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Mario Garbini rilesse, con cupida voluttà, il piccolo biglietto su cartoncino verde, che aveva ricevuto alla mattina.
«Domattina al Pincio. Vi ascolterò, ma con severità... materna».
E la firma, un V sottile e slanciato, attraeva gli sguardi del giovane con un fascino grazioso, potente e molle.
Sul suo tavolo, un tavolo, farraginoso, come tutti i tavoli di redazione, qualche libro annegava in mezzo ad un diluvio di fogli gualciti, di appunti, di carte d’ogni genere. Quella sera egli non si sentiva in vena di lavorare: non c’era alcun fatto notevole.
Uno dei suoi reporters, seduto di fronte a lui, scriveva in fretta il riassunto d’una seduta al Consiglio provinciale.
– E Paolini è venuto?... – domandò Mario nervosamente.
Paolini era l’altro reporter, quello della cronaca nera.
Non era venuto. Mario sentiva una gran voglia di muoversi e di lavorare, una smania di stancarsi, perchè il tempo, fino alla mattina dopo, passasse più rapidamente.
E la voce del reporter dettava con una cantilena sommessa: «Il consigliere Soderini fa domanda che il comune di Montecelio venga autorizzato...»
D’un tratto la porta si aprì con violenza ed irruppe Paolini. Era un uomo alto, magro, dal naso adunco e dai piccoli occhi brillanti e vivaci.
– Signor Mario – esclamò con un sorriso acuto e malvagio da vecchio predatore, – Signor Mario abbiamo il fatto-monstre, il fatto-ultra.
– Che cosa? – domandò Mario con interesse, afferrato dalla curiosità professionale.
Paolini riprese fiato e Mario ricevette in pieno petto questa terribile rivelazione.
«Un delitto nella buona società: il signor Monaldo Gavarni ha ucciso la moglie».
Mario Garbini indietreggiò d’un passo, rimanendo contro il muro, immobile, come se avesse ricevuto un formidabile colpo di pugnale nel petto. Per un istante non si rese ragione del fatto enorme, inesplicabile. Prima che ogni parola fosse penetrata in lui e vi avesse suscitata l’eco del sentimento corrispondente, trascorsero alcuni secondi, durante i quali i suoi reporters lo guardarono con muto stupore.
Non erano assuefatti a vederlo così impressionato dalle notizie che capitavano in redazione. Per solito, era freddissimo come un medico di fronte ad un caso patologico, più o meno interessante.
Alla fine Mario si riscosse: un sudore freddo gli bagnava le tempie, ed un dolore immenso, pesante e sordo come un cumulo di pietre che fosse caduto su di lui, gli opprimeva il cuore.
– È finita!... Tutti i suoi sensi, dal giorno in cui aveva rivelato a se stesso i suoi sentimenti verso Viviana, erano accesi di lei, tutto il suo arido e violento spirito di conquistatore sentiva con assoluto imperio la prossima voluttà della conquista. Ed ora la meta radiante, calda e luminosa come un raggio di sole, diveniva gelida ed oscura.
Questo balzo formidabile non era tollerato dalle sue facoltà: egli tremava come preso dalla febbre.
Senza risponder nulla al reporter, prese il suo cappello, macchinalmente ed uscì.
Il freddo della serata piovosa gli fece un po' di bene: tuttavia egli sentiva in sè un dolore così aspro e cattivo, una voglia insaziabile di ribellarsi, un rimpianto così accorato, si sentiva così vinto, così fieramente violato in tutte le sue facoltà di soffrire che, per un istante, egli pensò di scagliarsi contro il muro e spezzarsi il cranio, trascinando con sè nell’abisso, come un avversario avvinghiato, il dolore insaziabile che lo divorava.
– Essa è morta!... Essa!... Uccisa!... – mormorava a denti stretti salendo a lunghi passi verso il quartiere Ludovisi, senza vedere la gente che lo urtava, arretrando con l’animo, man mano che il corpo avanzava, dallo spettacolo orrendo che avrebbe veduto e che non voleva evitare. Non voleva. Sentiva in sè un’altra creatura, trepidante e avvilita, che egli stesso sospingeva ferocemente alla visione del male.
Egli non si diceva: voglio vederla un’altra volta.
Egli si diceva, con accanimento, come insultando un nemico: Tu la vedrai; la vedrai ancora.
