Luigi Lucatelli
Athos
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Capitolo III Soirée

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Capitolo III
Soirée

Quando la sera del mercoledì, Mario Garbini entrò nel salone di casa Savarni, vestito inappuntabilmente col più moderno frack della stagione, era ancora presto, e nell’ampia sala dalle tappezzerie antiche in cui la luce del lampadario moriva come in una carezza, non c’erano che sei o sette persone, raccolte in un angolo, quasi all’ombra di un immenso vaso di porcellana giapponese.

Erano alcune signore e signorine, un ufficiale di fanteria ed un giovinetto di sedici anni, anch’egli in frack e con la grossa testa luccicante di pomata.

Monaldo venne incontro al nuovo ospite, vi fu uno scambio di inchini e di presentazione.

L’ufficiale, un bel giovanotto dal sorriso ironico e fine, strinse ambedue le mani al nuovo venuto esclamando: Ma guarda, guarda vecchio camerata!… Si conoscevano da bambini, e non si erano veduti più da qualche anno, separati dalla vita di guarnigione che Giorgio Barteil era costretto a condurre.

– Vieni qua, riprese Giorgio, e siediti vicino a noi. La signorina Pini, che tu ammiri di fronte a noi, sosteneva con me un’accanita discussione. Tu che sei pubblicista e conosci il mondo, sarai il mio alleato: è vero o non è vero che il femminismo è una cosa inverosimile, un’utopia, una crudeltà, un…

Bene, basta! – rispose con uno scoppio di risa acute la signorina Pini, che aveva due occhi nerissimi in un visino da creola sotto un sapiente disordine di capelli di ebanofermatevi a tempo, tenente, altrimenti direte che il femminismo è un delitto.

– Come non l’ho ancora detto?… Ma sicuro, un delitto crudele! Quando penso che forse voi, signorina, dovreste essere il mio maggiore o l’aiutante di campo del mio generale, ho voglia di mangiarmi il fodero della sciabola dalla disperazione. Come farei a… benedirvi quando mi faceste una marcia di 30 chilometri.

– Il progresso che creerebbe il femminismo abolirebbe gli eserciti! – sentenziò il giovanetto dalla grossa testa impomatata: ma la signorina gli rivolse un’occhiata terribile, e l’ultimo f con cui per un difetto di pronuncia sostituiva l’s mancante, gli morì sulle labbra impallidite.

Egli era follemente innamorato di lei, ed essa ne abusava per esperimentare in anima vili su di lui la potenza dello sguardo.

Certe volte gli arrestava la parola sulle labbra solo per il gusto di vederlo impallidire.

Tutti risero ed egli rimase imbambolato, con la persuasione di aver preso una formidabile gaffe.

Giovane felice! – mormorò ironicamente l’ufficiale, – che credi ancora al progresso!

– E voi non vi credete? – replicò una signora bionda e pallida, tolstoiana convinta che parlava sempre di psicologia.

– Ecco, riprese il tenente, credo all’automobile e alla polvere senza fumo, al latte artificiale ed alle foche ammaestrate, ma tutto questo non mi sembra una cosa organica da cui possa venir fuori la felicità umana, vale a dire l’abolizione della musica tedesca, ed una pomata per far crescere i capelli ai calvi.

Il tenente era una specie di individuo intermedio fra il bohémien ed il troupier, allegro e scettico, tormentato da due sole cose, da un astio feroce contro la musica tedesca e dal dolore di perdere precocemente i capelli. Siccome si conoscevano queste due fissazioni, vi fu un nuovo scoppio di risa.

– Ecco il cav. Vei, ecco il cav. Vei! – esclamò la signorina, sorridendo amichevolmente a un signore basso e calvo che entrava in quel momento.

Il personaggio così annunciato aveva sempre le tasche piene dei più raffinati bonbons, che faceva venire dai luoghi più lontani, mezzo semplicissimo per cui gli si perdonava l’espressione satirica della bocca carnosa ed i suoi orribili baffetti grigi ed ispidi. Bisogna anche dire che era ricchissimo. Egli salutò gli uomini con un breve inchino ed «entrò in materia» consegnando alla signorina una caramella americana all’ananas, arrivata da Boston la sera stessa.

Gli fecero un mondo di feste, specialmente le signorine che lo chiamavano Brubrù, e gli si facevano intorno senza complimenti.

