Luigi Lucatelli
Athos
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Capitolo VI L’abisso

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Capitolo VI
L’abisso

Monaldo rimase solo. Il fascio di carte era sul tavolo, innanzi a lui, e quella piccola forma quadrata e bianca gli rimase lungamente fitta negli occhi, come certe immagini fulmineamente intravvedute in una rapida corsa.

Per un istante egli pensò di respingere l’offerta obbrobriosa con la mano e di andarsene. Poteva egli offendere tuttociò che era di più rispettabile in lui, col solo dubbio?

Pensò nitidamente che questo era il suo dovere e che le infamie che egli aveva udito non meritavano altra risposta.

Poi come se la sua mano ubbidisse ad un’altra voce che non aveva parlato, ma che era più forte, afferrò il pacco di lettere, se lo mise in tasca e fuggì come un ladro.

Aveva fretta, una fretta maligna e febbrile, un desiderio impetuoso di levarsi di dosso qualcosa di tedioso e di repulsivo, come una veste fredda e bagnata, che gli tormentasse le carni. Discese le scale in fretta ed entrò nel primo caffè che gli si parò innanzi. Il luogo era quasi deserto, egli si rifugiò in un angolo, trasse di tasca le lettere, e, tremante, anelante, ruppe il nastrino che le legava.

Un gelo mortale gli corse per tutte le vene. Egli conosceva bene quei caratteri allungati e sottili, quella scrittura soffice e sinuosa, come la molle pronunzia veneziana di sua moglie. Per alcuni secondi non gli fu possibile leggere: Una parola stupida e insignificante su cui gli occhi si erano fermati a caso, la parola «certamente» gli fiammeggiava innanzi agli occhi con le sue lettere sottili e curve, agganciate l’una all’altra sul fondo perlaceo della carta, ed egli provava un senso di orrore all’idea che innanzi ed oltre quella parola stupida, una serie interminata di piccoli segni sottili conteneva una cosa orrenda e indefinibile, la fine di un mondo.

Macchinalmente, premendosi le tempie per non farle scoppiare sotto la veemente rincorsa del sangue, egli lesse l’intero periodo: «Sarò certamente domani dove tu sai e condurrò chi tu dici».

Da quel momento egli agì come nella penombra fantastica di un sogno: le mani tremanti, le fauci aride egli sfogliò lungamente le lievi carte insidiose, leggendo così fuori di e del mondo che gli sembrava di leggere cose che riguardassero altra persona, di compiere un dovere penoso per conto di un altro, con la certezza che in fondo alla sua lettura egli avrebbe trovato una cosa ignota e spaventevole.

Tutte le facoltà di sentire e di pensare si erano stranamente sconvolte in lui, riassumendosi in una sensazione vaga di silenzio sepolcrale, in cui le parole cadevano ritmicamente con toni sordi come in uno specchio di acqua morta e pesante. Ciò che egli intendeva era orrendo ed indiscutibile come la morte.

Non seppe e non potè mai più ricordare il testo completo di una di quelle lettere; gli rimase in mente quell’ondeggiare di segni eleganti e docili un po' chinati come se una volontà acre e più forte gli curvasse sotto il suo soffio ardente. C’erano delle frasi inesplicabili: «Vestiremo da uomo Bibi». «Non siamo riusciti». E delle altre che lasciavano intravvedere un mondo osceno e torbido, come attraverso un improvviso aprirsi e richiudersi di una cortina.

«Ho dato ancora del denaro a Claudio», è intollerabile. «Ho fatto come tu dici, ma mi sembra un po' forte». «È finito tutto, non amo le busse». «Avrò la veste ametista che ti piace tanto».

Egli ebbe per un istante la sensazione di un violento capogiro. Ciò che era non poteva essere. La realtà urtava con tanta violenza contro ciò che egli aveva sempre veduto e creduto che egli non riusciva ad afferrare i lembi delle proprie idee oscillanti e cozzanti nel vuoto. C’era una così orrenda materialità in tutto ciò che egli vedeva, un tale crollo di forme austere e candide, una tale irruzione di immagini turpi e barbare nella pace del suo spirito che due o tre volte egli coprì il foglio con le mani madide di sudore per non leggere.

Alle volte invece lo prendeva una curiosità atroce che gli faceva scandire le parole con furia febbrile. Sì, ciò che egli leggeva era vero, ciò era accaduto, quelle linee di segni neri erano la testimonianza di un mondo spaventevole, orrido, che in ogni suo atto lo offendeva, lo infangava, torceva fino al delirio la sua facoltà di soffrire.

Il culto placido e molle delle apparenze aveva steso una superficie candidamente austera sull’esterno, e l’anima, l’anima vera nata per il piacere e per il dolore si era terribilmente deformata sotto quella superficie pallida e nobile.

