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Monaldo Gavarni discendeva la gradinata di Trinità dei Monti, e malgrado la serenità tranquilla del pomeriggio autunnale, aveva nel cuore un vago malessere.
Per la prima volta il cielo normale della sua vita urtava in un ostacolo, nell’ostacolo di un’altra volontà.
Monaldo Gavarni aveva avuto un certo numero di avventure nelle quali si era comportato naturalmente, con uno squisito sentimento di cavalleria. Aveva offerto il suo cuore con la grazia nobile con cui offriva un mazzolino di fiori ad una signora, e, allo scioglimento d’un breve intreccio amoroso, aveva riaccompagnata correttamente la dama al suo posto, come dopo una figura di cotillon.
Tuttociò era stato sobrio, elegante e corretto, come il resto della sua vita. Appassionarsi per una di queste amanti per bene, farle per esempio una scena di gelosia, gli sarebbe sembrato scorretto e villano come il bestemmiare in società.
Del resto, anche in questo il suo esteriore lo aveva aiutato moltissimo. Quando diceva ad una di queste transitorie compagne: «Mia piccola amica, dobbiamo lasciarci», il pallore austero del suo volto, la stanchezza malinconica dello sguardo, quel certo non so che di dolcemente fatale che era nel suo sorriso, facevano sì che la piccola amica pensasse: «È necessario, è fatale!».
Stavolta era avvenuto un fatto nuovo. Già, a dire il vero, Anna Guinizelli non era stata mai per lui un’amante come tutte le altre.
Fin dal principio, fin da quando ella aveva acconsentito, col suo riso ambiguo e quasi sofferente, egli aveva inteso che non la intendeva neppur tutta.
C’era qualcosa in lei che gli sfuggiva nel modo più assoluto, qualcosa come un’ombra enorme che egli vedeva fuggirsi innanzi e che non poteva raggiungere.
Tuttavia egli sentiva di averla fortemente avvinta a lui, ma in un modo bizzarro, come un essere sconosciuto afferrato nell’ombra per una ciocca di capelli e trattenuto a forza.
Era stato stupito egli stesso della facilità con cui ella lo aveva lasciato trionfare, malgrado la sua inesorabilità verso altri, ed era stato stupito anche di non trovare in lei nulla di quel temperamento demoniaco di cui la leggenda l’accusava.
Era un’amica dolce e rassegnata, che a volte gli prendeva la bella testa pensosa fra le mani e lo guardava negli occhi, fino in fondo all’anima, con un rimpianto accorato, con una intensità di affetto e di angoscia tali, che a volte egli si domandava se Anna non amasse in lui il ricordo di un altro uomo, irreparabilmente perduto.
A volte invece essa aveva un sottil riso ironico che egli non sapeva spiegarsi: pareva la traccia beffarda di un’altra epoca, di un’epoca di fango e di vergogna, e in quei momenti si sarebbe potuto credere che la sua bocca fosse stata capace di parlare con un bizzarro accento canagliesco.
Monaldo aveva finito col provare verso di lei una specie di paura sospettosa. Tutta la pacifica indolenza nascosta sotto la casacca del moschettiere si agitava e raccapricciava all’idea delle passioni acri e della lotta. Intuiva in lei qualcosa di estraneo al suo ambiente ed ai suoi costumi, diffidava del suo riso ironico e delle fiamme gialle che passavano in fondo ai suoi occhi.
Talvolta gli veniva in mente che vi fosse in lei come un nido di serpi, capaci di destarsi tutti in una volta ed a gettarsi furiosamente sul nemico, e tremava.
Così un giorno, egli le porse il braccio per riaccompagnarla al suo posto, col bel gesto corretto e gentile di una letterina affettuosa.
Ed essa si ribellò.
Era un mese che questa donna dalla bellezza terribile, per cui si erano accese passioni furenti, lo perseguitava con l’umiltà affannosa delle sue preghiere. C’era nella sua sottomissione il rimpianto amaro di una creatura che si sente sconfitta, che si sentiva in lei una convinzione limpidamente riconosciuta, di non poter fare diversamente!