Vedi? – mormorò il tenente all’orecchio di Garbini, – quell’uomo è malato di signorinite!

– Sarebbe? – domandò il giornalista ridendo.

– Sarebbe qualche cosa di mezzo fra San Francesco di Sales ed un corruttore di minorenni. Egli non si trova bene che in mezzo alle gonnelle appena allungate. È d’una gentilezza squisita per tutte le sedicenni, porta loro i libri che gli chiedono, i dolci più rari e si contenta di stringere le loro manine e di annegar lo spirito in mezzo al leggero odor d’ireos delle loro grazie nascenti. Ma, e tu, capiti qui per la prima volta?

– Sì, e metto a profitto la tua esperienza. Ho bisogno d’esser guidato. Fammi da mentore.

– Non sarà difficile.

Infatti il salone si andava lentamente popolando di una vera folla elegante, e qua e si formavano dei gruppi scintillanti di seta e di gemme.

Conosci quel signore altissimo laggiù? – domandò il tenente.

– Di vista, era alla inaugurazione dell’anno accademico.

– È il professor Thefner, illustre storico tedesco. Ma io credo che abbia scritto solo una memoria sulla zootecnica presso gli egiziani. Viene da Berlino ed ha una H nel nome, qui tutto ciò basta a far carriera

– Ma tu non sei un mentore, sei un Astarot: maligni troppo. Dimmi chi è quella magnifica signora bionda.

– Ah! – fece con indefinibile espressione il tenente – Quella non è una donna!… è un mistero!…

– Avete anche dei misteri qui?… Ma allora l’ambiente è delizioso… E’ forse una principessa nihilista, o la moglie di un rajah?

Macchè! Prima di tutto ciò è passato di moda: ad esser principesse nihiliste o mogli di rajah c’è il caso di passare per vecchie canzonettiste ritirate dagli affari. Quella è un’italiana, fiorentina autentica, almeno dalla pronuncia, vedova di un signore, che non saprei dire chi fosse, ma certo era un signore, o parecchi signori, giacchè le ha lasciato una sostanza fenomenale. Ha un appartamento in via Condotti che è la casa più strana e aristocratica di Roma; vi ho preso il una volta. Invita di rado e pochissima gente, ma in compenso è divinamente bella!… Guarda che occhi!…

Infatti gli occhi della signora, rivolti in quel momento verso i due giovani, avevano una profondità strana e misteriosa, come d’acque ferme, di cui il fondo fosse ignoto.

– E il mistero?… – domandò Mario.

– Il mistero è questo, – riprese il tenente attirando l’amico in disparte. – Un bel giorno, senza che si sapesse d’onde, perchè, una leggenda ha incominciato a circolare… Oh! Niente più che una leggenda sai?… Si diceva, così, vagamente, che… come si fa a dirlo?… Essa fosse una specie di menade dell’amore, qualcosa di terribile, che avesse dei momenti di passione addirittura mostruosi: c’è stato chi ha detto che in una casina a Villa Ludovisi si riunisse con alcune sue amiche (chi?…altro mistero) e che dentro succedessero delle cose degne dell’antica Roma.

«Chi ha veduto ciò?…O meglio, chi lo ha detto?…Non lo so, non lo sa nessuno. Lo strano è che questa leggenda è entrata fra di noi come il vapore maligno di un incensiere nascosto in qualche angolo. Si sono detti dei particolari degni dell’epoca di Nerone, roba da far arrossire me o te, e non dico poco: cose da pazzi. E tutti quelli che hanno tentato di dare la scalata a quel cuore o di leggere in quegli occhi, non ci hanno capito più di quello che ci ho capito io. Vedi quel signore alto e biondo, quello con la barba da Nazzareno, che la guarda?… È un maestro di musica che muore per lei, letteralmente; si dice che si sia perfino travestito per seguirla. Fiasco completo. Un giorno le dichiarò il suo amore, ed essa gli disse tre volte: « – Ma no, ma no, ma no» senza sorridere e senza arrabbiarsi, come se avesse rifiutato di ballare un walzer, ma non c’è stato caso di cavarne altro.

Strano! – mormorò il giornalista.

Bravo! È stupido, ma è così. Nessuno di noi ha saputo trovare un’altra conclusione. Dimenticavo di dirti che la signora si chiama Anna Guinizelli… Oh!…

Incessu potuit Dea!