Un fenomeno silenzioso si era maturato sotto la luce eguale dei lampadari, nel silenzio dignitoso della casa ricca e rispettata. Lo sdoppiamento normale della vita borghese aveva creato questo capolavoro di mostruosità. L’essere esteriore plasmato sotto le norme altrui, voluto in tutte le sue linee dalla società pedante e minuziosa, sui dettami della poesia e del romanzo, e l’essere interno che era cresciuto fuori della legge, torcendo e ritorcendo i suoi rami intorno a tutto ciò che aveva trovato come un’edera selvaggia.

L’anima vera non era stata raggiunta mai; dal dettame della fede, da quello del costume, che vi si erano incrostati sopra come una impenetrabile lorica, nessuna delle voci ipocrite, falsate da secoli di convenzionalismo, aveva raggiunto la fibra a cui era diretta e che doveva incatenare e domare, la parola che insegnava la castità, non aveva raggiunto la fibra dell’amore, non era intonata con essa, era una parola gelida borbottata come una preghiera in latino sulle labbra di un ignorante, e la verità nuda e terribile dei sensi che vogliono godere e soffrire, perchè tale è la loro legge, si era creata da deformandosi e fiorendo in fiori mostruosi.

Ciò era avvenuto. Nessuna forza umana poteva fare che il fatto non fosse tale.

Monaldo levò gli occhi, e guardò intorno. Era un piccolo luogo antiquato, dalle pareti stinte, inquadrate nella pezzente sontuosità delle bacchette dorate.

L’odore freddo e grasso della cucina lo prese alla gola. Gli parve d’essere tutto coperto di fango e di vergogna, eppure ebbe paura di muoversi. Sentiva che, dal momento in cui si sarebbe alzato da quel tavolo sudicio, sarebbe cominciato un altro ciclo della sua vita. E, per un istante, ebbe l’idea pazza di rimanere laggiù, nascosto, abbrutito davanti a quelle cose flaccide e stupide, per non vedere e non udire.

Egli si domandò: Che fare?... E, a questa domanda si avvide con spavento, che una voce, in lui, non aveva parlato: il cuore.

Egli provava un dolore di carattere quasi fisico. Come un uomo che avesse perduto il senso della propria posizione nello spazio egli soffriva una vertigine intollerabile.

Nell’equilibrio delle proprie facoltà si era infranto qualcosa che non riusciva a riconnettersi nelle sue parti. Soprattutto, egli non riusciva a convincersi che lo stesso uomo di poche ore fa. Il quale si sentiva così profondamente padrone di e degli avvenimenti che lo circondavano, ne fosse ora così violentemente travolto e insozzato.

Ciò era tanto lontano da lui, che egli non lo intendeva completamente, era una lingua estranea al suo spirito, un capovolgimento così completo di tutte le sue ragioni d’essere e di sentire, che rabbrividiva ancora di terrore.

Gli pareva di non aver ancora sviscerato il proprio dolore e che quella enorme nube nera si sarebbe ancora aperta per partorire nuove cose immani e turpi.

Ma era il suo cervello, il suo organismo intellettuale e morale che soffriva. Egli non sentiva quella lacerazione minuta ed insaziabile di tutte le viscere, quella furia calda e veemente che parte dai sentimenti contaminati.

Non sentiva la necessità di gettarsi sopra un essere umano, ma provava una specie di terrore pazzo contro questa cosa impersonale ed enorme che era caduta su di lui. E si sentiva solo, smisuratamente solo. L’educazione che aveva ricevuto non gli forniva nessuna arma per difendersi. Pensò a Dio. Ma il buon Dio dei buoni borghesi gli parve lontano come lui da questa cosa oscena, empia e tragica.

Era un buon Dio accomodante e pacifico, come un buon prete di campagna, dalla faccia rotonda, alieno dagli impicci, giuocatore di scopone e consumatore di tabacco. Non aveva più fulmini, lampi, tanto le novelle morbide dei romanzieri per bene e le transazioni grassottelle dei salotti lo avevano ammollito.

Pensò alla società ed alla legge, ed ebbe un senso di ribellione disperata contro il pregiudizio sociale che colpiva più lui che i colpevoli, contro l’immensa risata che intuiva in tutta quella folla corretta e per bene.

Improvvisamente, come per un balzo fulmineo del proprio essere, come se egli fosse divenuto d’un colpo lo spettatore di stesso, egli rabbrividì di paura, di spasimo, di disperazione.

Ma Athos, Athos, il moschettiere fatale, dal volto pallido e dai profondi occhi inesorabili, l’uomo che aveva forse, una notte lontana, terribilmente amato o terribilmente odiato, dov’era?...

Non c’era. Non c’era nulla di lui.

Egli era un poveruomo disgraziato, un cornuto qualunque.

E la parola oscena gli risuonò nel cuore come il rumore di uno schiaffo dato sulla gota piena e bonacciona di un povero diavolo senza coraggio.

La mascherata della sua vita, magnificamente riuscita per il pubblico convenzionale della sua società, per la filodrammatica borghese, che l’aveva applaudito fino a allora, finiva tra i fischi della canaglia in un teatro enorme.