Ed egli aveva accettato l’ultimo convegno con un segreto spavento.
Non diffidava di se stesso perchè si sentiva abbastanza forte per vincere. I suoi sensi erano calmi, e l’idea di una passione senza fine, il miraggio di questo rogo unico, in cui tutta l’anima si accende e fiammeggia perennemente, non solo lo atterriva, ma non era neppure contenuta nei termini della sua psicologia.
Lo spaventava però, vagamente, e quasi fisicamente, la misteriosa presenza della passione, era un specie di gorgone di cui esitava a fissare il volto, per un arcano sgomento della carne. L’aveva veduta in altri come la traccia triste di un morbo interno che non perdona, come il segno d’uno di quei fenomeni per i quali gli uomini si dividono e si qualificano in felici ed infelici. Per lui, tutto ciò che era tormentato e irregolare, aspro e selvaggio, faceva parte di un mondo torbido e non praticabile, di un sottosuolo della vita sociale in cui non bisognava mettere i piedi.
Quindi sostò un istante con esitazione davanti al portone di Anna e salì lentamente le scale.
Il piccolo salottino in cui la cameriera tedesca, muta e impenetrabile come una sfinge, lo fece entrare, gli era ben noto.
La luce entrava attraverso i piccoli cristalli violacei, venati di strie azzurre, come attraverso l’onda immobile di uno stagno, e faceva scintillare negli angoli il bronzo lucido di alcune opere d’arte giapponesi. C’era, in tutto il luogo, una sprezzatura indicibile d’ogni armonia di stile. Gli oggetti si armonizzavano non nelle linee, ma nell’anima delle cose, c’erano dei bronzi orientali che sembravano accampare come selvaggi invasori sul marmo liscio dei mobili empire, e in un angolo una Ebe nuda, di fattura quattrocentesca dalle gambe un po' magre, quasi maschili, ancora tutta rigida nella primitiva tecnica del tempo, metteva la sua grazia trepidante ed ingenua.
Monaldo sedette su un piccolo divano ed attese. Gli aspetti di quel luogo che sembravano disposti per accogliere le meditazioni di un’anima tormentata, quel ripetersi di motivi orientali, in cui è una morbosità di forme che sembra nata dai sogni dell’oppio, quel profumo acuto e snervante che era nell’aria, dava ai suoi nervi una stanchezza quasi triste. Egli aveva fretta, quasi brutalmente fretta di finirla.
Ad un tratto si volse: Anna era entrata. Aveva una vestaglia nera, che chiudeva il suo magnifico corpo come un antico paludamento. Venne silenziosamente vicino a lui e gli prese ambo le mani:
– Ho voluto – disse con voce tremante e sommessa – ho voluto che tu venissi da me, per vederti ancora. Non mi domandare ciò che io voglio da te. Voglio tutto e nulla. Ho bisogno di vederti e di esserti vicina, e mi morderei le mani per non potermi difendere da questa necessità, che è più forte di me. Vedi? Io so di essere amata, lo sono stata ardentemente, quasi terribilmente ho veduto tutti i tormenti della disperazione negli occhi degli uomini e non ho mai subito questo contagio. Ora io mi sento umile e vile come una schiava battuta.
«Non saprei trovare molte parole tortuose per dirti la mia miseria e la mia viltà, non sono dotta nelle arti di avvincere un uomo che mi sfugge, non saprei trovare un eufemismo per raccomandarmi a te senza sentire la mia miseria salirmi alla gola ogni secondo. Vedi... io sono stata, per gli uomini, una regina. Ho avute tutte le imperiosità ed anche tutte le crudeltà, ho dominato, ora sono vinta, sono la tua ancella, non mi abbandonare.
E lentamente, sollevò le mani di lui fino al suo volto ardente.
