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L’aula del tribunale, in attesa del verdetto dei giurati, si sfollava lentamente, quando Mario Garbini si sentì toccare nel gomito ed udì una voce che lo chiamava per nome: si volse: l’uomo che lo aveva chiamato era chiuso in un soprabito abbottonato fino al mento, ed aveva l’aria un po' infagottata dei militari in borghese. Stentò un po' a riconoscerlo e poi mise una esclamazione di meraviglia: Giorgio Bartel!...
Era il suo antico compagno di studi, l’ufficiale bizzarro e scontento che aveva conosciuto in casa Gavarni.
– E che diamine? Mormorò mentre l’amico lo trascinava in uno dei cortiletti umidi e sudici dell’ex convento dei Filippini, e che diamine fai, qui, in questa veste borghese?
– Faccio qualche cosa, ed è molto! Esclamò l’ufficiale lasciandosi cadere su di una panca. Siedi qui. Non ne hai abbastanza, tu?
Mario ebbe un sorriso ironico e quasi triste. Il processo di Monaldo Gavarni lo aveva disgustato profondamente. Era la prima volta che veniva all’udienza, ma aveva seguito sempre il dibattito.
– Ecco, proseguì il giovane ufficiale addentando quasi con ira il sigaro, ecco, ti faccio sapere che ho dato le dimissioni. Ho quattro palmi di terra al mio paese, torno là, sposo una contadina e mi metto a fare l’agricoltore.
– Corbezzoli! E perchè?
– Perchè così farò qualche cosa. Ne ho fino al gozzo di questa gente qui. Credimi, caro mio, non c’è maggior voluttà che poter rispondere a sè stesso una risposta chiara e semplice, quando si ha la velleità di interrogarsi. D’ora innanzi, se avrò voglia di domandarmi: Giorgio che fai? Risponderò: pianto dei semi di zucca e vedo fiorire delle piante di zucca che saranno mie. Non c’è paura che ne nascano dei topi o delle locomotive o dei volumi in ottavo. Qui, invece, non c’è che gente, compreso io, la quale ha l’aria di fare una cosa che non fa. Sono un soldato, io? Nemmeno per sogno. Tu mi dirai: Ma tu sei stato in linea ed hai la medaglia: Sissignore. Abbiamo fatto fuoco per tre ore contro un muro, dietro il quale non c’era nessuno, poi l’abbiamo preso d’assalto e ci hanno decorato. Tutto il resto è così!
«Sono dei giudici costoro?»
Mario assentì col capo. Gli sembrava che il suo amico dicesse a chiara voce ciò che il suo cuore mormorava secretamente.
– Questo, riprese il giovane, non è un processo, è l’apoteosi d’una malattia sociale. A momenti avrei voglia di sputare in faccia, Dio mi perdoni, al presidente del tribunale. Sai una cosa? All’indirizzo di Monaldo Gavarni sono giunte centocinquanta lettere di signore e signorine innamorate pazze di lui! E il Pubblico Ministero! Lo hai udito? Pareva che volesse consolare un amico, anzichè perorare contro un delinquente. Nell’aula c’è un odore di viviz e di opoponax che leva il fiato. Roba da chiodi! Io ho parlato con l’avvocato difensore di Gavarni, magnifica e cinica intelligenza di uomo di mondo.
«Quando Monaldo si costituì sembrava qualcosa di mezzo tra un cane battuto ed un bimbo ammalato. In segreta lo udivano sghignazzare tutto il giorno, accusandosi di aver ucciso la moglie, e dandosi dell’assassino. Aveva delle allucinazioni. Dovettero levargli dalla stanza una brocca dal beccuccio tubolare, perchè quel beccuccio teso verso di lui nell’ombra, s’ingigantiva, in un gesto di minaccia ed i suoi denti stridevano d’orrore.
«Era un fenomeno stupendo che si compiva».
«L’uomo semplice e nudo, come era nato, come la solitudine lo aveva fatto ritornare, era in presenza del suo delitto, e questo lo uccideva, giustamente.
«L’uomo, solo, in presenza del suo destino, è fondamentalmente onesto. Ma la prima volta che l’avvocato difensore si è abboccato con lui e lo ha abbracciato, gli ha detto: «– Povero e sventurato amico!... Voi avete vendicato il nostro onore!» – Monaldo ha avuto un gesto di spavento ed ha gridato:
– No!... No!... non è questo!... Ma che cosa poteva fare?... Si è sottomesso pian pianino. La società gli rimetteva la casacca da moschettiere. Io ho seguito, passo passo, la trasformazione del suo spirito.
