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Capitolo II
La casacca del moschettiere
Monaldo Savarni aveva sortito dalla natura due grandissimi doni.
Il primo era quello di chiamarsi Monaldo e Savarni, nomi melodici, sonori e romanzeschi, che si adattavano alla sua bella figura, mentre non si sarebbe potuto comprendere che un uomo come lui si fosse chiamato Ambrogio o Teofilo.
Inoltre Monaldo era bello, ma d’una bellezza altiera e solenne, che i quarant’anni avevano reso più nobile ancora.
E, fino dalla più giovane età, quella bellezza, pensosa, quel sorriso in cui era una certa tinta di malinconia geniale e poetica, l’eleganza naturale del portamento e gli occhi neri e profondi, avevano creato intorno a lui una zona di simpatie e di affetti vasta e intensa.
Perchè Monaldo non era soltanto bello: la sua bellezza era significativa. Vi sono degli uomini che incarnano il tipo di forza virile: Monaldo aveva tutte le espressioni della forza gentile.
Chi osservava un poco le linee e le movenze agili e sicure del suo corpo, era istintivamente tratto a pensare a quei personaggi del vecchio romanzo francese, che con una stretta della mano bianca e femminea facevano urlare di dolore un colosso.
Si sarebbe figurato che quegli occhi profondi avevano guardato la morte, con un malinconico sorriso, senza velarsi, e che le sue labbra sottili avevano pronunziato parole inesorabili e giuste, in qualche tragico avvenimento. Poichè l’aristocratico pallore del suo volto sembrava essergli venuto da qualche terribile notte, in cui egli avesse compiuto una missione di giustizia e di dolore. Quasi gli si sapeva grato d’essere uscito, per farsi ammirare dai contemporanei, da una pagina d’Alessandro Dumas padre, e senza ch’egli se ne avvedesse, il mondo gli impose lentamente, tutti i caratteri del personaggio ch’egli incarnava.
Se egli avesse detto a tutti che il suo pallore era il colore naturale della sua pelle, e che non aveva avuto mai dispiaceri gravi, dacchè era al mondo, avrebbe fatto la figura d’un uomo che si intagliasse una pipa in un bastone da maresciallo.
La prima donna che lo amò, lo amò per consolare l’antico dolore che dormiva in fondo al suo cuore, per togliere dai suoi occhi quell’ombra discesavi, chi sa?… in una triste notte in cui egli aveva terribilmente odiato, o terribilmente amato.
La prima volta che egli fu testimonio in un duello, tutti pensarono istintivamente che egli doveva aver veduto ben altro… quando?… chi sa?… il giorno in cui i suoi occhi avevano appreso quel fulvo baleno che li accendeva talvolta… Egli somigliava tanto ad Athos, che, senza fargli violenza, pian pianino, la società gl’infilò la casacca del moschettiere ed egli trovò che gli stava perfettamente bene.
Per solito, la espressione del volto e degli atti nasce dalle consuetudini dello spirito, ed il pensiero educa il gesto. In lui avvenne per la suggestione dell’ambiente, il contrario. Pian piano, qualcosa di quel profumo di tempi passati, più nobili, più fieri, più tragici, discese dall’esterno all’interno. Egli si assuefece a porre certi termini obbligati ai suoi ragionamenti, il suo sorriso, nella consapevolezza dell’effetto che produceva, e delle sue cause, divenne più fine e più triste; egli fece con se stesso, involontariamente ed insensibilmente, dei concordati psicologici. Veramente, non aveva avuto mai, in vita sua, un incidente tragico, nè per fatti nè per sentimenti, ma pian piano si abituò a credere anch’egli che, negli anni più belli della sua vita esistesse un’ombra di dolore crudele, e finì coll’usare a se stesso il riguardo di non pensare a quell’epoca, o di corrugare le sopracciglia quando qualcuno gli ricordava la sua giovinezza. Era tanta l’abitudine, che ormai, quando qualcuno gli rammentava i vent’anni egli impallidiva davvero.
