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Anna Guinizelli piegò lentamente il giornale ed ebbe un triste sorriso: il piccolo salotto in cui l’origine della tragedia era nata era tutto silenzioso intorno a lei e l’Ebe di marmo, dal viso ovale e dal riso ambiguo di giovinetta consapevole, rideva in un angolo, di mezzo alla penombra, guardandola.
Da parecchi giorni era così, sola e muta.
La notizia del fatto atroce le aveva dato uno stupore profondo, come se la avessero precipitata in un mondo di sogni.
Non aveva trovato in sè un urlo di passione, era come se la sua anima si fosse precipitata in un vuoto immenso in cui scivolare sulle ali ferme, senza scosse e quasi senza dolore.
I suoi sensi attutiti non percepivano alcuna voce esteriore. Pensava a volte: Egli l’ha uccisa!... E queste parole terribili le sembravano pronunziate da una voce estranea in una lingua ignota.
La sua vita interiore fatta di febbre di godimenti, si era assiderata sotto un gelo mortale. Essa non si riconosceva più: le pareva di esser divenuta una creatura nuova, sperduta in mezzo agli avanzi irriconoscibili di un mondo distrutto. Le notizie che le giungevano le parevano venute da un’altra vita, infinitamente lontana, ed a volte le sembrava di trovarsi sopra un vascello abitato da fantasmi, in un mare grigio, in un viaggio eterno e senza meta.
Mai, come ora, aveva inteso la solitudine del suo essere, orgogliosamente solo fuori di ogni legge e di ogni costume. Aveva chiuso la sua porta a tutti: anzi non sapeva neppure se alcuno l’avesse cercata e non osava più uscire, temendo che qualche aspetto della vita esterno facesse crollare la pace morbosa del suo spirito e rovesciasse su di lei un uragano di sensazioni violente.
Aveva freddo e paura ad un tempo. Provava un’acre voluttà leggendo il giornale di Mario Garbini. Il giovane cronista aveva trovato in lei il capro espiatorio della sua passione e dei suoi rancori, ed aveva scritto due o tre articoli pieni d’una così sapiente violenza di sentimenti, che essa li aveva letti con un acre brivido di piacere, come se si fosse sentita fustigare a sangue da una mano implacabile.
L’unica cosa che l’atterriva e che essa vedeva avvicinarsi senza avere il coraggio e l’energia di fuggirla, era la possibilità di essere interrogata dai magistrati. Provava, di fronte a questo pensiero, lo stesso raccapriccio che se avessero voluto darle una preda ad una moltitudine ebbra e lasciva.
Tuttavia, quel giorno, aveva deciso di muoversi. Tuttociò che la circondava le era divenuto ostile, e provava un insormontabile disgusto a vedere i suoi mobili, le sue stanze, tutto ciò che viveva intorno a lei ed aveva l’impronta della sua vita passata.
Quella solitudine la pervertiva in modo irreparabile. Aveva finto col sognare sensazioni inaudite, per ridestare l’atonia del suo spirito, ma le letture più acri, le fantasie più crudeli, impallidivano ai suoi occhi, come se dalla creatura morta, morta per opera sua, irradiasse un gelo funebre su di essa e sui suoi pensieri.
Provò un desiderio acutissimo di cercare fuori di lì, un’altra pace, più grande, più profonda, più vera.
Lentamente, ricoprì il capo con uno zendado, in modo che i lembi del merletto le nascondessero il volto, si alzò ed uscì.
Ciò che vedeva nella via le dava un senso di dolore acuto che la faceva soffrire, ma la faceva anche vivere. Le vie luminose, piene di sole limpido e tiepido, le davano una sensazione continua e febbrile, come quelle del brivido elettrico.
Per un istante ebbe l’idea di recarsi alle carceri e di domandare che la facessero parlare con Monaldo Gavarni, ma la illogicità della sua idea le apparve subito. Non l’avrebbero lasciata passare. E questo sentimento la respinse in un dolore tetro e rassegnato. Non aveva saputo più nulla di lui. Per qualche tempo aveva sognato il suo volto pallido e triste, con una sete ferina di baci, con un desiderio ardente, inestinguibile di stringerlo a sè, di accendersi tutta, come una volta, nella passione della carne e dello spirito, dimenticando tutto e tutti.