Aveva come una speranza incerta e indefinibile in qualcosa che avrebbe potuto accadere, in un fatto che lo avrebbe forse smentito. I suoi occhi si aprivano con orrore innanzi alla possibilità della cosa immane, innanzi alla visione del sangue e del cadavere; eppure egli avanzava, affascinato dalla spaventosa visione, come al cenno invincibile di un ipnotizzatore.
E disse ad alta voce questa ipotesi, con una voce implorante e piena di lagrime: avrebbe pregato, pregato come una vecchia contadina superstiziosa per allontanare da sè ciò che era avvenuto, ma anche in lui l’al di là, la forza oscura che regola le cose umane, era incerta, nebbiosa, falsa.
Egli si sentiva solo, nel vuoto, contro il suo fato, e corrugava disperatamente le sopracciglia; stringeva i pugni e i denti in una volontà spasmodica di esser forte... Non sarà vero!... mormorò di nuovo.
Ma ad un tratto s’arrestò, e vacillò come un ubriaco.
Egli conosceva bene il quadro sintomatico che aveva intorno agli occhi.
Sotto i platani sgocciolanti, innanzi alla casa alta ed aristocratica, un gruppo di persone si affollava, ed in mezzo ad esso scintillavano le uniformi delle guardie.
Ebbe un brivido di raccapriccio e di disgusto invincibili. Era la folla, la folla oscena, sordida e bestiale, dai mille cenci e dalle mille mani adunche e sudicie, che dichiarava il suo dominio sul luogo profanato dal delitto.
Egli provò l’impressione che qualcosa risuonasse nel suo cervello come lo scoccar di un colpo improvviso su di una campana, e sotto le vibrazioni lunghe di quel rintocco i sensi e le idee lo piombarono in una specie di dormiveglia, attutite e stupefatte.
Egli si avanzò automaticamente, aprì la folla, guardò in viso la guardia di piantone, che lo riconobbe e lo salutò, e salì le scale.
La folla, essa stessa o l’autorità che la rappresenta, fanno sempre in sè qualcosa che fa pensare ai barbari invasori. Dove la volontà di questa massa enorme passa e si afferma, rimane qualcosa di mutato, un disordine inesplicabile, un certo che di indicibilmente violento, che indica la sua mostruosa presenza.
Due o tre persone accigliate ed affrettate passarono accanto a Mario senza guardarlo. Un odor d’etere e di jodoformio, quell’odore freddo e sinistro delle sale di medicazione, gli prese le narici.
Entrò. La sua carriera di reporter gli aveva fatto conoscere tutti i funzionari della polizia. Nel salotto, nel corridoio era un andirivieni di uniformi; la sciabola di un carabiniere, nel passare, cozzò con rumore contro uno sgabello. Dalla guardaroba si udiva il singhiozzo lungo di una donna che piangeva, un pianto rassegnato, sconsolato, di un bimbo in castigo.
– Di qui, Garbini, di qui!... – gli disse una voce all’orecchio. Egli guardò e riconobbe. Era Fascioli, un delegato di P. S., che aveva conosciuto alcuni anni avanti, all’inizio della carriera.
Avevano finito quasi col volersi bene, a furia di trovarsi accanto ogni qualche giorno e di scambiarsi una stretta di mano sul luogo di un delitto, nelle sale di pronto soccorso degli ospedali, o in mezzo al tumulto delle dimostrazioni. Il delegato, un giovanottino biondo, dalla barbetta rada, rialzata imperiosamente lo condusse in un salottino a parte.
– Cose da pazzi, caro Garbini, cose da pazzi – disse rimettendo in ordine i fogli dei suoi appunti sparsi su di un piccolo tavolo. – Questo – riprese senza avvedersi dell’orribile pallore di Mario – è un fatto che farà epoca: semplicissimo, non c’è che dire; pare il rapporto di una delle mie più ignoranti guardie. Il marito ha avute delle lettere, le ho repertate in camera di lei, per terra, e la cameriera ha riconosciuto la calligrafia della signora. Ne ho letta qualcuna. Salute, che roba!... Chi avrebbe creduto mai un fatto simile?... Ne ho arrestate, di notte e nei vicoli fuori di mano, di quelle che erano più pulite di questa signora!... Il marito ha avute le lettere. Come? Si saprà. Egli torna a casa, discute, strilla!... la servitù che era nel piano sotto, ha inteso il rumore di un colloquio animato, poi una corsa, un grido... Sono accorsi in fretta e sono stati quasi rovesciati dal marito che fuggiva. Il resto, quantunque non sia ancora venuto il giudice istruttore, te lo farò vedere.