Questa esclamazione fu strappata al giovane all’ingresso nella sala della padrona di casa.

Viviana Dorian vestiva un dècolletté color ametista che le dava un aspetto assolutamente imperiale. Il suo volto d’una bellezza marmorea e composta sembrava quello d’una statua romana, ed ogni suo gesto aveva una grazia incantevole e casta.

Monaldo la presentò al nuovo amico: ma ella lo dovette subito abbandonare, chiamata all’altro lato della sala dall’arrivo di un nuovo gruppo di ospiti.

– Altro genere di bellezza, questo! – mormorò Mario.

Perfettamente, – disse Giorgio – è bella come una dea, e lontana dai sensi come un’opera d’arte, mi viene voglia di baciarle la mano e di volerle bene come alla Venere Capitolina, se fosse mia zia! Ecco l’invasione dei Re Pastori!

Il gruppo che rispondeva a questo nome barbaro era una famiglia composta di padre, madre ed un figliuolo.

– Questi li conosco, disse Mario, sono degli agenti di cambio.

Perfettamente, vivono di cifre e di listini; si dice che quando la rendita è in ribasso in casa sua sia un inferno. Io li chiamo i Re Pastori, perchè hanno l’aria di tre barbari invasori, in un impero decadente. Puoi star sicuro che appena entrati hanno già fatto il calcolo di quanto costa l’illuminazione della sala e la parure di brillanti di donna Viviana.

– E queste due tortorelle bionde?

– Sono le signorine Savigny: dottoresse del magistero superiore, estremamente religiose, assenza completa di dècolletté, estremamente colte, guardano sempre in terra e sorridono poco.

In quel momento si udì un trillo di note sul pianoforte, un immenso Erard a coda, situato in fondo alla sala.

L’ufficiale si tacque all’improvviso, ascoltando l’armonia fragorosa del pezzo che veniva suonato… poi Mario lo vide rabbuiarsi tutto:

Beethoven! – mormorò rabbrividendo; e si allontanò senza parlare, infilando l’uscio che dava sopra una piccola terrazzina coperta.

Mario sorrise e si avviò, lentamente, verso il fondo della sala.

Egli era un giovane dall’animo un po’ arido, molto ambizioso, entrato da poco nella vita per la porta del giornalismo, malgrado gli anatemi di sua madre, che lo voleva impiegato. Ma egli si sentiva i garretti buoni e l’occhio sicuro: metteva l’uno dopo l’altra, con rapidità e precisione, le pietre del suo edificio, prendendole senza tanti scrupoli dove le trovava, sicuro di andare verso la fortuna.

Ora, come tutte le volte in cui si trovava in mezzo alla folla elegante di un salotto, un senso acre e misterioso di dominazione gli prendeva il cuore ed i suoi occhi di falco, piccini e luminosi, folgoravano una luce quasi selvaggia.

L’odore delicato e indefinibile che emana dalle vesti delle signore eleganti gli saliva al cervello, gli dava impeti subitanei di entusiasmo e talvolta tutte le fibre del suo cuore s’illanguidivano nella suprema dolcezza di un sogno di dominio, di un momento agognato in cui, sotto tutto quel brusio di sete e di piume, come un immenso ritmo, avrebbero palpitato, per lui, centinaia di cuori.

Vicino a lui, presso il pianoforte, era seduta Anna Guinizelli. Egli la vedeva, in quel momento, nel completo splendore della sua singolare bellezza, e dovette comprendere come potessero essersi formate, intorno a lei, le strane leggende che la circondavano.

Sembrava uscita da un antico smalto veneziano, tanto nella sua figura, nelle sue vesti di seta giallo scuro, erano diffusi gli splendori dell’oro. Le sue labbra avevano un non so che di lievemente irregolare e di appassito, come se centinaia di baci ardenti le avessero violentate e tutta la sua fisionomia, nell’immensa attenzione che l’animava, pareva vibrare di voluttà profonde e nascoste.

Le sue nari diafane e mobili vibravano come se ella aspirasse la melodia che ascoltava e Mario credette di comprendere che tutte le facoltà della strana creatura convergessero ad un unico fòrnice di piacere, ad una fonte segreta di gioia, unica, terribile, dominatrice, come una religione misteriosa, a cui tutte le altre facoltà di godere o di soffrire portavano il loro tributo di fuoco e di lacrime.