Ma poi l’immagine era divenuta austera e gelida. Non era più il Monaldo che essa aveva addormentato nel suo cuore, mormorando una laude bizzarra e gaudiosa delle sue lunghe ciglia e dei suoi occhi pieni di mistero, era un Dio antico, lontano ed impassibile, in cui la maestà marmorea aveva qualche cosa di minaccioso e di inibitivo.
Egli sorgeva in fondo ai suoi pensieri, candido ed immobile, come un domatore senza pietà. L’idea del delitto commesso lo aveva fatto crescere innanzi ai suoi occhi ad una grandezza innaturale, fuori della vita.
Tentava innanzi a lui con una sorda voluttà di bestia domata. Egli era più forte, più forte di lei!...
E comprendeva che se egli l’avesse ancora voluta, essa si sarebbe data a lui con un brivido di delizioso terrore, come nel rito immondo e fastoso delle antichissime cerimonie fenicie, in cui si amava e si moriva orribilmente, sotto gli occhi di un idolo dalle forme atroci.
Senza avvedersene, essa prese una via consueta alle sue passeggiate di un tempo.
Attraversò molte piccole vie chiassose, piene di una vita tanto estranea alla sua da non turbare il senso della sua solitudine.
Ora essa ascendeva l’erta del Palatino.
La sabbia minuta scricchiolava dolcemente sotto i suoi piedi, e le immagini ruinose che la circondavano, verdeggiando sotto le edere e i muschi empivano i suoi sensi di uno stupore quasi dolce.
L’ignoto era in lei ed intorno a lei: ciò che si era pensato, compiuto e sofferto in quel luogo era sterminatamente lontano.
Le perversità, i delitti, le passioni torve che avevano edificato e distrutto quella strana città di fantasmi era purificato dal silenzio dei secoli.
E le voci che vi giungevano dalla città sottostante si addolcivano per la distanza, tantochè non v’era, nella folla felice delle vie, un urlo di dolore così forte che non fosse giunto lassù come un sospiro.
Vagò per piccole vie serpeggianti fra le rovine, passò sotto archi altissimi, pieni di un’ombra fresca, in cui le eriche rossicce dondolavano lentamente al soffio del vento, e per ampie solitudini in cui della magnificenza antica non sopravanzavano il suolo se non pochi sassi informi e corrosi.
Sotto di lei la zona delle rovine si ampliava, irta di mura crollanti, e lontano, la mole del Colosseo, tutta dorata di sole, sembrava assorta in una indicibile dolcezza di quiete.
Essa sedette, sopra un masso di marmo.
Non poteva spiegarsi ciò che avveniva in lei. Era un senso nuovo, malinconico e dolcissimo.
Anna sentiva qualcosa disciogliersi lentamente nel suo cuore, come un gelo tenace ed antico; una indulgenza mite e pietosa verso tutto e tutti, verso la propria carne e la crudeltà altrui.
Le pareva, a momenti, di essere uscita purificata da un lungo martirio, in cui la sua carne fosse stata contaminata e vilipesa.
L’aria aveva una dolcezza fresca e trasparente, e nel mare di case che la città distendeva innanzi ai suoi occhi le torri si levavano ingentilite dal sole, in una rosea mitezza, inermi e solitarie. La stessa stanchezza che avvinceva le membra di Anna aveva qualcosa di carezzevole.
Alcuni bimbi correvano sotto gli alberi, poco distanti, mettendo le loro voci tenui, in cui era il trillo argentino di un riso, sotto le volte crollanti degli edifici imperiali.
Fra gli occhi socchiusi di Anna la luce filtrava come attraverso le cortine calate di una stanza concreta. Vedeva le cose lontane; piccoli ricordi d’infanzia le sorridevano come una visione di sogno, e provava un infinito stupore sentendo che la sua anima era così semplice e candida.
D’onde le era venuta questa miracolosa serenità?...
Tutto ciò che era di torbido e di bruciante in lei si confondeva in una nebbia fresca e rosea.
E ad un tratto, ebbe un brivido di orrore.
Pensò che ciò sarebbe finito. Pensò che avrebbe dovuto discendere di nuovo nella città, che il sole sarebbe calato, che le vie fragorose e limacciose avrebbero avventato a lei il rombo della vita febbrile e l’alito fetido dei loro mille petti.
Il disgusto che provava per tutte le cose che la circondavano quotidianamente divenne così acuto e morboso, che la sola idea di trovarsi sotto il riso ambiguo della sua Ebe di marmo le dette un tormento intollerabile.
Provò un ribrezzo mortale dei suoi simili. Tutta la sua vita era stata una selvaggia e solitaria idolatria di sè stessa.
