Giuseppe Bandi
I mille: da Genova a Capua
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PARTE TERZA Da Palermo a Capua

IV

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IV

 

La mattina del 20 luglio fummo in piedi di buonissimora, cioè innanzi che si cominciasse a veder lume. Il cielo, che nei giorni antecedenti era stato alquanto piovigginoso s’era fatto sereno; l’alba appariva rosea e tranquilla, e un lieve venticello temperava il calore della stagione, sensibile a noi, in quel torrido clima, anche nelle ore mattutine.

Riuniti i tre battaglioni, mi avviai con Malenchini verso il torrente, e ci schierammo sull’asciutto alveo, tutto biancheggiante per gli smaglianti ciottoli che lo cuoprivano. Cominciava a far giorno quando Medici si avvicinò a noi e chiamò a sé Malenchini, dicendogli:

Va innanzi verso Santo Pietro; il tuo reggimento è la nostra ala sinistra; io faccio avanzare i miei nello stesso tempo che avanzi tu; stenditi verso il mare e fa buona guardia.

Dette queste parole, che udii chiaramente dalla prima all’ultima, Medici si allontanò, e rimanemmo soli. Il colonnello ordinò ai battaglioni la marcia, e pigliammo la via di Santo Pietro. Fatti pochi passi ci fermammo ancora, e tenuta una breve consulta tra il colonnello, me, il conte Malacari d’Ancona, suo aiutante, e il capitano Branchini, comandante il primo battaglione, fu risoluto che io avanzerei con quattro compagnie, scelte dai due battaglioni continentali, e il Malenchini colle altre otto compagnie rimarrebbe in Santo Pietro, tenendo d’occhio i miei movimenti e pigliando consiglio dall’occasione.

M’inoltrai cautamente, ma pieno di buone speranze, in quel terreno che cominciava ad essere affatto sconosciuto a noi, e che le folte siepi de’ fichi d’India e parecchi muri rendevano malagevole a percorrersi in spiegata ordinanza. Tuttavia non volendo procedere col capo nel sacco, e immaginando vicinissimo il nemico, stesi sui miei fianchi due compagnie, e avanzammo ancora un bel tratto. Di a poco un ufficiale venne a dirmi da parte del colonnello che mi fermassi, e tornassi pian piano indietro, per ricongiungermi a lui ed aspettare gli ordini del brigadiere.

Feci alto e smontato da cavallo salii sopra una casetta, per esplorare un po’ meglio e vedere che cosa ci fosse vicino a noi. Guardando ben bene coll’aiuto d’un binoccolo, scòrsi a breve distanza due sentinelle nemiche, e più in vidi luccicare parecchie baionette. Erano allora le sei e pochi minuti. Nel tempo stesso, volgendomi alla marina, mi dette nell’occhio un grosso legno a vapore che facea prua alla nostra vòlta, e giudicai esser lontano dieci o dodici miglia e non oltre. Tra noi e quel legno veleggiava un piccolo navicello che era quello appunto sul quale Alessandro Dumas doveva godersi lo spettacolo della battaglia di Milazzo, per tesserne poeticamente la storia a’ suoi lettori di Francia e d’Italia.

Sceso giù dalla casetta, feci cenno a certi volontari che stavano a poca distanza da me, e furono due fratelli Confalonieri da Como, due Tarabugi da Livorno, Invernizzi, bergamasco, Antola e Frassinesi da Livorno, Oreste Gagliardi da Pisa, e un ufficiale fiorentino, per nome Salari. A questi dissi:

Amici, non lungi di qui, dove la strada fa gomito, stanno due sentinelle nemiche; voi strisciate quatti quatti lungo le siepi dei fichi d’India, fatevi presso alle due sentinelle e mandatele a far la guardia nell’altro mondo.

L’ufficiale partì immediatamente coi suoi uomini, tutti contenti come se andassero a nozze, e di a pochi minuti udimmo quattro o sei colpi di fucile, e la squadriglia tornò indietro, recando le armi e i berretti delle due povere sentinelle, che ormai non erano più di questo mondo.

Appena stuzzicato il vespaio, l’aria fu tosto intronata da innumerevoli bòtte, e la mia piccola linea cominciò lietamente a far fuoco. La zuffa era ormai accesa a sinistra, e credevo che al centro si farebbe subito altrettanto.