Al piano era seduto il musicista cui poco innanzi aveva accennato Giorgio; egli non la guardava, ma s’intendeva che suonava per lei, e gli urli di passione ed i gemiti disperati che partivano dallo strumento singhiozzavano il suo proprio dolore e la febbre dell’animo suo.

Essi si amano… – pensò un momento Mario – anch’essa lo ama… ma dovette subito convincersi che aveva sbagliato.

Segui lo sguardo di Anna. Era perduto nel vuoto, seguendo evidentemente una forma irreale: tutta l’anima sua era fuori della vita. Dall’altro lato Monaldo ascoltava raccolto: la sua bella testa pensosa aveva una severità piena di grazia e negli occhi profondi splendeva una luce calma, quasi austera.

E Mario pensò che, se vi erano in quel luogo due persone degne di amarsi erano Anna e Monaldo.

L’ultima vibrazione delle corde armoniche si perdette nell’aria calma e muta, come un addio disperato. Il musicista si rivolse e guardò Anna. Essa non lo guardava.

Come destatasi appena da un sogno, sorrideva, attendo leggermente le palpebre, ad una vicina che le parlava.

Mario si avviò per raggiungere Giorgio nella piccola terrazza, ma, appena entrato, fu quasi investito dal giovane ufficiale, che usciva con aria stizzita.

– Ah!…Sei tu?… Vieni un poco qui dentro!…

Entrarono.

Era un piccolo luogo, discreto e squisito, tutto chiuso da una vetriata opaca, dietro la quale s’indovinavano i fruscii degli alberi del giardino. Delle piante da serra rameggiavano intorno, nell’aria queta, ed in mezzo uno zampillo d’acqua cantava sommessamente nella tazza d’alabastro.

Giorgio si lasciò cadere sopra un divano orientale e mormorò stizzosamente: – Credi, mio caro, che io sto per divenire anarchico.

Mario sorrise: – Caspita!… un ufficiale del Regio Esercito, e perchè?…

Perchè?… sai che cosa ho veduto qui?… Mentre tu ascoltavi la divina musica di quel barbaro tedesco?…Ho veduto, – proseguì spiccando rabbiosamente le sillabe, – la minore di quelle due tortorelle  molto religiose, molto dotte, pure come la rugiada, che si faceva baciare la mano… e da chi?… da quel gorilla del cavalier Vei!… Hai capito?

Mario ebbe un leggero atto di sorpresa.

– E questo non è nulla, proseguì il giovane con voce quasi triste: io vengo qui, od altrove, in questi salotti della nostra buona borghesia ricca, un paio di volte la settimana, e sull’anima mia si è fermata come una ruggine: costoro mi ossidano tutti i sentimenti.

– E perchè ci vieni allora?

Perchè?… perchè bisogna pure far qualche cosa. Se fossi milionario, mi potrei permettere il lusso di salire o di scendere, di andare nei saloni dell’aristocrazia o nelle bettole: dove la cretineria vive per tradizione o la colpa per necessità. In tutti e due i casi la cosa si giustifica: qui no. Costoro non sanno essere che ridicoli: quasi quasi, quando io penso che la leggenda di Anna Guinizelli dev’essere, come è certo, nient’altro che una favola maligna, mi vien voglia di mordere: t’immagini quel mostro di bellezza, nato per passare sul fondo sanguigno di una tragedia, intenta ad ascoltare i pettegolezzi delle tortorelle?

Guarda!… guarda se essi non ti sembrano le figure di un cinematografo del villaggio.

E costrinse Mario a guardare attraverso la porta aperta.

La musica aveva intuonato un waltzer di Strauss e si vedevano le coppie dei danzatori passare e ripassare nella zona illuminata.

Passò il cav. Vei, tenendo per la vita una signorina vestita di bianco, e la sua grossa mano pelosa spiccava sul corsetto candido, come una zampa d’orso sulla neve; passò la signora bionda, tolstoiana, con gli occhi levati al cielo, muta e pensosa come se sognasse un gran sogno di pace universale: il suo ballerino, che era un grosso professore delle scuole normali, badava a non perdere il tempo e si guardava spesso i piedi. Passarono Anna e Monaldo: egli ballava con disinvoltura signorile, strisciando brevemente i piedi con grande rapidità ed accompagnando evidentemente la dama con un movimento cortese del braccio, come se non ballasse che per lei. Anna aveva le sopracciglia socchiuse e Mario credè di vedere sotto di esse il lampo quasi ferino dei magnifici occhi misteriosi.