Aveva amato, in ogni uomo che le aveva riscaldato il sangue, un momento della propria voluttà, aveva fatto di se stessa, come aveva detto a Monaldo la seta fatale, un arpa divina su cui ogni melodia si era intuonata meravigliosamente. Ora essa vedeva con limpidezza la solitudine enorme in cui piombarvi.
Gli ultimi ricordi della melodia divina si perdevano lentamente nell’ombra di un silenzio veniente.
Ed ora la grande legge sociale, la legge inesplicabile per cui ogni essere umano vive un po' in se stesso e anche un po' negli altri, la dominava come un fantasma d’espiazione.
Il mondo in cui aveva vissuto, con la sua torpida volontà di godere senza pericolo, la società angusta ed usurale in cui le convenzioni antiche del costume, sopravvissute alle necessità sociali che le crearono, agonizzavano senza splendore e senza onore, la soffocava come una coltre di piombo.
Non c’era nulla da amare o da odiare, lì dentro. Non era neppure una notte cieca, in cui ci si potesse gettare a capofitto, cercando ferocemente la morte nell’ombra, era una semi oscurità senza fine, in cui le Parche filavano con mani grassocce un destino fiacco e inutile.
Le grandi battaglie, quelle che essa aveva udite talvolta rumoreggiare nell’aria, si combattevano in basso, dagli uomini rudi e dalle donne deformate dal lavoro. La sua società guardava dalla finestra, codardamente.
Pensò per un istante che se avesse potuto gettarsi in un grande tumulto, correndo innanzi a una folla enorme e selvaggia, e cogliere la morte nel ruggito della moltitudine, quella confusa ed acre voluttà di una sensazione completa e fulminea, di un possesso imperioso ed assoluto, sotto cui tutte le sue fibre tacessero, saziate e sopraffatte, si sarebbe acquietata.
Pensò con un rimpianto ardente, alle voluttà imperiali di quel luogo, alle orge mostruose interrotte dal passo pesante e dal ferreo clamore dei pretoriani ribelli al riso di voluttà, saldato sulle labbra da un colpo di pugnale, e provò un’invidia acuta contro le donne celebri ed infami, che avevano goduto l’ebbrezze spaventosamente intense di un popolo intiero e ne erano morte.
Si levò dal suo sedile e si avanzò a piccoli passi nel criptoportico di Caligola. Il luogo dell’antico delitto, in cui il folle imperatore era stato sgozzato era deserto e silenzioso.
Per le aperture a feritoie entrava la luce schietta del sole, disegnando immobili quadrati per terra.
Essa sostò di nuovo. Ora provava un senso inaudito, la comunione completa e indefinibile del proprio essere con la natura circostante.
Si udiva, di fondo al corridoio, una fontanella chiocciolare sommessamente, come se consigliasse delle cose discrete ed umili, ed un insetto tutto dorato ronzava nei raggi del sole. Ciò diceva: Addormentati, dimentica, sogna, povero essere solitario e malato, sogna con noi una pace profonda come la morte, od una rovina il cui clamore vada alle stelle. Le piccole voci della vita che tu hai vissuto, non ti possono saziare, come la nostra voce terribile e muta...
Essa si fermò ad ascoltare il gorgoglio della fontanella. Ascoltò, lungamente, muta, con le ciglia contratte, ansimando dolcemente, come la prima volta in cui una mano d’uomo aveva accarezzato le sue carni. Poscia il suo volto si rasserenò di una pace innaturale e soave. Forse essa pregava lo sconosciuto idolo della sua vita, l’altra se stessa, stupenda ed ignuda come una Venere greca, di accoglierla a sè. Lentamente, aprì la sua borsa di seta e ne trasse un piccolo stile acuto, dal manico di agata; un gingillo giapponese che portava con sè...
Una bimba bionda, vestita di bianco, di fondo al corridoio la guardava...
– Addio, – mormorò Anna sorridendole, – addio!...
Sentì, dapprincipio, un dolore freddo ed acuto, man mano che la lama penetrava nel petto, poscia il dolore s’irradio da quel punto per tutta la persona e le prese le tempie in una morsa gelata...
La bimba corse a lei e si fermò a guardarla piangendo, senza comprendere, nel vederla così pallida e vide i suoi occhi profondi e misteriosi addormentarsi come in un sogno sotto l’ombra violacea delle ciglia, mentre le labbra esangui, tese ad un bacio ignoto, mormoravano ancora: Addio?