In breve, cominciarono a vedersi i morti e i feriti, e i comandanti le due compagnie distese in catena m’avvertirono che tanto da destra, quanto da sinistra fischiavano le palle, segno certo che il nemico si veniva facendo forte sui nostri fianchi. Stesi immediatamente un’altra compagnia sulla sinistra dove il terreno era sgombro e confinava col mare, temendo che per quella parte non mi si girasse, e quindi spedii a Santo Pietro per sapere come mai dalla parte destra dove, secondo ciò che aveva detto Medici, doveva essere il primo reggimento della brigata, fischiassero con tanta impertinenza le palle nemiche.

Mi fu risposto che il primo reggimento non era giunto per anche in linea, e mi fu ingiunto che mi tirassi indietro.

Volersi tirare indietro a quell’ora, sarebbe stato lo stesso che dire ai volontari «Si salvi chi può». Garibaldi ci aveva detto le mille volte: «Non insegnate mai ai soldati la ritirata, neanche per esercizio in piazza d’arme, perché assai, all’occorrenza, sapranno ritirarsi da per sé!».

Giunse in quel mentre il dottor Tommasi, medico di reggimento, cavalcando un bel puledro.

I suoi medici di battaglione, dottor Faralli e dottor Luchini, facevano fuoco coi soldati, schioppettando con indicibile ardore. Lo stesso cappellano, robusto frate della Gancia, aveva preso un fucile, e tirava a refe doppio.

Tommasi, – dissigaloppa a Santo Pietro, e al colonnello che siamo nel ballo e bisogna ballare, fa che mi mandi qualche aiuto, e lo mandi subito.

Il dottor Tommasi scomparve al galoppo. Appena scomparso lui, ecco farmisi vicino un bel vecchio dalla barba bianca, con un berretto tutto gallonato in testa, il quale mi disse:

– Sono il colonnello Martinez, che vi reco due compagnie di guardia nazionale della provincia di Messina, e mi metto sotto i vostri ordini.

Bravo vecchio! – risposiva innanzi con le tue compagnie, perché la guardia civica ha, in Italia, la destra sulla truppa pagata, e vediamo di guadagnar terreno.

Il vecchio obbedì, e le sue piccole compagnie, formate di bellissimi giovinotti, si spinsero innanzi in mezzo alla strada. Ma non avevano fatto cento passi, quando un orrendo rombo c’intronò le orecchie, e cinque di que’ poveri giovanotti, fatti a pezzi da due palle di cannone, caddero qua e in mezzo della strada.

A quella vista, la mia gente lanciata all’assalto si fermò in un tratto, e fece massa intorno a me. Aiutato dagli ufficiali, riescii a rincorare i messinesi, sopraffatti dal brusco saluto, e ci avanzammo fino a certe casette, dove alcuni ghiotti trovarono due barili di vino bianco, che vennero subito messi a disposizione del pubblico, e parvero buoni anche a me, che arrovellavo dalla sete.

Intanto, i colpi di cannone cominciavano a farsi più frequenti, e i comandanti le due compagnie distese su’ miei fianchi, vennero sulla strada, dicendo essere impossibile lo stare in catena, per via delle palle che fioccavano per tutti i versi.

Mentre m’adopravo a rincorarli, dicendo esser vicino il colonnello col resto del reggimento, tornò il dottor Tommasi, recando seco una compagnia.

Capii che quell’aiuto era tamquam non esset, e schiacciai più d’un moccolo. Poi chiamato un ufficiale, gli dissi:

Monta sul mio cavallo, e vedi di trovar Garibaldi e digli che qui siamo in gran pericolo di venir girati e presi in mezzo.

Intanto, per tenere occupati i soldati, mentre le palle di cannone facevan tremare le due casette e mentre un vivo fuoco di moschetteria ci bersagliava per tutti i versi, ordinai che si barricasse la strada.

Tosto, gli ufficiali e i soldati più volenterosi, tra i quali notai il mio furiere maggiore Edoardo Arbib, presero giù dalle case tutte le mobilie che c’erano, tavole, tavolini, panche, cassoni, e per ultimo alcune botti, piene di zolfo, e , cantando e tirando fucilate, si diè mano a costruire la barricata.

