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La mattina dopo, nella redazione del Pensiero, si notò con grande meraviglia che il brillante cronista del giornale era di pessimo umore.
Un reporter che la sera innanzi s’era dimenticato di telefonare un suicidio, ebbe il più aspro rabbuffo che si possa immaginare e fu minacciato d’un rapporto alla direzione: gli uscieri, un poco lenti a consegnare la quotidiana corrispondenza, furono richiamati all’ordine da una serie di imperiose scampanellate.
Il fatto destò meraviglia, perchè di solito, il giovane pubblicista imponeva al suo spirito ed ai suoi modi una compostezza aristocratica.
E la meraviglia aumentò quando egli, che di solito affidava il disbrigo delle minori faccende ai reporters, annunciò che andava da sè a prender notizie del fatto al Commissariato dell’Esquilino.
Mario aveva bisogno d’aria e di moto: nella sua anima tutta tendini e nervi, come il suo corpo secco ed agile, non era mai entrato un turbamento profondo.
Aveva avuto delle amanti, perchè è di buon gusto averne, come è di buon gusto portare le uose, ma non le aveva mai amate: appena desiderate, con una secreta voglia di battere quella carne frolla e stupida, dopo il piacere.
Invece l’immagine di Viviana Savarni si era definitivamente impadronita di lui.
Egli non poteva dimenticare quel breve momento di esaltazione psichica in cui aveva veduto la realtà dolce e formidabile della sua persona delinearsi sotto la veste di seta.
Avveniva in lui ciò che nasce alcune volte dall’illusione di un sogno. Una donna che noi non abbiamo mai veduto, che è molto lontana da noi, mai desiderata, mai amata, d’un tratto ci appare nel sogno, ci fa sentire il calore della sua carne e ci bacia, molte volte la passione accende i cuori per questa strana via, ed il sapore misterioso di quel bacio sognato non ci abbandona più le labbra.
La lontananza morale, l’inaccessibilità di Viviana Savarni davano al sentimento di Mario una specie di cupa esaltazione: a volte gli sembrava che se essa lo avesse baciato egli sarebbe quasi morto, o l’avrebbe afferrata con la violenza selvaggia d’una belva, a volte gli veniva in cuore una violenta stizza contro se stesso, per sentirsi così dominato e turbato, egli che aveva sempre guardato il mondo come una preda evidente e vicina.
Senza volerlo, pian piano, seguendo un moto riflesso dello spirito, egli salì i larghi viali di Villa Ludovisi e ad un tratto, come destandosi, battè il piede in terra e mormorò: «come un collegiale».
Infatti egli era giunto sotto le finestre di casa Savarni e s’era sorpreso a guardare in su, verso l’impassibile severità delle persiane serrate.
Allora egli si guardò intorno, per la via immensa piena di sole e del verde smorto degli alberi e, come confessò più tardi a sè stesso, gli venne voglia di trattar male quell’imbecille di Mario Garbini.
Avrebbe voluto andarsene, tanto si sentiva debole e spossato, lassù, in mezzo al via vai mattutino delle serve, innanzi a quel palazzo muto. Allora, pensando di farlo per darsi un po’ di contegno, ma in realtà non potendo allontanarsi, entrò in un piccolo caffè di fronte al palazzo ed ordinò un assenzio: spiegazzò i giornali del mattino, masticando delle bestemmie contro il reporter negligente che gli aveva fatto perdere il più bel fatto della serata, e trovando a ridire ferocemente sull’opera sua e dei suoi colleghi.
– Benissimo!… Una cronaca d’arte di quell’imbecille di Verzani; la critica d'arte è la porta trionfale per cui gli idioti entrano nel giornalismo… Lyvia Saeimi?… Ma questo è uno pseudonimo!… Chi sarà?… Quella pertica di Luigia Cadoret?… Buono!… Anche il Tempo non ha il fattaccio di iersera!… Oh! Un articolo di Svarani!… Il Padreterno, il Maestro con l’M maiuscola; il…
Ma non si seppe mai il terzo epiteto del brillante scrittore, perchè, d’un tratto, il giornale cadde di mano a Mario, ed egli provò l’impressione d’un brivido elettrico.
Guardando a caso al disopra del foglio aveva veduto, dalla porta di fronte, uscire Viviana.
Allora si avvide d’un tratto che l’assenzio, i giornali, la maldicenza sui colleghi, tuttociò era stato un volgare pretesto per piantarsi lì ad aspettarla. E siccome Mario era logico nelle sue cose, pagò la consumazione e la seguì.
La seguì alla lontana, come se andasse per i fatti suoi, dicendo a se stesso che, siccome la signora andava verso l’Esquilino, egli non faceva che seguire l’itinerario stabilito: ma non era vero. La verità era che Viviana indossava un magnifico vestito grigio perla, attillato per modo che le sue forme statutarie parevano serrate entro una lorica scintillante; e quel vestito grigio perla ossessionava la mente di Mario.