«Il primo giorno dell’udienza egli si sentiva ancora solo, aveva gli occhi smarriti e la bocca piegata ad una brutta e puerile smorfia di pianto. Poi, pian pianino, la sua società, il complice anonimo e irresponsabile che lo ha fatto omicida, lo ha rievocato a sè. Se alzava gli occhi alla tribuna delle signore, vedeva tali sorrisi, tali e tanti occhi lacrimosi per lui che, insensibilmente, ha ripreso il gesto abituale: ora, tu l’hai veduto!... Sembra un oleografia dell’epoca romantica. Ci scommetto che è anch’egli persuaso di aver vendicato il suo onore, il porco!...»
La folla rientrava lentamente nell’aula. Mario e Giorgio sedettero nell’emiciclo.
– Guarda, mormorò Giorgio all’orecchio dell’amico, guarda la tribuna delle signore! Vedi le signorine Savigny? Non si direbbe che stiano a teatro ad uno spettacolo di famiglia?... E la signorina Pini che si ostina ad essere più creola che mai!... quella lì ci scommetto, darebbe l’anima al diavolo per un bacio di Monaldo!...
Realmente, c’era nell’aula un profumo dolce e delicato di signora elegante. Si udivano dei fruscii sommessi di seta, delle risatine soffocate, quel bisbiglio che indica la presenza di molte donnine per bene.
La migliore società era convenuta nell’aula premurosa e commossa. Si sarebbe detto che essa veniva a riprendere nel suo seno tepido e profumato, l’uomo che le era sfuggito per un istante, dubitando della sua complicità.
L’avvocato di Monaldo, un bell’uomo decorativo, dall’ampia barba bionda, rispondeva con un sorriso di compiacenza ad un collega: – Ma certo, certissimo!... Assolto!... e chi ne può dubitare?...
– Non ne dubita nessuno!... brontolò stizzosamente Giorgio. Guarda, aggiunse poi con voce tremante, stringendo fortemente il braccio dell’amico, guarda tutta questa folla elegante e gentile. Oggi nell’aula vi sono due milioni di pietre preziose e tre o quattro di rendita. Tutti costoro, uno per uno, non oserebbero uccidere una mosca, e guardano la colpa ed il sangue di lontano lontano, attraverso le pagine dei giornali e dei romanzi, attraverso un prisma di mille colori. Il mondo di gesti violenti, quello che tormenta ed uccide, è a mille piedi di profondità, sotto di essi. Ebbene, ciò che risulta dalla somma di questi gentiluomini e di queste gentildonne è semplicemente orrendo. Fra poco essi santificheranno o quasi l’accusato. E quell’uomo pallido e dignitoso ringrazierà, con voce tremante, con la sua bella voce irreale, di baritono. Bene. E tu pensa una cosa. Pensa che cosa è in questo momento Viviana Gavarni, pensa all’orrore delle carni disfatte, alla oscenità macabra di quel corpo creato per l’amore e condannato a putrefarsi innanzi tempo per volontà di quell’uomo, per soddisfazione di una fiamma d’orgoglio, un attimo nel suo spirito. Ed egli uscirà di qui applaudito.
«Vi sono delle donne che lo amano per questa infamia!».
Mario, pallidissimo, lo interruppe, – Ecco Monaldo!... – mormorò – Nella sala si fece un gran fruscìo quasi di animazione.
Monaldo, in mezzo ai carabinieri, sedette, dopo aver girato lo sguardo sulla folla. Era divenuto più pallido. Gli occhi, cerchiati di un’ombra violacea, avevano un languore profondo e triste. Ma la bocca aveva riassunto la sua espressione finemente altera dell’uomo che rende conto solo a Dio del dramma svoltosi in lui.
Le signore si sporgevano dalla tribuna, per vederlo: una gli sorrise e lo salutò, ed egli gli rispose con un cenno gentile del capo.
Veramente, non sembrava un accusato.
Non aveva avuto che due o tre momenti di debolezza: quando gli avevano mostrato il corpo del delitto, la cesoia sottile ed affilata che aveva ancora la punta nera di sangue, e quando avevano letto le lettere di sua moglie, la prima volta aveva avuto un brivido così forte che avevano dovuto portarlo via mezzo svenuto. La seconda si era coperto il volto con le mani, ed era rimasto in quella posa, singhiozzando sommessamente, mentre le signore, il pubblico e qualcuno dei giurati piangeva con lui. Solo la signorina Pini, con gli occhi sgranati ed immobili, aveva bevuto tutta quella prosa oscena, come un liquore troppo forte, con le narici vibranti di voluttà.