Così, egli pose a tutto il resto della sua vita intellettuale ed affettiva delle norme di antica cavalleria. Ammise senza discussione che certe circostanze esigevano certi gesti e finì col vedere se stesso perfettamente simile a quello che gli altri vedevano in lui.
Eppure, nessuna vita era stata così pacifica e dolce come quella di Monaldo Savarni. Suo padre, che era un ricco commerciante ritirato dagli affari, e sua madre, che nei tempi della propria gioventù aveva venduto della cotonina al banco, insieme ai commessi, non avevano altri figliuoli che lui, e trovavano che nulla era troppo bello o troppo costoso per Monaldo.
Egli vestì sempre con maggior eleganza dei suoi coetanei, che lo invidiavano, ma non avrebbero osato picchiarlo, tanto aveva l’aria d’un signore, ed ebbe delle monete d’oro in tasca, in quell’età in cui, per trovare un soldo in tasca ad un bimbo, bisogna scavare sotto un suolo di castagne o di fichi secchi. E, circa ai diciott’anni, perdette il babbo e la mamma. Morirono a breve tempo, l’uno dall’altra, quasi pensassero d'aver finita la loro opera nella vita, avendo allevato Monaldo.
Ed egli prese le redini di casa, senza far pazzie, con un certo senso d’economia che gli veniva forse dall’atavismo della vecchia bottega. Non ch’egli fosse avaro: era un uomo medio, come ce ne sono tanti: se si fosse potuta plasmare un’immagine del suo spirito, si sarebbe dovuta rappresentare con una sfera, perchè egli aveva in ogni senso le stesse dimensioni psicologiche, ed era passabilmente buono, passabilmente onesto e passabilmente intellettuale.
Ebbe subito una certa fortuna con le donne, di cui non abusò, per principio igienico, e per un certo istintivo senso di prudenza che lo corazzava contro le insidie del piacere. Così, tutta la sua vita scorse sopra un morbido tappeto, senza nome: le donne gli portavano il loro amore come il suo banchiere gli portava a casa le cedole di rendita maturate. Non giuocò mai e non bevve mai più di quel tanto che si confaceva alla sua fortuna e al suo stomaco, ma sapeva perdere con disinvoltura signorile, e stava a tavola con grazia aristocratica.
A trent’anni prese moglie, per un segreto senso di previdenza.
Gli era avvenuto una volta di assistere all’agonia di un vecchio scapolo, suo amico: Gregorio Vidali.
I vecchi rammentano ancora questa figura geniale ed arguta di viveur, che era lo zio putativo di tutte le signorine, le quali si lasciavano baciare la mano da lui, ed il maestro di galanteria di tutti i giovanotti.
Era una specie di veterano del piacere, scettico e faceto, uomo di buon consiglio e di maniere signorili, che si faceva ancora ammirare e quasi amare.
La notte in cui una emiplegia lo fulminò nel boudoir d’una canzonettista, Monaldo lo volle portare a casa; insieme col servo, lo coricò e lo vegliò.
In quella notte piovosa, in quella camera da scapolo ricca e disordinata, ed in quel moribondo scarno era un senso d’abbandono così amaro e triste che Monaldo ebbe quasi paura.
Nello spogliare il morente, tutte le misere frodi dell’abbigliamento per cui il busto del vecchio era ancora eretto, e le sue spalle quadre, s’erano svelate ai suoi occhi. Le bretelle complicate d’apparecchi ortopedici, le pancere, le imbottiture di bambagia, tutto ciò era caduto, rivelando un corpo gracile e sformato, in cui la vita (il medico se n’era andato, dicendo che non c’era nulla da fare) si spegneva lentamente, con un tremito sconsolato, come d’un freddo che nessuna stufa avrebbe potuto cacciare.