– Anna – disse sommessamente, con tristezza, – ciò che avviene doveva necessariamente avvenire, il nostro amore è stato come una strofa di poesia, se noi incatenassimo le nostre esistenze esso sarebbe veramente una cosa triste e pallida, sarebbe la storia malinconica di tutti gli affetti che si trascinano alla lunga, fuori della legge, saremmo due poveri zingari del sentimento.
Abbiamo il coraggio di lasciarci ora che nel lasciarci, spezziamo un legame degno di noi, l’amore dai tentacoli flaccidi dell’abitudine, c’inganneremmo a vicenda e non ci sapremmo staccare. Siamo forti.
Egli era sincero, aveva avuto orrore di quella lenta degenerazione del piacere e dell’affetto, in cui tutto sfiorisce ed impallidisce, e di ogni amore aveva goduto soltanto la primavera. Fortuna commerciale che capita soltanto agli uomini in cui è poca profondità di sentimento.
Anna scosse tristemente il capo.
– Non mi intendi – disse con voce cupa – io e te siamo di due razze differenti. Io sono un episodio della tua vita, tu se la mia vita, ogni tuo pensiero vede il domani, e misura le ore ed il tempo della felicità. Tu non mi hai amato mai poi che puoi vedere il fine dell’amore.
«Io vedo la tua anima chiaramente, vedo la tua nobiltà e quel tanto di fango che è in tutti, vi sono in te elementi che mi farebbero soffrire, sempre, perchè io non ho mai inteso le nostre voci fondersi in una nota sola, tu non sai amare come io amo, eppure io non ho mai domandato al tuo cuore ciò che il mio poteva darti.
«Io so una sola cosa: ho bisogno di te, tu sei nel mio sangue, io ti sento in me come una speranza e come una gioia della carne e dello spirito, non posso pensare e perderti senza inorridire in tutte le mie fibre come all’idea delle tenebre e della morte, ciò che avviene in me è un fatto che non si definisce e non si misura.
«Tu dici: – Siamo forti – Si può essere forti quando si lotta; io non so, non voglio lottare; sono già vinta trascinata da te. Fa di me ciò che vuoi, avviliscimi, insultami, fammi sentire tutta la profondità della mia caduta, trattami come una meretrice, ma non mi abbandonare!...
Monaldo aveva corrugata la fronte; vedeva ora chiaramente negli occhi e nel volto della donna una fosca minaccia: comprendeva che nel profondo di quell’anima oscura elementi di passione si raccoglievano tumultuosamente, e più la sua voce si accendeva più i suoi occhi fiammeggiavano, più egli la sentiva lontana e incomprensibile, più la sua solida anima, rigidamente sagomata dalle leggi che regolano i più, rabbrividiva al contatto di quella stupenda e mostruosa eccezione.
– Eppure, disse con voce quasi dura, ciò è necessario Anna, abbiamo commesso tutti e due una colpa. Rientriamo in noi.
Essa ebbe uno scoppio stridulo di risa disperate, le sue mani lacerarono convulsamente il fazzoletto di trine che serravano.
– Una colpa!...esclamò... una colpa!... Sei dunque uno schiavo?...
«Tutto il tuo essere è dominato ed asservito, tutto l’animo tuo dipende dalle parole degli altri, tu non senti, come me, l’anima libera in un mare di fuoco, non senti una voce sola dominarla ed empirla tutta del suo suono e della sua passione. Io sono una cosa sola con il mio amore che è grande come il sole e come la notte, che riempie per me tutto il mondo, che non ha ragione e non ha fine.
«Non mi respingere, tu non sai che cosa vorrebbe dire gettare lo sgomento della disperazione in un’anima come la mia. Io non ho leggi.
«Guardami, guarda il mio viso ed i miei occhi. Tu devi intendermi; c’è in essi qualcosa che tu non hai vissuto mai. Io non sono della tua stirpe, io posso fare qualunque cosa, io non vedo il delitto in un altro mondo, non ho che la mia passione che è la mia padrona, e può uccidere e farmi uccidere. Non ho mai comandato ad essa, ma fa di me ciò che vuole! Non mi sospingere oltre il mio destino!...