Uscirono in silenzio dalla stanza. Mario ebbe la sensazione di avere nel cuore una solitudine enorme e taciturna, in cui il pianto della donna, dall’altra stanza, risuonava come se venisse di lontano lontano, da un altro mondo!
– È qui – disse il funzionario sospingendo un uscio. In una stanza quasi nuda, uno stanzino da cameriera in cui l’avevano trasportata in fretta, nel primo momento, Viviana giaceva sopra un lettuccio di ferro.
Il volto, cereo, aveva perduto tutta la sua dignità padronale; sconvolto dalla paura pazza della morte, da quella vertigine dell’abisso che abbacina i morenti.
Il labbro superiore, sollevato in una contrazione di spasimo, lasciava vedere i denti uniti e perlacei, sotto il lividore delle mucose gelate.
E tutto il corpo, in una posa sciatta e deforme, in tutto, su quel lettuccio, angusto, sembrava rattrappito e come rimpicciolito. Solo le mani, le mani lattee dagli anelli sontuosi, le sue belle mani da dogaressa, sembravano aver conservato la loro maestà.
Un odore acre di sangue era nell’aria. In un angolo, un medico vestito di nero, un pezzo di giovanotto dal collo taurino, si lavava pacificamente le mani in una catinella.
Mario provò un senso di meraviglia strana. L’aspetto di ciò che vedeva era così differente dall’orrore vibrante, impetuoso, ardente, in cui egli era stato travolto, che egli non sentiva in sè lo schianto fulmineo che si era aspettato.
Avvicinandosi all’uscio egli aveva detto disperatamente a se stesso: Ora cadrò, ora morrò. Invece provava un senso di gelo, di disgusto, di raccapriccio, come se un po' di quel male fosse partito da lui, come se un po' di quel sangue gl’insozzasse le dita.
Poi, gli venne d’un tratto, un senso così amaro e triste di disillusione e di stanchezza, una così stanca volontà di abbattersi, davanti alla violenza imperiosa del fato, che si ritrasse in fretta nel salottino dove lo seguì il funzionario, si gettò sopra una poltrona e pianse. Erano lacrime lente ed ardenti, lacrime di dolore e di delusione.
No, non era quella. Viviana, non era quello il suo sogno!... Sentiva come se un’ulcera immonda gli coprisse tutto il corpo come se un’infamia senza nome fosse stata perpetrata su di lui, senza che egli si potesse difendere.
– Ma che hai? Domandò il funzionario stupefatto.
– Io le volevo bene! Mormorò Garbini senza poter frenare la confessione affannosa che gli uscì dalle labbra come un singulto.
Era la prima volta che egli, nella vita, si sentiva vinto. In lui piangeva con infinita tristezza l’orgoglio fiaccato del lottatore.
La limpida audacia che gli aveva fatto considerare il mondo come una preda evidente e vicina era tutta contaminata dall’orrore di questo cadavere, gettatogli innanzi.
Un misto di pietà, di ribrezzo e di affanno gli tormentavano il cuore.
Il funzionario lo guardava con pietà affettuosa:
– Sei per qualche cosa in questo affare? – gli domandò a bassa voce.
L’altro accennò di no col capo. Poscia si levò asciugando le sue lacrime, vergognoso di essersi lasciato scorgere così debole.
– Addio, disse stringendo la mano al funzionario. – Ed uscì.
Per un buon tratto di via egli camminò automaticamente, avendo sempre innanzi agli occhi quello squallore di carni misere e bianche, e nelle orecchie il lamento querulo e sinistro della voce femminile, quel lamento rassegnato che sembrava partire dalle carni umili d’un povero essere percosso ed avvilito.
Ad un tratto si fermò. Era giunto sulla piazza del Quirinale. La piazza, vigilata dai palazzi muti ed enormi, era tutta deserta, piena dello scroscio della sua fontana.
Alla luce delle lampade elettriche il selciato umido e le statue gigantesche dei Dioscuri e dei cavalli scintillavano d’un bagliore argentino. Era intorno una solitudine malinconica, come di un luogo abbandonato da tempo immemorabile, quell’aspetto di vuoto sinistro, che prendono le piazza e le vie, di notte: quando tutto ciò che vi è di ospitale in esse si addormenta e si scolora sotto l’ostilità della pioggia.
