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Monaldo camminava senza che una determinata volontà lo guidasse. Gli sembrava quasi di andare sopra un ciglio sottile, a fianco di precipizi che egli non voleva vedere. Come in certe case visitate dalla sventura, c’era nel suo spirito una stanza chiusa dinanzi alla quale passava rabbrividendo.
Comprendeva bene che, un giorno egli avrebbe sentita tutta l’ampiezza del fatto subìto, che un giorno l’avrebbe veduto dinanzi a sè come un enorme cadavere sventrato, in tutto l’orrore delle sue viscere immonde.
Ma ora la ormai connaturata abitudine a rapportare tutti i fatti della sua vita alla società in cui viveva faceva emergere in lui, più che ogni altra cosa, la necessità di mettere questo nuovo elemento in armonia con tutte le sue consuetudini, coi giudizi del mondo, con tutto l’organismo della sua vita sociale.
Come certi ubriachi camminano lungo una fila di ciottoli, preoccupandosi di sembrar diritti e in gamba, egli guardava con stupefazione innanzi a sè, un punto vago e lontano, irrigidendo tutto il suo spirito per sentirsi forte.
D’un tratto all’angolo di una via una carrozza voltò, e due signore che vi erano dentro gli sorrisero con grandissima deferenza, salutandolo.
Una di esse si volse a guardarlo.
Ed egli si sentì di nuovo atterrito.
Era quella la carezza quotidiana e profumata, in cui, da anni, il suo spirito si cullava, era quello il compenso dato, da anni, alla sua bella figura di un altro tempo, un premio d’esser così bello e nobile.
Tutti costoro riverivano in lui l’immagine rievocata di un tempo cavalleresco, l’ombra romanzesca dell’uomo impeccabile, esule in mezzo alla mercantile viltà del secolo.
A patto di esser tale lo avevano celebrato e onorato, e avevano assuefatto il suo spirito a tutti i profumi, a tutte le bellezze, a tutte le carezze.
Egli non poteva nascondere l’ulcera immonda da cui la sua purezza ideale era contaminata, perchè ormai lo comprendeva. Qualcosa di tutto questo fango sarebbe certo trapelata, e non poteva scoprirsi se non intonando il suo gesto alla sua figura.
Si sentì smarrito e vinto: aveva le fauci aride, entrò in un bar e bevve con febbrile esaltazione del wisky, con una brutale volontà di stordirsi, di cacciar via a colpi violenti le ombre che gli si affollavano nel cuore.
Un signore lo salutò e gli tese la mano.
– Che cosa avete Monaldo? Siete pallido come la morte!
Egli strinse la mano all’interlocutore e rispose, nel lasciarlo, con voce tetra:
Senza avvedersene egli aveva parlato secondo il suo altro essere, secondo il mito eroico che avevano insinuato in lui.
Non era possibile, egli non poteva svincolarsi.
Doveva precipitare avvolto nella sua bella casacca ricamata d’oro, o non essere più lui, divenire il superstite fangoso e ridicolo di uno splendore perito.
Egli seguiva la via Nazionale, ampia, luminosa, tutta piena d’una indicibile dolcezza di luci violacee e stanche, sotto il languore un po' freddo di quel tramonto. Qua e là in lontananza, folgorava qualche stella dorata: un fanale di negozio o di vettura che si accendeva. La vita, la vita calda, buona e vibrante della grande città, rompeva con fragore sommesso nel suo petto, come la corrente di un fiume sul petto di un nuotatore. Essa era piena di rumori familiari, di voci consuete, di richiami che il suo orecchio ed il suo cuore conoscevano.
Ed in mezzo a questa folla pacifica e quasi festosa, quell’uomo per bene camminava, lentamente come un forzato, mendicando dalla sua tremante anima la forza di un delitto.
Nel piccolo ambito di quel cervello venivano a cozzo le idee mostruose, si creavano sogni febbrili.