Con mano tremante afferrò il bicchiere che gli avevano posto innanzi, e bevve un liquido amaro e bruciante, senza saper che fosse. Accennò che gli riempissero il bicchiere.

Il «tue-là» che egli aveva tante volte affermato, con un fine sorriso, nei circoli per bene della sua società, che suonava così a posto sulla sua bocca ferma e perfetta, a segno che le donne lo guardavano con un leggiero brivido, attratte dalla romantica voluttà del terrore, gli sembrava una parola senza senso.

Gli pareva d’aver fino allora parlato una lingua straniera, recitato meccanicamente una parte non sua, ed ora che il proprio discorso gli era tradotto in un idioma intelligibile, ora che comprendeva il mostruoso impegno assunto col gesto abituale della sua vita, la cosa gli sembrava così lontana ed inverosimile che un riso amaro gli venne alle labbra.

Uccidere, per lui, era quel gesto corretto e geniale che faceva lampeggiare le spade sulla scena, e fra le righe dei romanzi, ma uccidere davvero, prendere un’arma, forare la pelle di una persona, udire le strida rauche del ferito, vedere un’onda di sangue caldo sgorgare, compiere tutte queste cose, egli, con le sue mani bianche e pulite, con la sua redingote nuova, con le sue abitudini ordinate!...

Impossibile!... Cosa vogliono costoro? Balbettò sommessamente, come se si sentisse sospingere da molte mani screanzate e violente all’orlo di un precipizio.

Bevve ancora, senza che egli se ne avvedesse; la fiamma dell’alcool gli accendeva delle luci calde nello spirito. Aspettava che da un angolo qualunque del suo interno balzasse fuori la belva ruggente che doveva pur esservi. Ma con suo grande stupore, egli non provava che un grande sgomento, una grande malinconia, un avvilimento quasi puerile, all’idea di esser solo davanti al mostro che gli era sorto incontro.

Nessuna aveva preparato l’animo suo a questa solitudine crudele, tutti lo avevano accarezzato e riscaldato, sempre lo avevano preso sul serio, gli avevano foderata la vita di piume e di seta...

La mamma!...oh!...la mamma... e si mise a piangere come un bimbo battuto, sul suo tavolo, nella miseria fredda del caffeuccio deserto, a grandi singhiozzi appassionati.

Poi si asciugò gli occhi e guardò intorno. Per fortuna non l’aveva udito alcuno; ma ebbe ribrezzo del luogo.

Ora rifletteva con calma. Qualcosa c’era in lui, che giustificava l’enorme colpa di sua moglie. Essa era «due persone» come lui.

A lui avevano infilato la casacca del moschettiere, a lei il peplo di una Giunone antica. Di chi era la colpa se la casacca copriva un povero diavolo qualunque, e, il peplo una prostituta?...

Egli aveva avuto il torto di prendere sul serio stesso e lei.

E la sua mente, affinata dallo strazio recente, vedeva profili osceni e grotteschi accennarsi sotto le maschere di tutte le persone che conosceva.

Un istintivo bisogno di superiorità, rimasto in lui per abitudine, dal proprio naufragio, lo fece sorridere sarcasticamente di quella parodia.

Quasi senza avvedersene, studiava un altro atteggiamento da cui seguitare a guardare il mondo dall’alto.

Che fare?... Si domandò. Ma a questa domanda, che lo richiamava al modo d’impiegare il proprio tempo, egli rivide il cantuccio tranquillo del club in cui imperava e l’idea che tutto ciò sarebbe forse finito, che da quel pacchetto di fogli come dalla macchina infernale di un anarchico, era partita l’esplosione che sconvolgeva ogni cosa, ogni tepida dolcezza della sua vita, gli venne una rabbia brutale contro le lettere, e chi gliele aveva date, contro la morale del mondo e della società. È vero, ciò è accaduto e poi?... Esclamò internamente, sporgendo il viso accigliato, come se rispondesse a muso duro ad un impertinente.

Dopo tutto, se ne infischiava. Ora Monaldo Gavarni, ricco e indipendente, avrebbe fatto il comodo suo, non un millimetro di più, di meno, e buona notte.

Si sentiva risoluto e quasi calmo.

Qualcuno sapeva forse qualche cosa?...

No di certo. Anna non avrebbe parlato, e certo rimpiangeva la colossale follia del suo atto, se ne sarebbe andato.

Anche quel certo che di vago e di anonimo che era nella corruzione di sua moglie, facilitava il codardo accomodamento. È più facile perdonare la prostituta, che la donna che ha avuto un amante, il quale si possa vedere e riconoscere tutti i giorni.

Pagò le due bibite e si levò.

Saprò tacere, – mormorò a stesso.

E del suo passato romantico gli rimase la miseria di un sorriso altero con cui coronò questa frase vile.

Ed uscì.


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