Egli si fermò innanzi alla balaustrata di travertino, innanzi alla cortina di tenebre che sembrava velare la città. I suoi occhi fissi nel buio scorgevano delle masse di oscurità più densa profilarsi, degli albori diffusi, di luce elettrica biancicare vagamente, e qua e là un punto luminoso come il fanale d’un vascello, ancorato in lontananze ignote, brillare perduto, nella notte.
E la via sottostante, gialla di ghiaia fangosa, sotto la luce dei fanali, oscillanti al soffio del vento, pareva sprofondare ripida e solitaria verso una bassura immonda, da cui partivano voci inarticolate e frettolosi rotolii di vetture.
La città in quell’ora, era gelida ed ostile. Tutte le porte e tutte le imposte chiuse, essa faceva pensare al volto arcigno d’un avaro che rifiuti l’elemosina.
Il cuore di Mario si gonfiò di rancore e di passione.
Era quella la città che condannava ed uccideva, la vecchia beghina omicida. Dietro ogni finestra, sotto il berretto da notte di ogni buon borghese sonnecchiante, dormiva un po' di fango e della sozzura comune, un po' di quella legge morale che sanciva la colpa e reclamava la morte. Ognuna di quelle finestre chiuse, contro le quali la raffica del vento e della pioggia si abbatteva con furia inutile, nascondeva una piccola anima ingorda e freddolosa, una goffa vestale malata di vizi secreti e pronta a rovesciare il pollice gottoso in segno di condanna.
Nessuno urlava sui tetti e nelle vie, la volontà tragica ed imperiosa dell’omicidio, nessuno gridava al vento gelido, ruinante per l’immensità fosca della notte: uccidi, uccidi!...
Non c’era nulla in quel silenzio di cose addormentate in un sonno grasso e pacifico, che rivelasse la possibilità enorme del sangue, che autorizzasse con feroce imperio il gesto che tronca la vita, che fa d’una creatura perfetta e consapevole un ammasso di putredine.
Ma tutte quelle teste bolse, semisveglie sul guanciale, alla luce calma della veilleuses avevano un cipiglio disgustato, tutte quelle sopracciglia che non conoscevano il corruscare dell’idea, si contraevano in una mossa arcigna, di fronte all’impudicizia, di fronte allo scandalo delle carni fiorenti, liberamente infiammati dal sole e dalla voluttà.
Ogni porta chiusa, stillante di pioggia, nel tepore interno, si serrava di fronte all’estranea, alla creatura libera e selvaggia reclamante di sotto la congerie delle consuetudini e del costume, il barbaro suo diritto ad esser baciata e stretta, al brivido insaziabile del piacere, che viene dall’ignoto, come il soffio del vento, ed illanguidisce le carni come ad uno squisito presagio della morte.
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Una donna cenciosa, tutta stretta nei brandelli d’una veste schizzata di fango, passò lungo il muro e scomparve nelle tenebre.
Essa come l’altra, era estranea. Chi aveva fatto un balzo nel buio, dalla luce calma del salotto e dall’alcova, non apparteneva più a quel mondo. Era una creatura d’altri luoghi e d’altri tempi, la creatura della via. Il fatto clamoroso, lo scandalo, riconsacrava senza pietà, le affratellava a tutto ciò che non si definisce e non si giudica, la gettava nel fango...
Domani, la donna a cui tutti avevano baciata o stretta con rispetto la mano, sarebbe piombata al livello della povera bestia umana, ramigante nel buio in cerca d’un vizioso da sfamare.
Ed ecco, tutte le cervici calve si levavano nel guanciale, tutte le teste grigie delle signore per bene, incanutite nella discreta e pacifica voluttà dell’adulterio tollerato, tutte le giovanette avvelenate alla scuola perversa del frutto proibito, tutto ciò che c’era d’ottuso, di verecondamente corrotto, di ipocrita di mentito e di ladro in quelle case serrate e accigliate, si rovesciava urlando contro la perduta, contro quella carne bianca e voluttuosa; era un grido di bocche sdentate, un brillare d’occhi giallastri e cupidi, una corsa affannosa di grosse zampe ben calzate, dietro colei che aveva offeso tutti, con l’ampiezza sfrenata del suo godimento, gettando alla luce un campione di ciò che i kraus dei gentiluomini, ed il raso delle signore nascondevano alla folla. E da tutte quelle bocche sbuffanti un «ohibò»! disgustato, da tutti quei cipigli scandalizzati, da tutta quell’indignazione grassa, balorda e inesorabile, partiva l’anatema, il comando feroce ed inespresso, che faceva levar la mano, brillar l’arme e vibrare il colpo. Quel cadavere era un po' opera di tutti. Era quella oscurità umida e silenziosa, quel cipiglio di finestre serrate: il sonno grave di quella folla invisibile che l’aveva creato.
