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Viviana Gavarni, Monaldo, Anna Guinizelli e Mario Garbini scesero di carrozza sulla via larga e polverosa: ai lati, dietro le staccionate, si stendeva la campagna piatta ed uniforme, ondulata come un mare coperto d’alghe verdastre, fino ai colli lontani, perduti in una lieve nebbia violacea. Avevano percorso un lungo tratto di strada in silenzio. Man mano che si avvicinavano al luogo sinistro una specie di sgomento vago aveva preso al cuore le donne. Provavano il senso un po’ angoscioso di chi si sporge a guardare il fondo oscuro di un precipizio, in cui mormori una folla di piante sconosciute.
Il mistero acre dei substrati sociali, in cui preme una vita incognita, le agitava.
– Essi sono passati di qua!... – mormorò Anna guardando gli aspetti circostanti del luogo.
E ad un tratto videro col pensiero la coppia lugubre: la madre, una vecchia curva sotto i suoi abiti neri e stinti, ed il figlio, l’uomo dal volto duro e pensieroso, dalla fronte solcata di rughe precoci. Li videro camminare contro il vento largo e freddo della pianura, come contro un’ampia corrente molle e pigra, verso la meta dell’atto spaventevole.
Certo, gli occhi del matricida avevano guardato intorno tutte quelle cose pallide ed abbandonate, i ruderi dei vecchi sepolcri, rosicchiati dal tempo e dal ladrocinio degli uomini, ed egli aveva inteso il ritmo immutabile del pensiero delittuoso svolgersi nelle tenebre del cuore...
I visitatori avanzarono nel prato, calpestando le erbe umide, in silenzio.
L’entrata della cava, un foro deforme, si apriva in mezzo ad una specie di conca del terreno, franato da anni ed anni, per qualche scoscendimento sotterraneo, e quasi nascosto sotto una folla turbolenta di piante selvagge. Un vecchio guardiano attendeva sull’entrata, seduto sopra una pietra.
In quel giorno i visitatori dovevano essere stati parecchi, perchè il terreno intorno era tutto calpestato. Il vecchio accese un lanternino, salutò la comitiva, ed entrò. Mario Garbini precedeva i visitatori narrando.
Egli aveva accompagnato sul luogo il giudice istruttore, quando vi era stato condotto il colpevole.
«Era pallidissimo, diceva, e più volte le guardie dovettero sostenerlo. Qui, a questo svolto egli dovette appoggiarsi alla parete e mormorò: – Non andrò più innanzi!... – Aveva un piccolo cappello a cencio, spiovente sul volto scarno e sconvolto. Pareva una rovina umana, e sembrava impossibile che un pensiero, così aspro e forte, un’azione così potentemente crudele fossero venute da lui.»
I passi dei visitatori non avevano risonanza, soffocati dal terriccio molle del suolo, ed un alito freddo, come di sepoltura, partiva dal fondo cieco del cunicolo abbandonato.
Viviana sostò un istante e si appoggiò alla parete. Era pallidissima.
– Perchè siamo qui venuti?... – mormorò. Vollero riaccompagnarla fuori, ma si ostinò. Il mistero orrido aveva una specie di fascino su di lei, si sentiva come trascinata verso la mèta.
– Ho provato anch’io un po’ di questo sgomento, le prime volte, – disse Mario guardandola in volto, – perchè certe forme del male non appartengono più alla nostra stirpe. Esse sono come i residui di una vita molto antica e lontana, che abbiamo dimenticato.
Egli provava una specie di gioia acre nel vederla così pallida e debole, tanto che le sembrava alla mercè della sua forza consapevole e scettica. Pensava che se egli avesse potuto prenderla per le mani tremanti e fredde, ed alitarle la sua passione sul volto, essa non avrebbe potuto resistergli, e si sarebbe abbandonata alle sue braccia come a quelle di un nuotatore vigoroso, nel terrore di un naufragio.
Monaldo, nel suo bel volto sereno e malinconico aveva una lieve espressione di disgusto angoscioso, tutto ciò non era perbene: Egli sentiva la vecchia e meticolosa anima borghese della sua società ribellarsi a quell’atto eccentrico, si trovava come in un luogo d’esilio da tutto se stesso, e faceva un vero sforzo sui suoi nervi per tollerare l’aspetto reale della tragedia. Solo Anna pareva calma. I suoi occhi si aprivano ampiamente nelle tenebre.
Qualche cosa dell’animo suo si abbeverava di quelle cose atroci e tristi. Essa era forse l’unica in cui i residui della vita molto antica e lontana non fossero del tutto periti.
Proseguirono ancora un poco, tacendo, e come ascoltando i palpiti profondi del cuore, nell’oscurità in cui la luce vacillante della lampada proiettava ombre fuggevoli, in una danza scomposta di forme agitate.
– Ecco! – disse il guardiano, arrestandosi.
Era una cripta alta e vasta. I picconi dei minatori avevano lasciato migliaia di piccoli solchi, come rughe terrose, nella massa dura del tufo. Nel mezzo era una fossa ancora aperta, quella da cui era stata estratta la vittima.
Mario sostò sul ciglio di essa e incominciò a narrare. La sua voce metallica aveva delle durezze inesorabili, come la parola di un giustiziere.