Ora egli sedeva, immobile, con le mani bianche e sottili, aggrappate alla sbarra.
Mario vedeva tuttociò come nel tormento inesplicabile di un sogno. Sentiva l’antica ribellione destarsi in lui sordamente. Nessuno, se non forse l’accusato, nessuno vedeva ciò che i suoi vedevano; il corpo immiserito dalla morte, il sorriso disfatto dal terrore e mutato in un ghigno atroce, quell’orrida smorfia della creatura umana che, di fronte alle tenebre, ridiviene belva e fanciullo...
Quella visione triste, illuminata dalla luce dorata della lampadina elettrica, era terribilmente estranea al luogo. Chi pensava più alla vittima, la dentro?...
Era passato del tempo, molto tempo.
Ormai l’orrore del cadavere dorme sotto il mistero candido di una lista di marmo. Il fatto si era lentamente stilizzato nella mente del pubblico. La realtà sozza e sinistra si era cancellata. Era avvenuto per esso ciò che avviene per tutti gli avvenimenti, quando passano dallo stato di realtà osservata a quello di fatto ricordato: qualche particolare era stato soppresso, qualche altro esaltato, e l’episodio, pian piano, era stato modellato sulla forma letteraria che la società voleva: «il gentiluomo che castiga la infedele e corrotta consorte». Così la zuffa di due bruti ubriachi diviene «il duello rusticano», la povera donna che si affoga ingoiando l’acqua fangosa del fiume diviene «la creatura che ha trovato, nell’onda, la pace», e il soldato che stramazza, col cranio sfondato da un colpo, ubriaco di sangue e di polvere, «l’eroe che muore per la sua bandiera».
Tutti, ora, vedevano un’altra cosa; l’ultimo atto della Carmen o quello dei Pagliacci, un capitolo di Dumas o di Victor Hugo. La coscienza del pubblico non si forma alla Morgue!
Monaldo, pallidissimo, entrò fra due carabinieri. Era, veramente, divenuto più bello. Il pallore del suo volto si era accentuato stranamente, ed i suoi occhi, cerchiati di una tinta violacea, avevano una dolcezza più triste.
Il pubblico elegante che affollava la sala ebbe come un brivido di piacere. La suggestione di quella tragica storia di passione, il fascino orribile e dolce della morte, il compiacimento intenso e indefinibile di vedere innanzi a sè, in carne ed ossa, l’eroe di una di quella storie che passano nei ricordi come una visione, accendeva negli occhi delle donne una passione calda e vibrante.
Alcune avevano quella mossa inesprimibile del labbro, che indica il compatimento affettuoso, quasi materno; una signora inglese scoppiò in lacrime, clamorosamente, e tutti si volsero a guardarla.
– Vedi, riprese Mario Garbini, qui accade ciò che accade per i libri. Queste signore hanno tutte Gabriele D’Annunzio sul tavolo del salotto e Saverio di Montepin sul tavolo da notte; in segreto, come dei vecchi viziosi, si ubriacano di romanticismo, e quando un Sienkiewich o un Rostand permette loro di dare un tuffo nel chiaro di luna, o fra le piume del moschettiere, che urlo di gioia!...
«Ecco, esse possono leggere sul vivo, il loro romanzo di appendice. Io ho veduto, in Cina, applicata la tortura: era una cosa meno oscena e meno lurida».
Monaldo, le mani strette alla sbarra, volgeva lentamente l’occhio in giro. Il suo sguardo non esprimeva alcuna spavalderia, ma sembrava così limpido e triste, così pieno d’un dolore immobile ed inflessibile, che si aveva voglia di curvarsi nei suoi occhi profondi per scorgere la visione pallida che li addolorava.
Un usciere sospinse l’uscio di fondo e gridò con voce rauca: «La Corte!...» Tutti si levarono. Monaldo era così pallido che uno dei carabinieri volle sostenerlo pel braccio, ma egli lo schivò con uno sguardo pieno di grazia e di nobiltà.
Nella sala si fece un profondo silenzio. Tutti gli occhi erano rivolti ora al capo dei giurati: un omino calvo, dagli occhiali d’oro e dalla piccola barba a punta. Si vedeva il foglio di carta su cui erano scritti i quesiti tremolare nelle sue mani contro la luce pallida che cadeva dall’alto delle vetrate. La sua voce un po' agitata, lesse la formula sacramentale, poscia incominciò a leggere i quesiti. Il primo sì fece correre un brivido di terrore nella folla.