Appena la barricata, fatta Dio sa come, fu in pronto, i volontari vi si affollarono dietro, e tempestando a gran furia, respinsero per due volte i cacciatori borbonici, che di fondo alla strada venivano di corsa ad assalirla. Rammento che Edoardo Arbib, mentre incoraggiava certi giovani messinesi, e insegnava loro a pigliar giusta la mira, cadde supino per terra, e volgendosi a me, che stavo appoggiato al muro d’una delle due casette, mi gridò:

Beppe, mi hanno tirato una sassata!

Il bravo furier maggiore era stato còlto da una scheggia di granata nel femore sinistro, ma così, a sangue caldo, non credeva d’aver toccato se non un colpo di sasso.

Allora dissi a due medici di battaglione:

– Per Dio! Siete venuti in Sicilia per combattere o per medicare?

E il dottor Tommasi, animoso quanto loro, e vogliosissimo di menar le mani, fece di necessità virtù, e comandò che si raccogliessero i feriti e si portassero indietro.

Mentre questo accadeva, le due compagnie distese s’erano agglomerate con le altre dietro le due casette, e accanto alla barricata, tutti facevano a chi più tirava. Io guardavo da tutte le parti, aspettando Garibaldi, come aspettassi un angelo liberatore. Ecco, d’improvviso, venir correndo a noi una nuova compagnia, speditami in rinforzo dal colonnello. Era la seconda del reggimento, comandata da Gualtiero Adami, che aveva per luogotenente il Palagi pure di Livorno.

Questa compagnia, senza badare ai cenni che facevo, né alle grida che mandavo per trattenerla, giacché era mia intenzione di farla stendere sul fianco sinistro, acciò tanta gente non si affollasse alla rinfusa in sì angusto spazio, si lanciò sulla barricata, ed alcuni de’ suoi soldati la oltrepassarono di parecchio tratto. Se non che una gran botta di mitraglia che capitò in quel punto, frenò il furibondo assalto, e il povero tenente Palagi, crudelmente ferito, giacque con alquanti suoi compagni nella polvere. Avrei dato, in quel momento, l’anima al diavolo, purché il diavolo avesse fatto sapere in quali strette ci trovavamo; ma, per buona sorte, Garibaldi lo seppe, senza che il diavolo ci entrasse in mezzo.

Egli era ritto sul tetto di una casa, guardando col cannocchiale verso il casolare di Santa Marina, dalla parte in cui si vedeva un gran fumo, e si sentivano tanti tonfi, e dimandava ad alta voce:

– Che cos’è laggiù?

Mentr’egli così chiedeva, l’ufficiale che avevo spedito col mio cavallo gli disse che cos’era e che cosa non era, e tosto Garibaldi scese giù, e dette ordine a Missori, a Dunne ed a Spech, che corressero alla mia volta.

Dava Garibaldi quegli ordini, quando il colonnello Malenchini con tutto il resto del reggimento, venne di corsa su per la strada a soccorrermi; ma tosto ei fu giunto a un cento passi dalla barricata, la barricata volò disfatta in frantumi, e due granate caddero e scoppiarono in mezzo alla sua gente. Avevo accanto a me Pietro Coccoluto Ferrigni, detto Yorick, quando accadde quella strage. Fra i poveri volontari uccisi dalle schegge delle infernali palle, due ne vedemmo colle gambe così fattamente stritolate, che si scorgevano a nudo le ossa biancheggianti; un altro ebbe la borraccia confitta nel ventre aperto, un altro poi ebbe smezzata la testa, e le cervella che ne schizzarono, copersero di calda e schifosa pioggia il mio aiutante maggiore Filippo Liccioli, padrone delle famose vigne della Rufina. Questi morti li rivedemmo una mezz’ora dopo, nel ripassare per quella via. Ma lo scompiglio prodotto dal trarre delle artiglierie, lontane da noi un dugento metri appena, fu così grande, che mi parve proprio opera di Dio la comparsa improvvisa del colonnello Cosenz, che giunse galoppando tra noi.

Era già scorsa un’ora e un quarto da che avevamo cominciato a combattere.

Cosenz fece rimettere in ordine la nostra gente e ci comandò di condurla alquanto indietro in certi campi, dietro le folte siepi. Mentre attendevamo a riordinarci, ci passò dinanzi a gran corsa il battaglione di Dunne, poi passarono i bersaglieri del vecchio Spech, quindi le guide. Incontanente, il fuoco dell’artiglieria cessò da quella parte giacché il primo reggimento di Medici e il battaglione del Corte assalirono gagliardamente i napoletani nel centro della linea.

