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Capitolo I Arma virumque | «» |
Monaldo Savarni sporse la testa dal finestrino del coupè e gridò al cocchiere un «fermate» secco ed imperioso.
La vettura si arrestò con un breve scalpitio di cavalli innanzi alla piccola casa di campagna, mezzo abbandonata e piena di sgretolature.
I cavalli allungarono il muso e fiutarono amichevolmente il muso di quelli di un altro coupè fermo di fronte a loro.
Dalla carrozza scese Monaldo Savarni, l’avvocato Vincenti, con una lunga fodera verde sotto il braccio, nella quale s’irrigidiva la forma aguzza e dura d’un paio di sciabole, ed il professor Vinciguerra, piccolo uomo grassottello, dalla barbetta appuntita e rada, e con due occhi smarriti, un po’ pallido.
Dopo, pian pianino, venne fuori il dottor Bracci, bell’uomo alto e un po’ calvo, biondo, medico in titolo «per belle donnine e duelli», come diceva di sè ridendo.
Ma in questa circostanza nessuno rideva, ed i quattro uomini sostarono un minuto, gravemente, per guardar l’orologio. Del resto, nè il luogo, nè la giornata erano allegri: la campagna romana, tutta arrossata di erbe appassite e di tufi vulcanici brulli e pelati, sotto il cielo uniforme e bianco: soltanto, i fili della linea telefonica, avevano, ai buffi umidicci del vento, dei lunghi lamenti d’arpa eolia. L’aria sapeva di stoppie bruciate e d’acqua.
Dimodochè il professor Vinciguerra sentì quasi freddo e fece con la mano un gesto istintivo, come per tirarsi su il bavero, ma certamente si ricordò di qualche raccomandazione dei suoi secondi, perchè la mano ricadde, egli levò il capo e si mise a zufolare un motivo qualunque, guardando la facciata della casetta.
Era un’antica villa seicentesca, abbandonata: Un tempo doveva aver servito anche da osteria, a giudicare da un’iscrizione quasi cancellata, accanto all’uscio, che diceva: Giuoco di bocce.
I quattro uomini entrarono in gruppo, seri, impettiti negli abiti neri, sotto l’androne dell’acciottolato consunto.
Il cortile si apriva sulla campagna: c’erano due o tre panche zoppe, un chiosco sfondato, su cui alcune campanule si ostinavano ad arrampicarsi. In un angolo altri quattro signori in redingote attendevano. Fu scambiato un saluto, poi il professor Vinciguerra rimase a passeggiare da un lato, ed un giovanotto alto e smilzo, dalla chioma breve e crespa, rimase dal lato opposto, fumando, mentre gli altri si riunivano nel mezzo.
Mentre i padrini discutevano le ultime regole dello scontro, il professor Vinciguerra gettava ogni tanto, di sottecchi, uno sguardo al suo avversario, al cielo sinistro, a quella rovina di casupola sgretolata, e si sentiva in core una voglia acuta di tornar via, d’essere accarezzato e scaldato, tantochè, a volte, faceva quasi greppo con le labbra, come un bambino in procinto di piangere.
Che diamine era venuto a fare lì?
Come mai una persona come lui, seria, posata, s’era lasciata trascinare ad un duello?…
E quello spiritato di un giornalista, mormorava dentro di sè, sogguardando il suo giovane avversario, che fumava, con tranquillità affettata, perchè mai aveva scritto un monte d’impertinenze contro la sua innocua conferenza: «Fede e scuola»?
Da sè, per Dio, non si sarebbe battuto davvero!… ma come fare?… S’era trovato lì, sospinto come un vagone sulle rotaie, trattenuto dal cambiar strada dalla rigidezza cavalleresca degli amici.
«Ah! Mormorò, poi, fissandolo, con invidia, se avessi il coraggio di Monaldo!»
Infatti il suo secondo, Monaldo Savarni, era magnifico. In quel momento, alta la bella persona dall’aspetto militare, misurava il terreno, contando i passi ad alta voce. Uno, due, tre! Ed era così bello, con la nobile testa bruna, e pallida, coi baffi neri, erti, e con l’occhio scintillante, che tutti gli astanti lo guardavano con involontaria simpatia. Perfino l’avversario del professore, cronista del Pensiero, giovane di belle speranze, aveva negli occhi chiari e nella bocca pallida ed ironica, qualcosa della ammirazione comune. E fumava, fumava.
Veramente, era stato lui, Mario Garbini, a volersi battere, tanto per fare un duello, cosa che lo metteva molto in evidenza nel ceto delle canzonettiste, e fra i suoi colleghi.
