pensasse Garibaldi dopo aver letto quanto scriveva Bosco al general Clary, ma bene ho ragion di credere che e’ si confermasse meravigliosamente nel suo proposito di assalire l’indomani Milazzo e tagliar così la testa al toro con un sol colpo.
La minaccia di veder comparire, da un momento all’altro, in quelle acque una squadra borbonica, e quella eziandio di vedersi assalito sul fianco destro e alle spalle dalle truppe che scendessero giù dalle alture del Gesso, dovevano essere assai per aggiungere stimoli alla generosa sua impazienza e per affrettarlo a farsi assalitore.
Nessuno vorrà asserire per cosa certa che la presenza di qualche nave da guerra borbonica in quelle acque, avrebbe impedito la vittoria nostra; ma vedremo tra poco come per quel fatto sarebbe divenuta molto più malagevole e costosa di quel che fu, quando si pensi che ci costò carissima, sebbene combattendo in quella stretta lingua di terra, fossimo pienamente sicuri dal lato del mare.
Sapendo dunque che il dì seguente avremmo dovuto impegnarci in un combattimento decisivo, dal cui esito dipendeva forse il trionfo o la rovina della ben cominciata impresa, ci angustiò non poco il pensiero delle scarsissime notizie che avevamo, del terreno circostante alla città, e Malenchini ed io risolvemmo procurarcene in maggior copia anche col risico di qualche avvisaglia con gli avamposti del nemico. Sicché chiesta ed ottenuta dal Medici licenza di fare una larga ricognizione verso Milazzo, partimmo da Meri con sei compagnie, e valendoci dell’aiuto del tenente Caccavaio, disertore dei cacciatori borbonici, che aveva dimorato lungamente in Milazzo, ci spingemmo sino oltre il villaggio di Santo Pietro, cercando invano il nemico, che non diè mostra di sé.
Questa ritenutezza del colonnello Bosco, ci fece argomentare che ei si tenesse raccolto, sia perché s’aspettasse un poderoso assalto nostro per l’indomani, sia perché si foss’egli proposto di assalirci, quando noi non ci muovessimo. Comunque fosse, dopo avere esplorato sin dove la prudenza ci allungava la briglia, tornammo agli alloggiamenti, persuasi più che mai che avremmo un osso duro da rodere, e più che mai curiosi di vedere all’atto pratico come risolverebbe Garibaldi il problema che a noi sembrava tanto malagevole a risolversi.
Tornati a Meri, trovammo cresciuto il numero dei compagni nostri; era giunto col suo battaglione Clemente Corte, libero dalla incresciosa prigionia di Gaeta; era giunto l’inglese Dunne con quattrocento volontari siciliani, disciplinati da lui, ed eran giunti Mosto coi carabinieri genovesi, Missori con le guide, Spech coi suoi bersaglieri.
Con questi aiuti, potevamo contare su quattromila combattenti, poco più, poco meno.
Per dare al lettore un’idea della forza vera dei nostri battaglioni, gli dirò che le compagnie del mio erano composte di sessantacinque o settanta uomini e non più.