Gli occhi della donna, quegli strani occhi dal riflesso immobile e profondo, ardevano di una luce selvaggia, le sue mani tremavano ad un anelito convulso ed aspro.
Ora essa rivelava lentamente il fondo del suo spirito. Tutti i suoi lineamenti dicevano quello che diceva la sua parola. Essa era l’ancella della sua passione; lo era sempre stata. Non doveva aver rifiutato un brivido di voluttà, delle più perverse voluttà del suo corpo vibrante.
Monaldo tacque un istante. Egli provava una specie di terrore fascinante, vedeva in confuso un abisso verso il quale essa lo attraeva...
– Monaldo, riprese essa con dolcezza stanca – tu mi lascerai. È possibile ciò?... Io verrei ogni giorno qui, vedrei tutte le cose che tu hai vedute, che hai toccate, ad ognuna delle quali è legato il tuo ricordo, ti sentirei in me in tutti i miei sgomenti, in tutti i miei ricordi, e potrei dimenticarti?
La sua voce si era fatta dolcissima, era come una musica sommessa, che venisse da un mondo sovrumano, attraverso la vestaglia scomposta le sue carni palpitavano di un pallore divino e tutto il suo essere acceso in una suprema febbre di passione emanava una quasi visibile forza di fascino.
– Vieni qui, come un volta, posa la testa sul mio petto, fammi gioire e soffrire, prendimi, io sarò tutta tua, terribilmente tua, nessuna donna avrà per te ciò che io saprò creare per la tua gioia. Tu non sai... tu non sai... io sono una fonte di voluttà, tu berrai fino all’ultima stilla come se tu bevessi il mio sangue e mi facessi morire di una stanchezza senza nome, in una febbre ardente, vieni...
Le braccia di lei candide e nude uscirono dalla vestaglia e gli circondarono il collo: egli vide come in un sogno stupendo e terribile, la promessa paradisiaca confermarsi nelle labbra umide e frementi, l’alito caldo di lei lo investì pian piano, accendendogli il volto, e ad un tratto egli vide con evidenza spaventevole ciò che era per avvenire, intuì il dominio perverso e distruggitore sotto cui cadeva: quella miracolosa celebrazione di voluttà gli apparve in tutta la sua ampiezza possente e tragica, la sua carne, il suo cuore, la sua mente tutto ebbe paura. Ebbe paura come un bimbo, o come un soldato vile, in un panico folle, poichè tutto l’istintivo spavento dell’uomo dinanzi alla sua gioconda nemica, che lo abbevera di gioia e lo uccide gli corse nell’animo rievocando terrori sepolti, ebbe paura come un povero borghese grasso e pacifico scaraventato tra i colpi immani degli eroi ignudi di una battaglia di Omero, e la respinse brutalmente, mormorando sgomentato:
Essa tacque e d’un tratto divenne pallidissima, come se tutto il sangue le fosse affluito al cuore.
Le sue ciglia battettero un istante come se si ridestassero da un sogno, lo guardò con uno sguardo fresco e gli gridò con voce aspra e plebea:
– Vigliacco!...
La donna, la donna dalle origini ignote, entrata nel mondo con il passaporto della bellezza, erompeva in lei.
– Vigliacco! Sì, vigliacco, ripetè, tu hai paura. Non parlare, non scolparti, non aggiungere nulla. Io ti vedo e ti so. Sei un’anima pezzente. Ti disprezzo come disprezzo tutto il tuo mondo falso e ladro. Tu non mi inganni, io vedo dietro la bella maschera del tuo volto, tutta la tua povertà! Io ti desidero e detesto come una meretrice il suo ganzo, ti voglio e ti avrò dovessi ucciderti e uccidermi!...