Aveva il naso sottile un po’ storto ed un aspetto di giovane falco, appena mitigato dalla peluria adolescente dei baffetti biondi.
Il professore ebbe un leggero brivido. Aveva inteso il cozzo delle sciabole, che i secondi misuravano.
– Signori, a posto! – comandò brevemente Monaldo.
Il professore sentì scorrere per la schiena torpida e grassa un brivido di paura.
I secondi s’erano collocati, due di qua, due di là, i medici chiacchieravano in un angolo, svoltolando delle fasce.
Egli esitò un secondo, e gli occhi gli si appannarono. Che diamine voleva da lui tutta quella gente vestita di nero?
E quelle sciabole, lucide, chiare, sciaguratamente lunghe!
Il professore sentì come una spinta in mezzo alla schiena, avanzò e prese la sciabola.
Un buttero a cavallo era venuto preso la corte, sul campo, e guardava, gravemente, quei signori, con un vaga espressione di curiosità feroce.
– In guardia! – Esclamò la voce sonora di Monaldo. Il professore allargò le gambe e tese la sciabola, mentre il suo avversario prendeva una magnifica guardia di scuola, guardandolo fisso, con gli occhi chiari e freddi.
– «Un, due, tre! – esclamò Monaldo.
Il buttero fece fare un altro passo al cavallo.
Le spade cozzarono. Da quel momento il professore non capì più nulla: a volte confondeva il lampo chiaro di quegli occhi crudeli, con lo splendore delle lame, e vi fu un punto, in cui tutta la sua attenzione si concentrò, in un momento di disperata atonia, sul chiosco sfondato, cui aderiva ancora un cartello rèclame di latta, ostentando un gallo multicolore, ritto sopra una scatola d’amido. In quel momento egli sentì come una frustata sul braccio, ed un’onda calda gli scese giù per le dita.
– A me! – urlò lasciando cadere la sciabola.
I medici accorsero. Era una cosa da nulla, una graffiatura, ma il professore aveva sbiancato il viso come un moribondo. Bisognò dargli del cognac, mentre gli mettevano una benda sul braccio grasso, indolente e bianco come un braccio di donna.
L’avversario gli strinse la mano, con fare quasi affettuoso, tanto era contento del modo come era andata la cosa.
Il buttero ebbe un sorriso di disperazione, quando vide che non si picchiavano più. Evidentemente, pensava, i duelli a coltellate erano più interessanti. Voltò il cavallo e se ne andò.
Allora, dal momento che l’onore era soddisfatto, parve che un vento di letizia generale cacciasse ogni nube di tristezza. Il professore si riebbe subito e scambiò parole di viva simpatia con l’avversario. Un egregio giovane, perfetto gentiluomo.
La parola gentiluomo risuonava in ogni frase, e tutti erano animati dalla più viva cordialità.
Soprattutto il professore, tastandosi il braccio fasciato, in cui sentiva appena un lieve dolore, pensava che per quella piccola ferita, con quelle due gocce di sangue, erano usciti tutti i terrori e tutte le angosce, e sentiva in cuor suo un intenerimento affettuoso e grato per tutta quella gente, anche per l’avversario, che a così poco prezzo gli avevano dato l’aureola gloriosa di un duello. A momenti gli pareva già d’essere al Caffè dei Caprettari, dove andava tutte le sere, a raccontar i fatti della giornata. E mormorava fra sè una frase che avrebbe fatto effetto: «Faccio una finta a destra, per tornare a sinistra, così, tà, tà, quando, nell’andare a fondo, scivolo, e l’altro, taff».
Il sor Domenico, vignaiuolo e fattore del luogo fu incaricato di preparare un po’ di merenda, e dopo un po’ si udirono dal pollaio le strida disperate di due polli.
I primi e i secondi alla rinfusa, fecero una passeggiatina nel campo, fumando. Il tenente Radaelli, secondo di Mario Garbini, buon diavolaccio pieno di debiti e cacciatore di serve al cospetto di Dio, raccontò due o tre aneddoti salaci al professore che rideva di gusto.
Il dottor Bracci aveva intavolato una questione scientifica col suo collega, e si sentiva gridare dal chiosco: «Ma no, caro collega, ma no, se io incido lo sterno–cleido–mastoideo...».
Mario Garbini s’era avvicinato a Monaldo Savarni, fiutando in lui l’uomo superiore, e discutevano fra loro di cose d’arte, senza accennare affatto al duello avvenuto, da perfetti gentiluomini.