Appena fummo riordinati, Cosenz ordinò a Malenchini di marciare col reggimento in battaglia dietro ai soldati di Dunne e di Spech, che ricaricavano alla baionetta, e quella carica sgombrò in un baleno la spiaggia dai battaglioni nemici che aveano cominciato a girarci sulla sinistra, tentando di tagliare all’esercito di Garibaldi la linea di ritirata.

Il primo reggimento della brigata Medici ed il battaglione del Corte avevano combattuto prosperamente sulla nostra destra, lottando con infinita bravura contro le forze molto superiori per numero e le artiglierie del nemico, ma la battaglia non era ancora vinta. Restavano a superarsi certi maledetti canneti, di dietro ai quali i cacciatori di Bosco ci sfolgoravano senza nessun loro rischio, e bisognava far nostre le case del sobborgo, e pigliare il ponticello pel quale si va alla porta di Milazzo. Il nemico avea lanciato, poco innanzi, contro non so qual battaglione di volontari, uno squadrone d’usseri, e questi usseri, sulle prime, aveano sgominati un po’ i nostri fantaccini ma accorso Garibaldi, le cose cambiarono subito di aspetto, e gli usseri trovarono pane pei loro denti.

Ora narrerò, come udii narrarlo io, poco dopo che fu accaduto, un fatto notissimo a tutti, ma le particolarità del quale dettero luogo a parecchie versioni, molto diverse da loro.

Il gran capitano, dopo aver liberato i fantaccini dalla paura di que’ cavalli tanto terribili per loro, incoraggiandoli a ripararsi dietro gli alberi e a sfolgorarli con bene aggiustati tiri si trovava in un campo, accompagnato dal capitano Statella, da Missori, da poche guide e da un manipolo di carabinieri genovesi. Ora accadde che certi usseri, i quali s’erano spinti molto innanzi, caricando in foraggieri, come suol dirsi quando si carica alla spicciolata, se ne tornassero verso il loro esercito, bersagliati dai colpi de’ volontari, che si appiattavano dietro gli alberi e le siepi. Il capitano degli usseri, che galoppava innanzi, veduto Garibaldi, si spinse subito addosso a lui, colla sciabola alzata; ma Garibaldi aspettando di piè fermo, afferrò con erculea forza il cavallo per la briglia, e parato il colpo che il capitano gli menava, rispose con un fendente che spaccò la testa all’assalitore e lo precipitò giù di sella.

Mi narrarono che Garibaldi, nel fermar di bòtto il cavallo, gridò al capitano:

Arrenditi, o cane!

Per fortuna, coloro che accompagnavano Garibaldi non erano persone indegne di far compagnia a quell’eroe: e così, il bravissimo Missori con certi suoi felici colpi di revolver stramazzava due cavalieri, mentre lo Statella atterrava un gigantesco sergente, che faceva atto di precipitarsi sul generale.

In proposito di questo sergente, c’è chi dice che avesse già afferrato Garibaldi, cogliendolo all’improvviso, proprio nel punto in cui aveva atterrato il capitano, e fosse riescito a rovesciarlo a terra e a cacciarselo sotto, mentre una palla del revolver di Statella gli faceva cadere il cavallo. Ho udito anche dire che Garibaldi, tratto fuori il pugnaletto che era solito aver sempre alla cintola, si liberasse con un bel colpo da quel terribile abbracciamento.

Ma la più credibile tra le narrazioni reca che il sergente cadde morto prima di giungere a Garibaldi. Comunque fosse, il resto del drappello degli usseri venne malconcio dai tiri delle guide e dei carabinieri, e pochi di que’ bei cavalieri ebbero lo sorte di rientrare sani e salvi in Milazzo.

Gente che assisté a quel glorioso episodio mi disse che Garibaldi, volgendosi a Missori, esclamò:

Grazie, Missori, m’avete salva la vita.

Il nemico, veduta respinta la sua cavalleria che credeva dovesse operar miracoli e veduto che i volontari tenevano testa dappertutto, e li governava una mente incapace di perdere il lume, rallentò alquanto la sua furia, ed avemmo un tantin di respiro.