Si sapeva bene che malgrado tutta la loro buona volontà i giurati non potevano affermare che Monaldo non avesse ucciso Viviana, ma quel monosillabo netto e reciso, che consacrava la esistenza della colpa, fece la impressione di un rintocco di campana funebre. Qualcuno mormorò.
La signorina Pini disse: – Io graffierei quell’omino!...
E lo disse così forte, che il presidente si volse in alto a guardare con severità, ma quando vide quel musino dai capelli crespi, ebbe un sorriso paterno.
Del resto, i giurati erano stati esemplari.
Non c’era premeditazione, non c’era intenzione d’uccidere, non c’era nulla di nulla, invece c’erano tante di quelle discriminanti che un mormorio di soddisfazione corse per l’uditorio. Mario, che teneva gli occhi fissi nel volto del prevenuto, vide un tremito sommesso agitargli le labbra ed il volto, per un istante, per un istante solo, assumere l’espressione dell’anima bestialmente lieta. Poscia la maschera romantica si ricompose: Athos attendeva il fato!
Vi fu una breve sospensione, un rimescolio di piume e di strascichi. L’avvocato di Monaldo, attraverso i ferri della gabbia, gli stringeva affettuosamente le mani, mormorandogli delle parole alle quali egli assentiva con piccoli cenni del capo, senza abbandonare la dolce melanconia del suo viso.
Giorgio Bartel non parlava più. Il viso del giovane aveva assunto un espressione di ironia quasi dolorosa: – Poverino!... – mormorò tra i denti.
Mario pensava. Ora i suoi occhi vedevano con un senso di simpatia un po' attenuato, ma tuttora vivo, la campagna solitaria ed umida, con le sue piane gracili, tremante sotto alla pioggia, ed il ricordo dell’attimo in cui, curvo sul volto dell’uccisa, aveva veduto nei suoi occhi la certezza dell’imminente vittoria gli dava un senso amaro e violento di ribellione... Sentiva le sue mascelle serrarsi sotto uno spasimo acuto e gli nasceva nel cuore una torva volontà di tiranneggiare e di offendere quella folla profumata, che compiva sorridendo la santificazione dell’atto immondo.
Il tribunale rientrava. Il silenzio si fece di nuovo profondo. Vi fu un istante in cui si sentì il tic-tac rauco dell’orologio.
Il presidente si alzò: era un bell’uomo dall’aspetto severo: mento raso e lunghe fedine bianche; il tipo del vero magistrato all’antica.
– Monaldo Gavarni, disse egli (e la sua voce risuonò profondamente nell’aula silenziosa), Monaldo Gavarni, il tribunale degli uomini ti assolve. (Un fremito, subito represso, corse per l’uditorio; Monaldo divenne solo un po' più pallido). Ma vi è un’altra giustizia dinanzi alla quale voi dovete render conto della vostra colpa. Voi, benchè crudelmente offeso, benchè insultato nei vostri affetti più cari, benchè cedendo ad un impulso dello spirito di cui noi tutti se non sentiamo la giustificazione, sentiamo però l’origine non impura e spregevole, voi avete ucciso una creatura di Dio!...
Ed il dito del magistrato si levò al soffitto in mezzo al quale un enorme scudo sabaudo a chiaro scuro ostentava i suoi leoni a bocca aperta.
– E davanti a Dio, a quel Dio che vi ha dato la vita e vi ha affidato la vostra compagna, voi dovrete rispondere, poichè egli, come a Caino, vi domanderà: Che cosa hai fatto di essa?...
«Ed occorrerà in voi una lunga vita di espiazione e di bene, una lunga fatica di carità per i vostri simili, affinchè egli dimentichi il sangue che avete sparso.
«La società non vi giustifica, vi perdona!
«Andate, Monaldo Gavarni, e rendetevi degno del perdono di Dio!»
Monaldo si coprì il volto con le mani ed ebbe un singhiozzo sommesso.
Si udì nell’aula un applauso non troppo fragoroso, un applauso di gente bene educata, coperto da un «silenzio!» vibrato dal presidente.
Di fondo all’aula una voce gridò: Vigliacchi!...
Non si potè sapere mai chi fosse stato: qualcuno asserì che era stato un giovane dalla barba rasa, dall’aria un po' equivoca: certo un anarchico.
Ed i carabinieri fecero sgombrare con rapidità l’aula.