Una volta aperto l’uscio all’amore, tutti i più minuti particolari, un vestito nuovo, un nastro ed un difetto fisico, sono pretesti a cui egli s’attacca con furore.
Viviana camminava innanzi, battendo coi tacchi alti delle sue scarpine i marciapiedi sonori, e Mario lottò ancora un poco con se stesso, ma dovè un’altra volta cedere. Egli vide di nuovo innanzi a sè, nel bagliore perlaceo di quella veste di seta, che armonizzava così perfidamente con la chiara e fredda mattinata autunnale, la nudità divina e tangibile, che si poteva afferrare, baciare, gualcire con mani frementi. L’istinto primitivo del possesso che dormiva in fondo al suo cuore, sotto la greve mora delle convenienze sociali, si ridestò, ed egli sentì il sangue battergli nelle tempie un ritmo selvaggio.
Dove andava essa?… A quell’ora le signore non sogliono recarsi a fare delle spese. L’idea che essa si recasse da un amante gli apparve un minuto, ma gli sembrò così strana che si mise a ridere da sè; tutto contento della candida solitudine di purità in cui viveva essa, tanto lontana dai sensi, che gli uomini, tranne lui, non osavano desiderarla.
Avevano attraversato, senza che essa si fosse mai rivoltata, via Umbria, via San Nicolò da Tolentino, piazza S. Bernardo e Piazza delle Terme, poi Viviana volse verso piazza dell’Indipendenza.
– Che diamine va a fare?… – mormorò Mario, nascondendosi dietro un tram, mentre essa s’era fermata in mezzo alla piazza e guardava intorno acutamente.
Da queste parti non c’è una sarta od una modista chic, a pagarla un occhio!… Non ci sono chiese, non ci sono botteghe!…
Ora Viviana, senza dubbio soddisfatta del suo esame, s’era inoltrata sotto le alberate della piazza: Mario dovette nascondersi più volte, per evitare il suo sguardo: l’istinto quasi poliziesco acquistato in tre o quattro anni di réportage – istinto che lo aveva reso quasi celebre in due o tre avvenimenti famosi – si ridestava in lui, acuito da una sottile febbre di gelosia. L’idea che un altro uomo, oltre Monaldo, che gli sembrava lontano e puro come lei, potesse realmente vedere, toccare ciò che appariva alla sua mente un sogno miracoloso e febbrile, gli inaridì le fauci come un impeto di furore.
Ad un tratto Viviana si fermò, gettò un altro sguardo intorno, da cui egli si salvò a stento, gettandosi in una bottega di farmacista, ed essa entrò nel portone di una casetta a due piani, linda e nova, quasi soffocata fra due enormi palazzi di speculazione.
– Essa ha un amante!… mormorò quasi con un singulto, tanto quest’idea gli faceva male.
E macchinalmente si lasciò cadere sopra una seggiola.
– Che cosa desidera il signore? – domandò il farmacista un po’ meravigliato.
Mario mormorò volgendosi dall’altra parte per non far vedere che arrossiva:
– Sono indisposto, favoritemi un cordiale.
Il farmacista si mise a preparargli un bicchierino e nel frattempo Mario rimase come assorbito da un’estasi ipnotica, fissando acutamente gli sguardi nella porta per cui Viviana era entrata.
In quel periodo d’attesa i più piccoli particolari di ciò che vedeva gli si scolpivano minutamente nel cervello come i particolari di una scena importantissima.
Attese così per circa mezz’ora, con una specie di tetra amarezza nel cuore, sentendo mille torture all’idea che essa potesse, in quel momento, essere vicina ad un uomo, che l’avrebbe baciata, accarezzata, che avrebbe fatto scaturire da quella prodigiosa statua tutta la forza immane di piacere e di bellezza che doveva irradiarne sotto il brivido della passione.
Dovette uscire dalla farmacia ed attendere all’angolo vicino, nascondendosi dietro un chiosco di giornalaio.
Pian piano l’amarezza vuota ed ebete di quell’attesa gli invase i sensi, e per la prima volta in vita sua si sentì povero e solo: il grigio delle case, i cenci di un monello che si baloccava al suolo presso di lui, l’odor grasso che usciva da un’osteria vicina, gli parvero aspetti vivi ed immediati d’una noia universale, vasta, inesorabile, diffusa sul mondo e da cui fosse impossibile uscire…
Quella grande porta aperta, che lasciava vedere un andito dipinto alla Pompeiana, era un cosa penosamente triviale, qualcosa come un salone d’albergo in provincia od una stazione ferroviaria di terz’ordine, ed egli provava un senso di amara delusione all’idea che il mistero d’amore, il rito ineffabile di una simile offerta di gioia, potesse consumarsi in un simile luogo.
Ad un tratto si riscosse al suono della propria voce: senz’avvedersene, aveva pronunciato queste parole: – Non è vero, non è vero!