All’alba, egli incominciò a mormorare delle parole tronche, bizzarri appelli d’amore, che morivano in un singulto, biascicati fra le labbra umide, rientrate per l’assenza della dentiera, poi, le sue mani si stesero verso un piccolo mobile, ed i suo occhi assunsero un’espressione di desiderio ardente, mentre le sue labbra biascicarono in modo infantile: Dà, dà…
Monaldo si alzò, aprì l’unico cassetto del mobile. V’era un grosso album rilegato. Glielo portò pietosamente, pensando con tristezza alle reliquie d’amori lontani che intristivano senza sorriso il dentro.
Il morente afferrò il volume, frusto e scompaginato, v’incollò le labbra ardentemente e chiuse gli occhi con un gemito sordo di voluttà. Era morto.
Allora Monaldo, lentamente gli tolse dalle mani il volume. Forse esso conteneva memorie compromettenti di antiche colpe ignorate o dimenticate.
La copertina, strappata e logora, cadde a terra. E Monaldo ebbe un brivido di ribrezzo.
L’album era pieno di fotografie, raccolte con cura minuta e paziente fra le collezioni più turpi.
Era una specie di breviario della voluttà, delle voluttà più torbide e bestiali, un salterio della vergogna, il baco segreto e turpe di quelle esistenza brillante.
Si vedevano qua e là immagini scolorite e biascicate, palpate da mani immonde che vi avevano lasciato delle tracce innominabili.
Gli occhi di Monaldo si tolsero dalla pagina oscena, in cui delle membra grasse e bianche si avvolgevano in abbracciamenti inverosimili.
Il vecchio giaceva sul letto, nella morta luce dell’alba, con la bocca aperta e le mani ancora aggrinzite, in aria come per afferrare il braccio di un essere invisibile.
Monaldo sentì un gelo freddo e viscido colargli nel cuore, gettò l’album nella stufa e stette a vedere il cartone che si gonfiava, crepitava, scoppiava, lasciando vedere qua e là, ancora delle anche abbronzate o delle poppe affumicate.
Quando tutto fu in cenere, chiamò il servo dalla camera accanto, e se ne andò.
L’alba era fredda e triste, e quando egli fu in casa sua, gli parve che un occhieggiare di figure bolse e lascive fosse in tutti gli angoli oscuri.
Dieci giorni dopo egli dichiarò ai suoi amici che prendeva moglie.
Viviana Dorian era una donna bellissima, di ottima famiglia veneziana e provvista di una dote cospicua. Monaldo pensò che, evidentemente, come le donne gli avevano portato il loro amore, e i banchieri il danaro, Domeniddio gli conduceva la sposa, e non c’era nessuna ragione di non crederlo.
Viviana pareva creata per lui. La stessa età, quasi la stessa statura, la stessa forma di bellezza austera e signorile, con un’aria da dogaressa che faceva tremare i ginocchi ai più audaci spasimanti.
Il matrimonio fu concluso senza amore e con grandissima reciproca stima. Il giorno in cui i due sposi entrarono a braccetto in chiesa, un illustre pittore dichiarò che «ciò era un avvenimento d’arte» tanto la coppia era armonica e bella, e volle farne soggetto d’un suo splendido quadro.
Monaldo conservava nel suo studio questo capolavoro.
Dal canto suo Viviana fu una moglie squisitamente gentile, quasi affettuosa, e di una fedeltà proverbiale.
Per queste ragioni Monaldo chiuse quasi del tutto il suo libro d’avventure giovanili, cogliendo ancora solo qualche fiore, qua e là, nel giardino chiuso della sua società, cosa che gli veniva perdonata, soprattutto per la sua discrezione degna dei cavalieri d’altri tempi.
E la sua vita si svolse da allora in poi anche più dolcemente, più pacificamente.
Egli prendeva il suo tè, faceva le sue visite, fumava il suo sigaro ed andava al Club, dove leggeva sempre lo stesso giornale, ad ore fisse, immancabilmente con una precisione ed un metodo veramente fiammingo, eredità dell’antico commercio paterno, oculato e probo, il che non toglieva che, vedendolo entrare nel salone del Club appunto quando la pendola scoccava l’undicesimo tocco, i suoi amici dicessero: «puntuale come il Conte di Montecristo».