Passò la signorina Pini, col giovinetto dalla testa impomatata, scuotendo ogni tanto con aria volutamente selvaggia la capellatura folta e nera.

Ironia delle cose!… – mormorò l’ufficiale, – quella bambina darebbe tutto quello che può dare perchè suo nonno fosse stato un negro!…

Perchèdomandò Mario.

Perchè ha voglia di essere una creolaVedi?… quella signora tolstoiana amerebbe con desiderio vivissimo di essere una russa. Io…

– Tu?…

– Io desidero divenire buddista e può darsi che ci riesca: nella contemplazione del mio ombelico troverò forse delle cose più interessanti di queste.

E coprendo la folla dei danzatori con un gesto di disprezzo profondo, rientrò in mezzo ad essi.

Due minuti dopo Mario lo vide passare danzando quasi con rabbia un waltzer infernale con la signorina Pini.

Ad un tratto Mario sentì una mano lieve posarsi sulla sua spalla e la voce della signora Savarni mormorò dietro di lui:

– E lei?… si è dato a volontario esilio?

– Proprio così?

Mario si rivolse: erano entrati da un altro piccolo uscio nascosto fra le piante, Monaldo, Viviana ed Anna.

– Vi abbaiamo scoperto, signor soppiattone!… – esclamò la signora: che cosa stavate cospirando col tenente?…

Scommetto, – disse Monaldo ridendo, – che diceva male di tutto e di tutti.

– Avete ragione!… – soggiunse Anna, ridendo anch’essa.

Per la seconda volta Mario provò quell’arcano sgomento che ci afferra il cuore quando scorgiamo negli occhi di un essere umano, oscillare l’ombra perfida di un mistero.

– Ma no, – rispose il tenente, – mi diceva un mondo di bene di tutti!…

– Allora, – replicò Viviana, – bisogna prepararsi, sta per giungere l’ora dell’Apocalisse, poichè succedono i fatti più inverosimili: il tenente Giorgio dice bene delle persone, i figli uccidono le madri, eccetera.

In quel tempo tutta Roma si occupava di un matricidio avvenuto in condizioni spaventevoli. Un giovane medico aveva ucciso la madre, seppellendola in un luogo ignorato di una cava abbandonata nella campagna: tutti i reporters dei giornali cittadini e tutti gli agenti di polizia erano stati sguinzagliati alla ricerca del cadavere misterioso, che era stato rinvenuto in una vecchia cava di pozzolana abbandonata.

L’allusione di Viviana fece cadere il discorso sul «fatto del giorno».

– Siete stato sul posto?… – domandò Anna.

E Mario dovette raccontare i particolare della incursione sotterranea, al lume delle fiaccole nei cunicoli abbandonati.

Egli aveva la parola facile ed incisiva parlava senza gestire, guardando in volto i suoi uditori, ed avendo sulle labbra un sorriso lievemente sarcastico per i loro moti d’istintivo terrore.

Dal salone vicino giungevano semispenti gli accordi d’una lenta mazurka, che parevano accompagnare il racconto macabro.

Erano sopraggiunte alcune signore: il giovane cronista fu circondato ed ascoltato religiosamente: ed in quel luogo quieto e dolce, sotto le acconciature ingemmate, sulle spalle e sulle braccia candide passò come un fremito lungo e delizioso, l’orrore di freddo di quella scena di terrore.

Una specie di macabra cupidigia splendeva negli occhi delle donne: vollero degli altri racconti, trovando delizioso quel giovane corretto e disinvolto, così bene inguantato, che aveva veduto tante cose atroci.

Vollero quasi a forza che egli promettesse loro di accompagnarle a visitare il luogo del delitto, il mercoledì prossimo.

Quando egli nominò Laura Coltano, tutti si strinsero intorno a lui: a suo tempo, due anni innanzi, questa vittima dell’adulterio, pugnalata dal marito sul luogo della sua colpa, era stata celebre.