Domani, ognuno si sarebbe fatto il segno della croce davanti all’opera comune.
Mario sentì, per la prima volta, un’onda di sensi ribelli scuoterlo tutto, contro l’ipocrisia che avrebbe dilagato, contro tutto ciò che si sarebbe detto o fatto su quel cadavere, contro il volto tondo, ebete e sudicio che grugnisce un bene! od un muoia, e che si chiama la pubblica opinione.
E, sporgendo nella notte il volto pallido, convulso, sputò sulla città addormentata.
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Quando Mario rientrò negli uffici del suo giornale egli aveva subito una di quelle crisi che maturano nel cuore di un uomo, dieci anni di vita e di esperienza.
Tutto il suo essere si era irrigidito in uno sforzo quasi crudele. Sentiva che il fatto di cui aveva subito solo il terrore della prima visione si sarebbe risolto poi nei suoi aspetti secondari, tormentandolo ora per ora come sotto una pioggia implacabile, e sentiva come una fosca volontà di lottare contro questo rude assalto dell’evento, insanguinandosi il petto e le mani, ma vincendo.
Sedette innanzi al suo scrittoio e prese la penna, pensava che se egli avesse tradotto in parole tutto il suo disprezzo verso chi aveva colpito, verso la società che aveva condannato; se egli avesse respinto nel lurido fango l’illusione cavalleresca del tue-là, ed avesse violentemente spazzato di dosso al fantoccio impennacchiato del romanticismo, il suo orpello e le piume, per mostrare l’orrido bruto che vi era sotto, tutta la sua anima si sarebbe distesa e confortata in un senso sereno di giustizia e di pace.
Egli sentiva l’idea nascergli nel cervello ed illuminarsi di una luce limpida e schietta, animata da un soffio caldo di vita, sentiva quell’indefinibile entusiasmo dell’opera creatrice, per cui l’amore si solleva al di sopra delle contingenza della vita, e gusta l’orgoglio divino della verità e della giustizia.
I suoi occhi si fermarono sul piccolo foglio quadrato che aveva innanzi ed egli si accinse automaticamente a scrivere, perchè la sua intelligenza lo sospingeva insensibilmente a dare al tumulto dei suoi pensieri la esplicazione consueta, cui tutta la sua psiche era assuefatta...
– Mi raccomando, Garbini – diceva la voce.
Garbini levò la testa. Innanzi a lui era il direttore. Una testa all’antica, brizzolata e dignitosa.
I suoi amici dicevano che l’aveva rubata a Aleardo Aleardi, tanto la vecchia fierezza della generazione passata vi traluceva nobilmente.
– Mi raccomando – continuò il direttore con aria grave, – alla sua abilità ed alla sua discrezione. Siamo di fronte ad un delitto che, più che un delitto è una sventura.
Sappiate usare qualche riguardo a Gavarni, è un grande sventurato, ed un uomo d’onore.
Quindi il signor direttore volse le spalle e se ne andò.
Mario lo seguì con lo sguardo, lentamente.
Per un istante pensò di gettar via la penna e di urlare il suo disprezzo, contro tutto e tutti... Ma i suoi occhi si posarono sulle pareti dell’ampia sala di redazione. Le lampadine elettriche poste sotto l’alta cornice di legno scolpito gettavano una luce uguale e dignitosa un po' arcigna, gli rivelò, il patto segreto che lo legava alla volontà dei più.
Tutto quel vecchio mondo conservatore, che copriva di seta e di velluto le sue superstizioni e le sue vergogne, non si conquistava d’assalto. Il suo sogno di dominio, che era carne della sua carne, che dettava legge a tutti i suoi atti, domandava questo ricambio infame...
Il suo disprezzo verso gli uomini che serviva e che un giorno lo avrebbero servito, gli fece increspare le labbra in un sorriso amaro: Ebbe l’impressione di sputare il suo articolo sulla città, con lo stesso disprezzo, con cui aveva sputato poco prima, dall’alto del colle... E scrisse il titolo:
«Tragica vendetta di un marito oltraggiato...»