E la scena riappariva agli occhi esterrefatti dei visitatori, come in una evocazione.
Essi sentivano quasi il tonfo sordo delle zappe nella terra indurita, e vedevano il matricida pallidissimo, gli occhi sbarrati sull’enorme abisso della sua anima piena d’urla e di sgomenti, man mano che la terra lentamente si apriva alla spaventosa rivelazione.
– Quando apparve un braccio del cadavere – disse lentamente Mario, guardando Viviana, i cui occhi smarriti lo fissavano con una muta implorazione, – quando apparve il braccio, una povera cosa annerita e deforme, il matricida aprì smisuratamente gli occhi, fece per fuggire, tantochè le guardie dovettero colluttarsi con lui per trattenerlo, emise tali urla che tutta la cava ne fu piena.
«Egli fuggiva davanti alla propria anima che, io credo, doveva rassomigliare a quell’orrendo cadavere. Io ho provato molte cose tristi, ma non ho mai udito qualcosa che rassomigliasse a quel grido di terrore».
Mario tacque. Si era fatto, intorno, un silenzio sepolcrale, ma i visitatori udivano ancora, vagante nell’aria, un’eco sperduta di quel grido di terrore».
...Tornarono in silenzio con un muto senso di sollievo, ma quando furono all’uscita ebbero una sgradita sorpresa. Una pioggerella lenta ed uguale cadeva sulla campagna, facendo ondulare le vette alte dei finocchi selvatici.
Bisognò mandare il guardiano fino sulla via a cercare una vettura, perchè tentasse di giungere a loro attraverso i campi. Anna volle affrontate la pioggia, ma dovette ripararsi sotto un rudero, una specie di bizzarro monolito, pendente, ove Monaldo la raggiunse.
Mario e Viviana rimasero all’entrata della cava. Viviana s’era appoggiata alla parete, ancora piena di sgomento, ed i suoi occhi si volgevano ogni tanto all’oscurità, come attratti da un fascino crudele.
Tutto il suo essere fremeva ancora, al contatto dell’orrido mistero sfiorato. E Mario, ancora una volta, ebbe il presagio confuso della sua intensa femminilità.
Il terrore le aveva tolta la sua austerità, era così donna, così deliziosamente debole e perduta, che egli sentì accendersi nelle vene un fosco desiderio di preda. Inavvertitamente si curvò su di lei ed ebbe un sospiro affannoso. La donna levò gli occhi su di lui e lo comprese.
In quel momento essi erano stranamente soli. Tuttociò che li circondava era come un paese straniero, abitato da immagini mute. Il cielo era freddo e pallido e gli odori acri della campagna, abbeverata di pioggia, li investivano come la brezza dell’alto mare.
Per un istante, un istante che a Mario Garbini sembrò ampio e profondo come un secolo vissuto da tutta l’umanità, egli vide la possibilità reale della vittoria passare negli occhi della donna, ed essa tremare come sotto l’imminente tocco della sua mano.
Anna e Monaldo non erano visibili, la campagna era solitaria... Mario prese lentamente la mano di Viviana e la portò alle labbra.
La sentì gelida e molle di sudore, ma ad un tratto la mano si ritrasse con violenza.
Essa indietreggiò d’un passo e per un momento il suo volto riassunse tutta la severità sdegnosa della sua bellezza austera. Ma, in quell’attimo di sgomento, i suoi occhi avevano detto qualcosa che le parole non potevano cancellare. Essa lo intese, e tacque.
– Non mi respingete – mormorò Mario – voi potete spezzarmi come un fuscello, io vi ho offeso, lo so, ma non posso essere che vostro, ed amarvi, non vi discuto, vi soggiaccio, sono cosa vostra, fate di me quello che volete...Ditemi di morire o di vivere...
E la guardò negli occhi, con una così viva ed aspra fiamma di desiderio, di fede e di volontà, che essa ebbe un impercettibile sorriso, qualcosa come una fuggevole luce interiore, che si spense subito.
E, come egli seguitava a guardarla, implorando con gli occhi, essa mormorò sommessamente:
– Vi perdono.
La vettura si avvicinava, avanzando a fatica sul terreno molle del prato; essa fuggì e la raggiunse.
Il ritorno fu quasi gaio, essi provarono una specie di indefinibile sollievo, ritornando verso la vita, la vita tiepida e garbata della città dopo quella escursione nelle tenebre. Erano come esuli che ritornassero in patria.
Parlarono di altre cose, di una prima rappresentazione imminente, di uno scandalo mondano, e man mano che la città moderna e corretta si apriva innanzi a loro, coi suoi palazzi dalle mostre luminose, Viviana riprendeva la sua impassibile dignità di bellezza scultorea e Monaldo il suo fine sorriso consapevole.
Mario ebbe la sensazione che soltanto Anna, soltanto quegli occhi profondi e quasi perversi, rappresentassero in quel piccolo gruppo di persone per bene, trascinato di corsa attraverso la città luminosa e operosa, rappresentassero un mondo lontano e dimenticato.
Vi fu una sola allusione a ciò che avevano veduto.
– Ed ora, – domandò Anna, – egli è in carcere?...
– Sì, – rispose Mario, – per sempre.
La terribile parola non fece impressione a nessuno, solo Monaldo chinò la bella testa pensosa e disse freddamente:
– È giusto.