Mario ricostruiva, come era risultato dal processo, il delitto:

«Egli le domandò: vuoi tu seguirmi e dimenticare l’uomo che ti ha strappato a me?… Vuoi il mio perdono? La pace?… Essa rispose per tre volte no ed egli la colpì tre volte, così le ferite si confondevano quasi in una sola, qui, sotto l’ascella».

Povera donna!… – mormorò Anna.

Era bella? Domandò una signorina.

Bellissima!

– Io ho conosciuto il marito, – disse freddamente Monaldo, era un gentiluomo.

Povera donna!… – ripetè sordamente Anna.

Poveruomo!… – replicò Monaldo; – vi sono situazioni dalle quali non si esce che tragicamente.

I suoi occhi ebbero un fulvo baleno, e le donne provarono come un fremito di occulto terrore, innanzi all’evocazione del maschio dominatore, che punisce con la morte ogni furto al suo tesoro di piacere.

Mario, da alcuni secondi, fissava intensamente Viviana: il volto armonioso della donna era calmo e dolce, e le linee del suo corpo si svolgevano con una suprema eleganza sotto le vesti di seta: due o tre volte un fremito profondo le aveva percorse.

E, ad un tratto, un senso acuto e imperioso di voluttà serrò la gola del giovane.

D’improvviso, con la evidenza fulminea di una rivelazione, egli aveva pensato che realmente, sotto quel sottile involucro lucido, palpitava un corpo di donna, che tutte le grazie più segrete della sua bellezza calma ed inaccessibile esistevano, ed era possibile vederle e goderle, e che una mano d’uomo poteva far vibrare sotto la sua carezza tutta la prodigiosa armonia delle carni perfette. Ed i suoi piccoli occhi grigi di falco rapace si fissarono ardentemente su di lei, cercando la via, la ferita impercettibile per cui la passione poteva entrare ed animare quella statua sovrumana.

Egli presentì che, il giorno in cui quella donna avesse amato, avrebbe dato un terribile prestigio al suo amante, che essa sarebbe stata, per eccellenza, la donna che conduce un uomo alla vittoria

– Ebbene?… – disse essa – figgendo i suoi grandi occhi sereni sul giovane, – vedete, voi ci avete fatto dimenticare il nostro dovere: venivano per invitarvi ad una partita di ping-pong!…

– Vi vendicherete battendomi, – rispose egli con voce lievemente tremula, – io sono sempre sfortunato al giuoco.

Viviana passò il suo candido braccio sotto il suo ed uscirono preceduti da Anna e da Monaldo.

Ma, nell’entrare nel piccolo salotto intimo, overa un immenso tavolo verde, diviso in due da una reticella, ebbe un vivissimo moto di stupore: gli era sembrato scorgere Monaldo prender dalle mani della Guinizelli un piccolo foglio verde, e nasconderselo nello sparato della camicia. Fu come una visione fulminea, come quelle cose informi che si vedono, passando in treno per la campagna tenebrosa e che ci fanno domandare: era un uomo?… una pianta?… un carro?…

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Due ore dopo le sale si vuotavano lentamente, gli ultimi addii risuonarono nell’anticamera, un brusio di voci; un fruscio di vesti di seta si perdette per l’ampio scalone.

Monaldo rimase solo, nel salone deserto in cui s’indugiava un odor vago e molle d’ireos, e qualche spira sottile del fumo azzurrognolo svaniva lentamente nell’aria calda ed immobile.

Portò una mano al petto e ne trasse una piccola busta verde, oblunga.

La aprì e lesse:

«Amico mio,

Voglio; intendete bene?… Voglio vedervi mercoledì prossimo. Avete una settimana libera per non pensare a me: io purtroppo, non posso che pensarvi continuamente, senza speranza di farvi soffrire quello che io soffro: venite; odiatemi, se vi è possibile, ma venite. Addio.

Anna»

Monaldo ebbe un gesto quasi brutale di noia. Il suo bel volto pallido prese una espressione di rancore.

Nascose la piccola busta nella tasca interna del frack e rientrò.

L’ampia sala rimase deserta e muta, nello splendore uguale delle lampade elettriche, deserta e muta come un cuore senza sogni e senza passione. La specchiera enorme, di antico vetro veneziano, rifletteva un guanto bianco abbandonato sopra un divano, e quel piccolo cencio di lino pareva galleggiare nel cristallo verdastro come una spoglia di naufragio.


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