Monaldo la interruppe, una sorda irritazione lo prendeva tutto, si sentiva ormai disgustato e l’idea di essere stato in procinto di cadere sotto la infernale suggestione di lei, lo sconvolgeva di un inesprimibile raccapriccio.
– Basta, esclamò, voi potete disprezzare voi stessa non me nè la mia società. Avete ben detto, siete di un’altra stirpe, vivete sotto un’altra legge, o vi avete vissuto. Io debbo a me stesso ed alla donna che porta il mio nome maggior rispetto. Addio...
Anna lo afferrò per il polso contenta forse che egli sentisse le dita gracili e sottili penetrargli nelle carni.
– No, ripetè con voce vibrante, non te ne andrai così. La tua società, la donna che porta il tuo nome...
– Ma tu non sai nulla, ma tu vivi nelle tenebre! Io ho vissuto sotto un’altra legge.
– È vero vuoi saperlo? Io so che ciò si è vociferato. È vero, sì, io sono una furia, io sono, o sono stata, ciò che i tuoi sensi non saprebbero neppure immaginare, io conosco tutto, ho provato tutto, ho fatto della mia carne e dell’anima mia una arpa prodigiosa su cui s’intonarono tutte le furie dell’uragano. Vuoi saperlo? Sì, è vero, non vi è lembo di me che non sia stato contaminato, che non abbia esultato o sofferto sotto il tormento della voluttà. Ed io ho voluto essere per te tutto ciò che tu volevi, un’amante casta, e tu ti sei saziato di me, un’amante quale io sono e tu hai avuto paura: sei una povera creatura flaccida e vile!
Ella si lasciò cadere sul divano, le mani candide abbandonate sulla vestaglia nera, un pallore ed uno sgomento febbrile nel volto.
Si sarebbe detto che essa sognava. A dì là del limite di tensione che l’animo può tollerare, essa era precipitata in uno stato quasi ipnotico. Le sue labbra mormoravano delle parole vaghe e brutali, come un rigurgitare di veleni assorbiti da tempo. Aveva il sorriso ebete e triste di una povera meretrice in caccia di amore.
– È vero, riprese con una voce stanca e malinconica, che pareva venire di lontano come la voce dei morenti. È vero, io sono un orribile fantasma di me stessa, sono una donna che mette paura. Povero demente!...Egli dice: il suo mondo, il suo cuore, la sua donna!... la sua donna!...Essa non ha la mia fibra, è una povera creatura che si piega docilmente, è corrotta senza passione, con una vile volontà di godere. È stata la mia compagna, la mia misteriosa compagna!...
Monaldo ebbe un moto di spavento e di rabbia. Egli si curvò sulla donna, l’afferrò a sua volta per i polsi e le gridò: Tacete, infame, tacete!... Non mi obbligate a soffocarvi la voce in gola. Voi mi fate ribrezzo, mentite come una prostituta!...
Essa non si riscosse, levò la fronte verso di lui. E gli piantò gli occhi in viso, con uno sguardo freddo e cattivo.
– No, riprese, non tacerò!... Essa non è migliore di me. Ciò che fu detto è vero. C’è un piccolo luogo in Roma, che potrebbe farti rabbrividire, se parlasse.
«Siamo tutti d’un fango, tu, io e lei siamo la stessa putredine. Non mi puoi disprezzare senza disprezzarla. Non mi credi?... aggiunse vedendo l’infinito disgusto che si dipingeva sul volto di Monaldo. Essa ha le mie lettere, io ho le sue!... Il mio piccolo dossier amoroso!...
E con un moto fulmineo si divincolò dalle sue mani, corse ad uno stipo, lo aprì con mano fremente. Egli udì il rumore secco di una molla che scattava.
Anna gli gettò un fascetto di lettere legate con un nastro azzurro, sul tavolo. Quindi lentamente, vacillando, come stupefatta dell’orribile cosa commessa, pallida sulla veste nera, come un cadavere esangue, essa uscì.