Egli si fermò lungamente davanti ad una vetrina, guardando senza vederli i gioielli lucidi, allineati sulle tavolette foderate di velluto, e dicendosi delle parole infami, evocando con rabbia, le più irritanti scene di amore in cui l’immagine di una moglie era trascinata, calpestata, sconvolta sotto la vergogna di tutte le carezze, accoppiò con questo tormentoso fantasma le persone più laide e più vili; aspettando con ansia che la belva originaria che dorme in ognuno di noi si destasse con un urlo spaventevole e balzasse fuori.
A volte gli sembrava che un calore febbrile incominciasse a corrergli nelle vene, e che la fiamma ampia dello sdegno fosse per scaturire dal suo cuore, ardendogli tutte le fibre e facendo di lui, del suo dolore, della sua vergogna, un solo rogo urlante e sanguigno.
Ma ciò non avveniva. Egli faceva a se stesso, ciò che i toreadores fanno alla vittima, pungendosi e bruciandosi l’anima per fare delle sue viltà uno sdegno fattivo e crudele.
Nulla. Bastava che gli occhi gli cadessero sulle mani; sulle sue mani aristocratiche e fini, inesperte alla violenza, perchè egli si sentisse di nuovo povero e vile.
L’uomo primitivo, quello che la barbarie feudale aveva trasmesso, scintillante di gemme e di piume al romanzo cavalleresco, il magnifico selvaggio omicida nascosto sotto la fine immagine di Athos, era seppellito troppo a fondo sotto la realtà pacifica della sua vita, sotto la consuetudine normale della sua società, in cui il sangue era una mostruosa eccezione, perchè potesse scaturir fuori.
Eppure egli non poteva pensare, senza un intollerabile raccapriccio al tramonto di quest’altro io, così bello, così idolatrato, così festeggiato!...
Si gettò fuori della via principale, si internò in straducce oscure, fiutando l’aria umida che sapeva di pioggia, accelerando il passo perchè l’impeto del movimento gli penetrasse nel sangue e nelle idee; forse bevve ancora, finchè di un tratto, sentì tutto il sangue affluirgli al cuore.
Automaticamente, senza volerlo, era giunto dinanzi alla porta di casa. Era in presenza del suo destino. Non osò entrare, si allontanò un poco, passeggiando fra i platani della via, vacillante, con un ronzio confuso nelle orecchie, perduto sotto uno spasimo così acuto, così triste, così angoscioso, che d’un tratto, sentì come un colpo di staffile sferzargli le reni.
Lo prese una necessità imperiosa indiscutibile, di correre incontro al proprio destino, di naufragare in esso o di superarlo d’un balzo, traversò la via ed entrò nel portone.
Che cosa avrebbe fatto?... Non sapeva bene. Sapeva però che non avrebbe ucciso, i suoi occhi vedevano qualcosa d’indeterminato e di violento, una lama scintillante, il lampo di un’arme da fuoco, qualcosa di chiaro e di fulmineo, che avrebbe coperto la sua sventura, di una scenografia tragica, sentiva il bisogno di pagare in fretta alla società il debito di un bel gesto, e le sue labbra mormorarono confusamente una frase, quella che gli altri, od egli, avrebbero detto: il destino non ha voluto!...
Entrò, la casa era vuota; la servitù era nelle cucine del piano inferiore. In fondo all’andito la porta della camera di sua moglie, leggermente socchiusa, lasciava trapelare una sottil riga di luce.
Egli si avviò barcollando, ed aprì la porta con una spinta.
Sua moglie era seduta innanzi alla toilette, in accappatoio, passando leggermente un piumino sul volto altero e bello
La donna si era rivolta a guardarlo stupefatta del suo pallore mortale.
Egli vide il piccolo neo oscuro sul collo, ed ebbe un aspro senso di irritazione.
Quel segno materiale, che riattaccava alla realtà le immagini provocanti suscitate alcuni momenti prima, lo offese violentemente. Provò un oscuro senso di soddisfazione sentendo un brivido profondo agitarlo tutto...
– Viviana, – egli disse lentamente avanzando verso di lei, – sono venuto a domandarvi che cosa avete fatto del mio onore!