Sicchè, quando il sor Domenico annunciò che il pranzo era in tavola, e gli otto signori si trovarono tutti riuniti nello stanzone a terreno, innanzi alla tavola imbandita, erano già così buoni amici che, se non fosse stato il braccio un po’ indolenzito del professore, si sarebbe detto ch’erano lì per far merenda e nient’altro.
Alle frutta il Radaelli, ch’era napoletano, fece un brindisi in dialetto, di cui si rise un mondo, poscia gli fecero ripetere una scenetta di Odoardo Russo, che egli diceva a meraviglia. Il professore era esultante, ed avendo bevuto un po’ più del solito aveva il viso rosso e gli occhi scintillanti.
Mario parlava di politica con Monaldo, di cui era addirittura ammirato, e questi lo ascoltava nominare i ministri e i deputati col solo cognome, come compagni di scuola. «Giolitti mi diceva…» «Ho udito da Zanardelli…» ed accennava di sì, col capo, sorridendo ogni tanto, come per dire che li conosceva anche lui, ed erano buoni amici.
Quando venne la sera, salirono in carrozza alla rinfusa, avversari ed amici, ridendo. C’erano quasi dodici chilometri da fare, per giungere a Roma a lungo la via le conversazioni, per un buon tratto, continuarono animate.
Ma, pian piano, la malinconia dell’ora li prese. Lontano, lontano, sulla campagna morta, il sole occiduo metteva una gran fascia rossiccia, contro la quale gli arboscelli esili e neri sembravano sottili sottili.
Il senso di benessere del pranzetto campestre si attutì nello scotimento delle vetture. Il braccio del professore incominciò a fargli un po’ più male; ed il tenente Radaelli taceva, pensando, con una lieve piega amara agli angoli della bocca, che la fine del mese era prossima e che le barzellette non erano denaro.
Nella seconda vettura Monaldo chiacchierava ancora col giovane giornalista, che aveva invitato a casa sua, pel mercoledì venturo: «Un po’ di musica, un po’ di conversazione!…»
Ora le vetture correvano sull’acciottolato sonoro della città, ed i fanali delle vie sembravano passare di corsa davanti ai vetri dello sportello, come una riga di fuoco.
La vettura di Monaldo si fermò davanti ad un bel palazzo di Villa Ludovisi, e Monaldo discese. Un ultimo scambio di saluti, una forte stretta di mano al professore, che s’era quasi addormentato, e Monaldo rimase solo.
Il portinaio gli corse incontro premurosamente e gli consegnò due lettere.
Monaldo ne intascò una, con un lieve atto annoiato. Era una lunga busta azzurra, con l’indirizzo tracciato da una mano femminile, in grandi caratteri rigidi; l’altra, che egli dissuggellò prontamente, conteneva l’invito ad una riunione del Club del Tevere di cui Monaldo era vice–presidente.
Salì lentamente l’ampio scalone illuminato, in cui gli angoli dei vasti pianerottoli si perdevano in un arruffio di bambù e di piante da sala.
Il domestico che gli aprì l’uscio di casa lo informò, come di consueto, che la signora stava bene e lo attendeva in sala.
E quando Monaldo entrò nel salotto intimo, la signora gli porse la fronte da baciare.
In tutta la casa era la pace e un non so che di benessere dignitoso e elegante, che faceva venire voglia di mettersi lì, sopra un divano, e crogiolarsi un poco in quell’aria tepida e profumata.
– Buonasera, amico mio, – disse la signora Viviana, sorridendogli.
La signora Viviana sorrideva spesso, a causa di due magnifiche file di denti, era una bella donna sulla quarantina, alta lievemente pingue, con un bell’aspetto di severità dolce e matronale sul bel volto composto.
Dopo pochi minuti, Monaldo e la sua signora erano seduti accanto presso il tavolo di felpa rossa.
Monaldo leggeva il suo giornale, e la signora ricamava. Non si udiva che il crepitio lieve lieve della lampada a gas, ed il tic tac dei sottili ferri da ricamo.
Di fuori, nell’ampio cortile che si apriva dietro la finestra a vetri colorati, i ventilatori di una tettoia mettevano un brontolio lento e continuo, come il ronfar di una stufa.
E la signora Savarni sorrideva vagamente al suo ricamo.
Tutta la sua persona aveva una maestà graziosa di buona dama, casta e gentile nella sua veste nera.
Solo, sul collo d’un pallore opaco e carnoso, un piccolo neo oscuro metteva come una punta di sottile, indefinibile ironia.
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