Notai allora che la nave a vapore, da me veduta un paio d’ore prima, s’era avvicinata alla spiaggia ed aveva issato la bandiera nostra. Si trattava d’una bella corvetta, armata di sette grossi cannoni, la quale pareva voler cogliere il destro di far qualche cosa in nostro pro. Vidi infatti che aveva messo in mare una lancia, e la lancia vogava verso la terra.

E pensavo tra me:

– O di dove diavolo ha scovato Garibaldi una sì bella nave?

Era quello un nuovo miracolo che era ben lungi dall’aspettarmi, giacché essendo in campagna da molti giorni, e non avendo gazzette, né lettere da Palermo, ignoravo pienamente che il capitano Anguissola aveva consegnato a Garibaldi la corvetta borbonica Veloce e che adesso questa corvetta portava il nome del prode colonnello Tuckery.

Raccolti, poco dopo, gli avanti del mio battaglione, al quale si unirono vari soldati di altri corpi, tornai verso la strada di Santo Pietro, non parendomi che sulla marina restasse da fare altro, dal momento che il nemico non c’era più, e che tornandovi avrebbe avuto da fare i conti colle buone e grosse artiglierie della corvetta. Appena giunto sulla strada, mi venne incontro il colonnello Guastalla, capo di stato maggiore della brigata, il quale mi gridò da lontano:

– Ti abbiamo vendicato! Abbiamo preso uno dei cannoni che t’han fatto tanto male.

E avvicinandosi, mostrommi la borsa del capopezzo, che era rimasto morto presso la sua artiglieria.

Gli domandai che cosa dovessi fare, ed ei mi rispose:

Fermati qui, e non tarderai ad avere ordini.

Non passarono dieci minuti, e il generale Medici venne di galoppo col suo stato maggiore, e mi disse:

– Venga avanti, Bandi, entriamo in Milazzo; Garibaldi è già .

Ci mettemmo al passo di corsa dietro il cavallo del generale, e fummo in breve sul punto dove, poco innanzi, avevo fatto alzare la barricata e dove la mitraglia aveva così malconcio il mio povero reggimento.

Dio mio, che spettacolo! Volsi altrove lo sguardo per non vedere quel carnaio e raddoppiai la corsa.

Quando giungemmo presso il ponte di Milazzo, avevamo tutti un palmo di lingua fuori. Il sole scottava orribilmente, e le canne dei fucili parevano infuocate.

Presso il ponte stava un piccolo cannone, e accanto al cannone era Garibaldi colla sciabola in pugno. Al nostro giungere, il cannone fece fuoco, e appena dileguato il fumo, vidi quattro o cinque artiglieri, uno dei quali con una gamba sola.

Innanzi che il pezzo fosse ricaricato, una scheggia di granata lo colse e lo guastò. Due degli artiglieri caddero; gli altri si allontanarono ad un cenno di Garibaldi, che visto quel cannone esser divenuto impossibile, si trasse indietro.

Appena egli mi vide, gridò:

Fate portar via quel pezzo, che non serve più a nulla!

La mia gente s’era addossata a diverse case, che sono in prossimità del ponte; chiamai diversi ufficiali che stavano innanzi agli altri, e questi presero il pezzo e lo trassero via. Garibaldi allora mi chiese:

Dove sono gli altri battaglioni?...

– Gli avanzi del mio son qui, – risposi.

Va bene, – soggiunse Garibaldi. – Ora dobbiamo entrar dentro.

Con Garibaldi era, in quel momento, il colonnello Cosenz, e c’era il maggiore Migliavacca, che di a un quarto d’ora fu poi morto. Rimanemmo per qualche tempo addossati alle case. Le artiglierie del castello tiravano a tutta furia, e certi battaglioni di fanti schierati dinanzi alla gran caserma, che è sotto il castello, facevano un fuoco d’inferno.

Superati con prodigioso valore i canneti che erano sulla sponda destra, il colonnello Corte giunse col resto della sua gente accanto a noi; mi feci avanti per stringergli la mano, ma innanzi che potessi stringergliela, una palla lo colse sopra la mammella sinistra, facendo un colpo, simile a quello d’una gran bòtta a mano aperta.

Diversi soldati lo accolsero fra le loro braccia, ed egli mi disse:

– Oh, Pippo!...

 

*

* *

 

Eravamo già a un’ora dopo mezzogiorno, e il combattimento non solo durava ancora ma minacciava ripigliare maggior calore, perché l’ostinato Bosco volle tentar nuovamente la fortuna con nuovi e più gagliardi assalti.