La donna ebbe un piccolo fremito, poi la sua fronte si corrugò ed essa rispose:
– Monaldo non mi avete abituata a simili scherzi: che cosa avete?
Ma in quel momento Monaldo si vide nello specchio di fronte, pallido, i capelli umidi di sudore, veramente terribile nell’angoscia che lo attanagliava, si sentì così in armonia con ciò che diceva ed ebbe un cupo entusiasmo.
– Non scherzo, Viviana! – urlò gettandosi verso di lei, – non scherzo!... Voi avete contaminato il mio nome, travolto me stesso ed il mio onore nel fango, avete fatto strazio di ogni mia dignità: sono venuto a punirvi.
E siccome essa si levava, cercando di drappeggiarsi nella sua dignità offesa, egli trasse le lettere di tasca e gliele gettò sul viso.
– A voi, Anna ha parlato, la vostra complice infame, ha rivelato tutti gli orrori della vostra vergogna!...
E poichè essa fulminata si era abbattuta sulla seggiola e balbettava con voce rauca, nel supremo smarrimento della paura, la folle difesa dei vivi: «Non è vero!... Non è vero!...» egli la vide sotto di sè, così bianca, così debole, così misera, che l’istinto della preda gli nacque nel cuore con gioia crudele, la afferrò per la nuca e la gettò a terra.
Egli sentiva, con una feroce soddisfazione le sue parole, i suoi gesti, armonizzarsi spontaneamente a ciò che egli doveva compiere: era come se recitasse con indicibile slancio una bella parte creata per lui.
– Monaldo, – balbettò la donna abbattuta, raucamente, in un anelito di paura, – lasciami, abbi pietà di me, non è vero!... Ah Dio!... non mi uccidere!...
Essa aveva veduto la mano di Monaldo afferrare una lunga cesoia sull’abbigliatoio, e in tutto il suo essere si dipinse uno sgomento pauroso, un furore di paura così intenso che egli indietreggiò. Ora egli vedeva con chiarezza ciò che sarebbe avvenuto, la fuga, l’inseguimento, le urla acute che avrebbero sconvolto in un fragor tragico la sua sventura, si sentiva agile e forte come in un esercizio ben noto: solo sotto l’affluenza del sangue arso dalla febbre e dall’alcool, le sue vene, pulsavano violentemente, ed una voce nuova, che egli aveva atteso, la voce animatrice del gesto tragico, cantava sul suo spirito ardente una canzone barbara...
D’un tratto i suoi occhi caddero sul letto di Anna, sul suo letto, e contemporaneamente le frasi più turpi delle lettere gli tornarono alla gola come un liquore aspro: «Ho dato ancora dei denari a Claudio!...» Ed allora, d’un colpo, con inaudita violenza, il senso antico e profondo della proprietà, il senso inviolabile della sua stirpe e della sua classe, urlò forsennatamente in lui. Sì, era il suo denaro, la sua donna, la sua roba che era stata contaminata, era il suo avere di felicità e di fortuna che era stato rubato, mani estranee avevano frugato in casa sua, in quella carne sua, e lo avevano svaligiato godendosi la sua parte!
E un senso furente di egoismo, manomesso, il senso belluino che caccia l’uomo all’inseguimento di chi gli ha rubato una cosa qualsiasi come l’inseguimento di una freccia, lo travolse e l’imbestialì.
Egli ebbe, per un istante, la sensazione di spiccare il volo in un mare di fiamme urlanti, e si slanciò su di lei.
Essa fuggì, inciampò, si rialzò, con strida pazze, con quelle grida acute delle donne spaventate, che inaspriscono l’ira degli uomini. Ed egli sentì confusamente in lui la voce tragica estendersi come il clamore di un uragano, tutta la furia dei primi uomini giudici, tuttociò che sopravvive in noi dell’immensa carneficina operata da secoli sui campi del mondo, per un frutto, per una donna, per un pane, si animò, si esaltò, divenne uno strido ed una lingua di fuoco...
Essa si gettò dietro un uscio, egli lo abbattè d’un colpo solo, fu dentro, vide la lama chiara disegnare un semicerchio fulmineo... Ed un silenzio pauroso si fece intorno a lui.