Ed ora che esse gli risuonavano, come la voce di un altro, vagamente, nel cuore, si stupiva e si umiliava del tono quasi piangente, quasi implorante con cui erano state pronunciate.
Non poteva, in tutto ciò, esservi un fatto innocentissimo? Allora si riscosse: come se un improvviso calore gli rianimasse le vene; trasse l’orologio e guardò l’ora. Ebbe un sussulto di meraviglia. Egli era là da due ore!
Allora gli venne in mente un pensiero audace, una di quelle aspirazioni da antico moschettiere che, a volte, lo avevano lanciato alla preda delle notizie, con la violenza e la precisione di un falco.
Si abbandonò all’istinto, e entrò risolutamente nel portone. Non c’era portinaio. Sull’uscio del primo piano era scritto: «Dallon Herbert, clergimen». Suonò. Venne ad aprirgli un vecchio dall’aspetto rigido, e dagli occhiali anneriti, cui egli domandò con molta cortesia scusa dell’equivoco, come se avesse suonato schiettamente, sbagliando di piano.
– È sopra – mormorò fra sè – e per alcuni minuti in quel piccolo pianerottolo chiaro, in cui s’indugiava ancora l’odor di tabacco, dei libri vecchi del clergimen, egli sentì distintamente il suo cuore battere a colpi profondi, come un ritmico tonfo di remi.
Salì. Sul secondo uscio, l’ultimo, era scritto sopra una grande lastra di alluminio: Elvira Corti, ricamatrice.
Per un istante egli sentì una viva gioia ridere sommessamente in tutte le sue vene. Essa era pura… un entusiasmo vivace gli scaldò il cuore, come se quella smentita ai suoi dubbi fosse stata una parola di speranza per lui, volle forzare una mano al destino, provocare un incontro, parlare, tentare qualche cosa, magari estremamente ardua, ma agire, poichè ora egli sentiva nelle sue membra agili e nella sua mente chiara ed ordinata una incrollabile fiducia di sè.
E prima di aver pensato una scusa, una giustificazione qualunque, tese la mano al campanello e suonò…
Lo squillo del campanello ebbe un’eco singolare, quel suono malinconico che hanno i campanelli degli appartamenti vuoti. Chi avrebbe aperto?… Egli pensò che la mano di lei, poco prima, aveva fatto vibrare lo stesso metallo, che la sua manina aveva toccato la maniglia della porta. Per terra era un fiorellino di myosotis, lo raccolse.
Ma nessuno venne ad aprire.
Più volte egli fece suonare di nuovo il campanello, e sempre gli rispose quell’eco strana, vacua.
Allora egli, lentamente, discese, e ad un tratto sostò, si morse le labbra ed arrossì di rabbia. Da una finestra invetriata delle scale egli aveva scorto un piccolo giardino confinante a tergo con la casa. Una scaletta, a chiocciola di ferro, scendeva dall’ultimo piano al giardinetto. Una porticina ferrata si apriva su di una via deserta…
La casa aveva due uscite ed egli era stato giuocato come un ragazzo da questo volgarissimo espediente, degno di un cattivo dramma.
Seguitò a discendere, sentendo nel cuore un tormento così acuto, un così completo strazio di tutte le fibre, che non pensò più a negare a sè stesso la verità: egli era innamorato, era geloso e soffriva tutte le pene dell’inferno.
Quando fu di nuovo nella via in mezzo a suoi simili, egli provò un odio acuto contro tutto ciò che vedeva, e si incamminò a testa bassa, facendo sibilare il suo bastoncino con un vago e febbrile desiderio di fare qualcosa di grande, di terribile, che assopisse, con l’immenso fragore di una caduta colossale, l’acuto tumulto del suo cuore.
La piazza di Termini, col suo candido anfiteatro e il giglio argenteo della sua fontana, gli apparve innanzi.
Ma, improvvisamente, un’idea gli si affacciò alla mente.
Nel tumulto disperato dei sensi egli aveva dimenticato due fatti. Che il giorno dopo, mercoledì, egli avrebbe dovuto accompagnare Monaldo, Anna e Viviana a visitare la cava deserta ove era avvenuto il recente clamoroso delitto e che egli aveva veduto come in un baleno, la piccola busta verde passare dalle mani di Anna a quelle di Monaldo.
Ebbe come in un brivido, l’improvvisa rivelazione di un piano ancora indeterminato, ma ricco di speranze, si trovò nella condizione di un giuocatore il quale si rammenti, d’un tratto, d’aver due ottime carte nel suo giuoco.
Ciò gli diedi un senso nuovo ed impetuoso, un nuovo impeto di battaglia. Un violento desiderio di lottare, di vincere, di spegnere nella gioia fragorosa del trionfo la torva passione di quel momento, lo accese tutto. E, come un soldato sbandato, che rientra nella battaglia, si cacciò e scomparve nella folla, fra lo scintillio delle vetture e l’onda oscura dei passanti.