Garibaldi, dal canto suo, irremovibile nel proposito di pigliar Milazzo innanzi notte, ordinò al Cosenz di schierare sulla sinistra tutta la gente che combatteva senza frutto al riparo delle case, e così avvenne che formammo una lunga catena dal ponte fino al mare. Nel tempo che stavo ordinando quella catena, sotto gli ordini di Cosenz, il mio sergente trombettiere mi disse:

Guardi, sor maggiore, guardi chi c’è sulla corvetta.

Mi volsi, e messo dinanzi agli occhi il binoccolo, vidi Garibaldi appollaiato sulla gabbia dell’albero maestro della corvetta, che col suo bravo cannocchiale in mano, guardava intorno intorno.

Dopo aver guardato quanto gli parve, senza punto occuparsi di qualche cannonata che gli tirò la fortezza, ritta sopra un’altura che vien giù quasi a picco sul mare, scese con tutto il suo comodo giù dall’albero, e si mise a comandare.

La corvetta venne sempre più innanzi, e cominciò un duello a cannonate tra lei e il forte; duello che non fece alcun danno, ma che ci divertiva moltissimo, per quanto gli artiglieri borbonici non s’astenessero di dare il benvenuto anche a noi, regalandoci, di tratto in tratto, qualche granata.

Garibaldi non faceva tirare al forte, se non per nascondere la sua vera intenzione: perché quando escì dalla città una colonna per rinnovare l’assalto, il Tuckery pigliò a fulminarla di fianco co’ suoi grossi cannoni, e la costrinse a tornarsene rotta e sgominata, dentro le mura.

A quella vista fu un evviva generale, fu un agitar di berretti e di schioppi per salutare l’invincibile uomo, che con prodigi di valore e d’accorgimento sapea convertire in vittoria una battaglia combattuta sino allora con esito tanto dubbio.

Garibaldi, sceso a terra, ordinò allora a Medici e a Cosenz l’ultimo assalto. Questo assalto al quale pigliò parte anche il battaglione del Guerzoni, giunto allora da Barcellona, superò le ultime difese dei regi, e potemmo entrare in Milazzo.

Certi novellieri scrissero, e fu creduto vero per molto tempo, che la popolazione di Milazzo ci accogliesse coll’olio bollente e coi tegoli, ed io non so per vero come s’abbia potuto immaginare una fiaba tanto stupida, giacché entrando in città nessuno de’ pochissimi abitanti che vi erano rimasti, si vide, e quelli che sbucarono fuori dipoi, eran più morti che vivi.

Entrati che fummo in Milazzo, Bosco ci fe’ regalare ancora qualche scarica di moschetteria e qualche cannonata, e quindi ridusse tutta la sua gente nel castello. Pochi minuti ancora, e fummo tutti al coperto dalle case, e tanto sotto alle mura, che parecchi dei nostri cominciarono a confabulare coi borbonici, scambiando con essi curiose arguzie e minacce.

Il bollente Bosco era chiuso nella trappola.

 

*

* *

 

La vittoria di Milazzo mi sembra ancora miracolosa, ma debbo dire che sul fatto mi sbalordì. Ero in Milazzo e dicevo meco stesso: «O come diavolo ci siamo entrati?».

Bosco avea cinquemila uomini e più, avea due batterie da campagna, e quasi trenta pezzi sulle mura; aveva per sé un istmo molto stretto, i canneti profondi e le viuzze, chiuse tra le mura degli orti, e parecchi altri vantaggi; noi non avevamo, in principio del combattimento, che forze assai inferiori, due cannoncini ridicoli e tutte le maledizioni congiurate a nostro danno. Ma Bosco non era Garibaldi, né i volontari di Garibaldi erano i soldati di Bosco.

Perdemmo in quel fatto d’arme oltre 650 tra morti e feriti; i borbonici ne perdettero assai meno.

I soldati di Bosco giuravano d’aver combattuto contro diecimila uomini e forse più, e non ci fu caso di persuaderli della verità.

Intanto, Garibaldi, non uso di dormire sugli allori, ordinò si asserragliassero le strade che mettevano al castello, e fe’ disporre buone guardie anche al di fuori della città, dalla parte per cui la guarnigione avrebbe potuto escir fuori dalle mura e accoccarci, all’improvviso, qualche brutto tiro.

 

 


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