Era una piccola stanza da bagno.
La donna era caduta sull’orlo d’una vasca di marmo, ed una sottil riga di sangue scorreva dalla nuca lentamente.
La belva, evocata con tanto furore, aveva dichiarato il suo impero, era andata oltre la volontà, aveva colpito.
Rapidamente, con un indicibile terrore, egli si curvò su di lei; gli pose la mano sul cuore, gli sollevò le palpebre, ma lo sguardo vitreo ed immobile che vi scorse lo fece indietreggiare.
La piccola lama aveva colpito sotto la nuca, fra le prime due vertebre: il cuore non batteva più.
Egli si guardò intorno, con un rauco grido di terrore, gli occhi dilatati d’uno spavento inumano.
Tutto era come prima. La lampada elettrica dalla campana di vetro roseo metteva una luce dolce, illuminando dei piccoli cristalli da toilette, deposti e delle cortine rosee... Solo, la stella rossa del sangue, che si allargava pian piano, coronandosi di perline purpuree, irradianti.
Egli udì dei passi accorrere nel corridoio.
Ed allora gli parve che una folla enorme, le mani e i bastoni alzati lo inseguisse gridando, ebbe paura. Vertiginosamente, follemente, balzò fuori, rovesciò gli accorrenti e si precipitò in fuga, nella strada fangosa, sotto la pioggia che cominciava a cadere...
Monaldo percorse, correndo, fra gli sguardi meravigliati dei rari passanti, l’ampia via dai filari di platani, fino alle mura Aureliane, attraversò l’arco di Porta Pinciana e si internò, diguazzando coi piedi nelle pozzanghere fangose, in un viottolo oscuro, fiancheggiato da alte case silenziose, e dalle mura di Villa Borghese.
Per un tratto corse affannosamente, provando un sollievo nel sentirsi sferzare la fronte e le mani dalla pioggia fredda che cadeva, nel sentirsi tutto investito dal vento ampio e fragoroso.
Non aveva un’idea netta di ciò che era avvenuto, ma gli sembrava che lo scalpiccìo enorme di una moltitudine lo inseguisse, simile ad un’onda oscura e fangosa, che avrebbe potuto annegarlo. Si sentiva gettato fuori della propria vita, in un baratro senza nome, dove si avvolgeranno forme morbose sconosciute.
– È finita!... – mormorava fra le labbra aride e tremanti.
Due o tre volte si rivolse a guardare paurosamente dietro di sè. Ma la via era deserta, e non s’udiva che uno scroscio sommesso, aspro ed uguale, come se la pioggia cadesse su tutto un mondo abbandonato. Allora si rimetteva in cammino anelando.
Ad un tratto si fermò: non ne poteva più.
Era giunto su di una piccola altura, in un luogo sconosciuto, un viottolo fangoso fiancheggiato da piccole siepi rade, oltre le quali si stendevano prati umidi ed ondulati.
Sotto di lui, non lontano, la città si stendeva, tutta scintillante di lumi nella notte piovosa, avventandogli le mille voci confuse della sua vita.
Ed allora egli ebbe il senso chiaro, limpido, orribile, di ciò che aveva commesso. Egli, con un solo gesto, aveva abbandonata la sponda calma, dolce e tranquilla e si era gettato nella torva corrente; egli era fuori della legge. Tutte le mani tese verso di lui si erano levate minacciose, tutti i sorrisi erano divenuti un cipiglio fosco.
Ebbe, per un istante, l’illusione che da quel mare confuso di case, da quello scintillìo di lumi, partisse un mormorio di minaccia.
Tutto era là: tuttociò che gli aveva accarezzato il cuore, tutta la sua vita, la nobiltà della sua vita cavalleresca, era là, in quelle case ove migliaia e migliaia di uomini parlavano, ridevano, vivevano senza sentire il gelo orribile che egli sentiva in tutto il corpo.
Col freddo dei panni che gli si appiccicavano addosso gli entrò in cuore un avvilimento indicibile, una paura crudele e stupida, e si volse dalla parte opposta. La collina discendeva in una oscurità fredda dove rameggiavano confusamente alberi spogli ed in cui la pioggia perenne ed implacabile si riversava sconsolatamente sulla terra fradicia. Egli scosse la testa con una pesante tristezza di bruto. La città lo respingeva... Gli parve, ad un diguazzamento più forte della pioggia, che qualcuno corresse su per l’erta, dietro a lui, ed allora ebbe paura di nuovo, e si gettò in quelle tenebre, ciecamente.
Ma quando l’ombra lo ebbe ravvolto e lo ebbe fatto suo, da tutte le viscere di quella notte profonda i terrori e gli sgomenti della disperazione corsero su di lui e lo avvinghiarono.
Il senso nudo e primitivo, che urla nelle carni dell’omicida, e le torce sotto lo spasimo senza nome del rimorso, gli scoppiò nel cuore, un raccapriccio pauroso gli fece rizzare i capelli sul capo...
– Io l’ho uccisa!... Io l’ho uccisa!... – urlò nella notte, levando le mani sotto la pioggia, e siccome, qualcosa di enorme e di indefinibile, un galoppo di forme mostruose, precipitava nell’oscurità contro di lui, si rimise a fuggire.
Da quel momento egli fu una ben misera cosa, perduto nell’oceano profondo dell’oscurità, schiaffeggiato dai rami, che lo urtavano, infangato, fradicio, poichè la notte lo aveva assorbito nel suo ventre immondo e fangoso e lo confondeva con tutte le sue orride forme.
I suoi occhi si figgevano nell’oscurità, in cui la sua fantasia intagliava immagini mostruose.
Dei frammenti insignificanti del suo passato gli tornavano alla mente, come nel rigurgito di una fogna, tornano alla luce avanzi deformi della vita. Per un certo tempo pensò con fissità ebete ad un cartellone di rèclame che aveva intravveduto, passando in città: Una enorme figura sozza con la bocca aperta. Quell’immagine grottesca gli si parò innanzi con insistenza: ci fu un momento in cui un ritornello malinconico di canzone popolare gli empì le orecchie, poi ebbe delle allucinazioni. Gli sembrava che ai due lati della sua persona delle serie interminate di esseri simili a lui avanzassero in un semicerchio per la campagna. Sentiva il loro passo uniforme risuonargli nelle orecchie col ritmo del sangue, mentre una voce infernale cantava, cantava un vecchio ritornello quasi lugubre.
Quella voce... quella voce di chi era?... Ah!... ricordava, era la voce di Viviana.
Ed essa si ampliò, si accrebbe, si svolse nella notte con ampiezza smisurata, piena di singulti e di lacrime, finchè egli sentì, vide, con immane spavento, essa, la vittima, avanzare dall’ombra correndo verso di lui.
Ed allora egli precipitò in un delirio affannoso, in uno sgomento simile alla morte.
Pianse, si gettò carponi sulla terra fangosa, si lacerò le mani nei rovi, cadde e si rialzò implorando con gemiti infantili la pietà della notte: Non è vero!... non è vero!... gemette senza requie, percuotendosi la fronte come per strapparsi la macchia orribile che v’era impressa, e l’idea che un solo piccolo gesto lo avesse potuto precipitare così lontano dal suo mondo e dalla sua pace, così lontano che nessuna voce viva giungeva fino a lui, dava alla sua angoscia un senso di sorpresa e di inverosimiglianza indicibile.
Pensò di morire, pensò che egli camminava incontro alla morte e che la morte di un tratto avrebbe confuso la sua pena col silenzio della notte.
Questa idea gli dette un po' di pace, una tranquillità ebete e triste da vittima. Ma di un tratto si sentì mancarsi la terra sotto i piedi, e si avvinghiò disperatamente ad un ciuffo di virgulti.
Sotto di lui, ad una profondità che gli sembrò enorme, l’acqua scorreva gorgogliando.
Egli rimase un istante sospeso, in un raccapriccio indicibile, tutto compreso dell’orrore fisico della morte, senza osar fiatare. Lo sgomento che lo prendeva, ora assorbiva tutta la sua facoltà di sentire e di pensare.
Non morire. Non morire, salvare la sua vita, quel cencio inutile e misero che sormontava nella notte, senza speranza e senza volontà, fu per lui un pensiero così acutamente imperioso come se la sue esistenza fosse stata tutta risplendente di felicità.
A furia di sforzi laboriosi riuscì a risalire l’argine da cui era sdrucciolato e ricominciò a camminare per la campagna, assolutamente disorientato.
Ora la pioggia cadeva forte e sonora a grandi scrosci, entrandogli a rivoli pel collo, sferzandolo, facendogli sprofondare i piedi nel fango. Soffriva così intensamente, il freddo, la paura, l’orrore della notte e della morte che desiderò ardentemente di essere scoperto ed arrestato, per sentire la voce di un suo simile.
Sentiva d’attraversare vasti campi deserti, fuori d’ogni vista d’uomo, ed un freddo mortale, freddo di gelido e di solitudine, gli faceva scricchiolare i denti. Doveva aver camminato molto, ma non aveva alcuna idea del luogo in cui si trovava, nè poteva immaginare che in poche ore, battendo una strada solida e sicura, si potesse tornare a vivere e ad udire la voce dei propri simili, un dolore acuto e feroce gli martellava le tempie, addormentando sotto il suo spasimo ogni forza di pensiero e di sentimento.
Ad un tratto vide innanzi a sè, nell’ombra, una sottile linea luminosa.
A pochi passi di distanza sorgeva una capanna.
Senza esitare egli vi si avviò, con un desiderio ghiotto e bestiale di calore e di riposo. Non c’era ormai in lui nulla dell’uomo sociale che aveva vissuto, fino a poche ore innanzi, non c’era che l’uomo stanco ed abbrutito, indolenzito da mille sofferenze fisiche.
Picchiò all’uscio. Esso si aprì lasciando scorgere un gran fuoco che ardeva ed un uomo dalla folta barba, tutto ravvolto in un mantello oscuro. Monaldo balbettò alcune parole imploranti, mostrando i suoi panni fradici, stridendo coi denti pel freddo e per l’angoscia, in un folle terrore di essere discacciato. L’altro gli accennò d’entrare.
La solitudine dell’Agro educa alla fratellanza del delitto. Essi erano due solitari. L’uomo del campo e quello della città, banditi uno dalla miseria, l’altro dal delitto, si guardarono un istante, poscia il contadino tese la mano ad un mucchio di paglia, contro il focolare e brontolò:
– Accomodatevi!
Indi, senza domandar nulla, si ritirò nell’angolo opposto, si avvolse nel suo tabarro e si addormentò.
Monaldo si era gettato sulla paglia, disfatto.
Ora tutti i suoi sensi bevevano il calore del fuoco, e l’anima sua si addormentava in un torpore invincibile.
Che cosa avrebbe fatto, domani?... Egli non sapeva più vedere oltre l’ora presente. Al di là di quella luce calda e sanguigna, di quel calore in cui il suo essere si abbeverava insaziabilmente, non c’era che la notte, densa di tenebre e di gelo come un mare profondo. Pensò, vagamente, che sarebbe rimasto lì, di fronte a quel buon fuoco che gli scioglieva le membra, in quella luce intensa, in cui gli occhi avvelenati dall’oscurità si riattivavano lentamente! Vegetare in quell’angolo ignoto, aver caldo, vedere, udire una voce umana, lontano dalla folla urlante e minacciosa, da quel fantasma pallido che l’aveva inseguito, gli sembrò una voluttà e vi si abbandonò senza pensare.
La stanchezza della mente e dei sensi gli opprimeva ogni fibra, gli aspetti delle cose circostanti si confusero innanzi a lui in un senso unico, invincibile, quasi dolce, di riposo e di sollievo.
Ed un sonno plumbeo, senza sogni, gli calò nelle ciglia.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Quand’egli si destò, piano, distendendo prima un braccio e poi l’altro, i suoi occhi guardarono senza comprendere.
Una luce, chiara e fredda entrando per l’uscio aperto, illuminava una falce, una scure, delle funi, appesi alla parete di giunco della capanna. Dov’era? Che cosa era accaduto?... Per alcuni istanti egli rimase immobile, non osando sollevare la densa cortina che era nel suo spirito, cercando di assorbirsi tutto nel suono malinconico che veniva dal di fuori, una voce informe, che modulava un canto simile ad un lamento.
Ma, d’un tratto la verità sbucò dalla penombra della sua mente e gli piombò addosso come una tigre. Egli ebbe un sordo gemito, ed un senso di pena e di sgomento così acuto che, per un istante, gli parve di sentirsi spezzare il cuore.
Era vero! Egli, Monaldo, aveva fatto tutto ciò.
Cercò di ricostruire il fatto: aveva la sensazione incerta di aver lungamente ferocemente, aizzato in sè qualcosa che, alla fine era scaturita da lui, più forte di lui, come un uragano, e l’aveva gettato contro il proprio destino.
Ora, le ragioni sociali che lo avevano sospinto al delitto, gli sembravano così lontane; così distrutte, che egli non sapeva rendersi conto di esse. «L’onore offeso?». Ma invece rammentava tutto il tormento che aveva dovuto infliggere a se stesso con ogni mezzo frodatorio, bevendo, mordendosi, quasi, l’anima e le carni, per ridestar la belva primitiva addormentata sotto la sua indifferenza.
Non si poteva assuefare all’idea di quel cadavere, di quella cosa fredda creata da lui. A volte l’idea che egli non avrebbe più udito la voce di sua moglie, che quella figura non si sarebbe più mossa, non avrebbe più empito l’aria del suo profumo e delle sue parole, gli dava un senso acuto e morboso di paura, un rimpianto accorato e quasi tenero.
L’idea che aveva accompagnato lo scendere del sonno di lui gli ritornò alla mente.
Ricoverarsi in un cantuccio, non vedere, non udire più!... Addormentarsi; per sempre; come in una tomba, in quella capanna solitaria... E si levò lentamente.
Aveva le mani tutte graffiate e le vesti umide e indurite, che gli segavano le carni, mentre le sue giunture scricchiolavano dolorosamente.
La campagna, uniforme, a larghe ondulazioni verdi, si stendeva fino ai colli lontani sotto il cielo latteo ed unito in una malinconia di forme immobili e di tinte sbiadite.
Il contadino, ritto sopra una breve elevazione del terreno, appoggiato ad una vanga, cantava. Era una canzone malinconica, uguale, una specie di lamento che si ripeteva all’infinito: imitando il lungo gemito d’arpa eolia che fa il vento tra le sue corde. Canzone e voce d’altri tempi. La vita della città, con le sue tragedie dell’anima, con le sue battaglie, le sue lacrime, le sue vittorie luminose, era passata lontano di lì. Gli uomini della città erano di un’altra razza, di un altro sangue.
E Monaldo comprese. Il suo luogo non era lì.
Tutti gli aspetti circostanti lo respingevano senza pietà. Egli poteva vivere magari disprezzato, magari in prigione ma a patto di udire, fra le inferriate del carcere, il rombo uniforme della vita cittadina, il riso od il pianto del suo vicino, la parola indefinita della moltitudine.
Egli avrebbe potuto assuefarsi al rimorso: l’anima è forse la più docile parte di noi, ma i suoi sensi raffinati non avrebbero potuto assuefarsi mai a tollerare il raccapriccio che li prendeva, continuamente, ogni volta che le vesti bagnate e fredde gli si appiccicavano addosso.
Si avvicinò al contadino, e gli domandò la via della città. L’altro gliela accennò col gesto.
Monaldo gli mise in mano alcune monete e si avviò.
La via, bianca sotto il pallore del cielo, si stendeva innanzi a lui, ed egli sembrava anche più piccolo e misero, sotto l’immensità uniforme di quel velario di nubi.
L’uomo dei campi, immobile sul colle, lo guardava gravemente.