Luigi Lucatelli
Athos
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Capitolo XII Vox Dei

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Capitolo XII
Vox Dei

Quando Monaldo, compiute le formalità richieste dalla legge, discese le scale del tetro palazzo di Via Giulia, che si chiama ancora «Le carceri nuove», trovò sull’uscio tre amici ed un coupè.

La via Giulia, lunga e deserta, fra i suoi palazzi cinquecenteschi silenziosi, era tutta umida di pioggia e faceva pensare a quei canali delle campagne di pianura, allungantisi senza corrente e senz’onde fra i filari dei pioppi.

Egli abbracciò in silenzio i tre amici e pianse un istante sulla spalla dell’ultimo di essi; un signore dell’aristocrazia, cui una volta aveva servito da padrino in un duello.

Si fermò un momento ed istintivamente rivolse gli occhi al palazzo enorme, nero, irto di inferriate sporgenti: per un attimo gli biancheggiò innanzi agli occhi la visione desolata della sua cella umida che egli misurava a passi lenti, ascoltando le voci dei detenuti cantare a mezza voce qualche triste ritornello.

Ciò era finito, era il passato lugubre che scompariva: l’onda fangosa, che per un istante gli aveva spumeggiato d’intorno, si ritraeva, ed egli rientrava nella vita.

Salì in coupè e si assise accanto ai suoi amici. Egli era meravigliato di non provare alcuna sensazione interna. La tempesta di sentimenti inusitati che lo aveva quasi travolto, lo aveva anche stancamente assuefatto alle grandi sensazioni. Si era detto più volte: – Quando io uscirò in libertà, il cuore mi si aprirà di gioia: oppure i rimorsi mi assaliranno con violenza più acuta.

Invece egli non sentiva che una specie di tepore, una commozione mite e quasi carezzevole penetrargli nelle vene col lieve profumo di bulgaro che era nella vettura. I fatti che lo avevano urtato e ferito gli sembravano incredibilmente lontani. Egli constatava senza sapersene rendere ragione l’irrealtà delle frasi così frequenti nel parlare quotidiano: «Io ne morrei di dolore», o, «io ne morrei di gioia».

La morte sembrava un punto oscuro e lontano: A furia di sentirsi dire e ridire egli stesso: Non sono stato io che l’ho uccisa, è stato il fato! Questa frase stupida gli era penetrata nel cervello e vi aveva preso consistenza e realtà.

Il fato aveva finito con l’essere per lui un tentacolo mostruoso uscito dall’ombra e fatto d’ombra esso stesso, per avvinghiarlo in un istante. Ora l’oscurità lo aveva ripreso ed egli non sentiva più il lugubre fascino inesorabile avvinghiarlo tutto.

Era ritornato ad essere come un oceano oscuro, mareggiante a profondità inesplorata, sotto di lui.

I suoi amici gli avevano preparato un piccolo appartamento lontano dal quartiere in cui la tragedia si era svolta, affinchè nei pochi giorni in cui avrebbe dovuto trattenersi a Roma per sistemare i suoi interessi, prima di partire, alcun aspetto non avesse suscitato in lui ricordi pericolosi.

Che cosa avrebbe fatto ora?... Egli vedeva con gli occhi socchiusi, spiagge lontane piene di sole e di luce, paesaggi nuovi, tutto un mondo animato da un indefinibile sorriso. Ed ora, come in quel giorno fatale, egli non riusciva a mettere d’accordo il proprio io reale col gesto esteriore della vita. Egli doveva essere l’uomo pallido e triste, dannato da un ricordo atroce, austero e tragico, come colui che ha compiuto, sanguinando, una formidabile opera di giustizia, ed invece l’individuo vero, che dormiva in fondo a lui, non sentiva che una gretta, ingorda e inesplicabile volontà di vivere.

Tuttociò che aveva formato prima il contorno della sua vita, la comodità e i piaceri che egli non gustava neppure, tanto vi era assuefatto, gli sembravano ora, dopo quel periodo di gelo e di tenebre, piccoli tesori ignorati scoperti ad ogni passo.

Egli diceva a se stesso: io sono ricco!... e questo pensiero che non lo aveva turbato mai, gli dava ora un brivido segreto di voluttà.

Povero Monaldo!...Come devi soffrire!... – gli disse un amico posandogli la mano sul ginocchio.

– Oh!...Sì, orribilmente!... – rispose egli. E la frase gli venne alle labbra con tanta spontaneità, seguendo il corso della ormai antica visione, che gli occhi dei tre compagni si inumidirono.

Erano giunti. La carrozza si fermò avanti un piccolo villino dei Prati, bianco e solitario, in mezzo ad un piccolo giardinetto di alberi giovani.

Essi discesero: gli amici abbracciarono Monaldo e volevano accompagnarlo in casa, ma egli si accomiatò. Sentiva un vivo bisogno di trovarsi solo. Il servo che era venuto a riceverlo, muto e commosso, gli fece strada.

Egli attraversò il piccolo giardino quieto e silenzioso, in cui un cane di terra cotta sembrava guardare con grande interesse la propria immagine riflessa nella fontana, ed entrò in un piccolo andito dipinto a nuovo.

C’era nell’aria un odor di vernice e di abete, quell’odore fresco delle case nuove, che gli metteva in cuore un senso di pace e di riposo. Gli pareva d’esser lontano lontano, d’essere un altro uomo, poichè la sua vita, dopo la doglia acuta e triste, ricominciava anch’essa, tutta nuova...

Si fermò un momento nella sua stanza e pose la fronte ai vetri. Dall’altra casa, laggiù si vedeva un palazzo tutto bianco ed una finestra cui s’affacciavano sempre dei bimbi... Qui non c’era che un villino quasi uguale al suo, un po' distante, e poi, una grande oscurità, un gran vuoto senza case, in fondo al quale si vedevano scintillare due file di lumi.

Per un istante egli si sorprese a domandarsi vagamente come mal desto: Chi ci sarà in quel villino?...

Dietro le sue spalle d’un tratto, un mobile ebbe uno scricchiolio di legno nuovo; egli si volse di un balzo. Gli era rimasto nell’animo, come dopo una crisi di nervi, qualche terrore illogico e stolto. Fece scattare il commutatore della luce elettrica e respirò. Era una stanza semplice coi mobili di mogano scolpiti, e un tappeto oscuro per terra. Sembrava una piccola stanza d’albergo, senza una fisionomia propria.

Il servo si affacciò sull’uscio e lo chiamò: il thè era pronto.

Egli entrò nella stanza da pranzo, sedette davanti alla tavola dal tappeto di felpa e si lasciò penetrare dall’odore aromatico che vaporava dalla tazza di porcellana...

Ora egli non lottava più: era solo, e si lasciava andare alla grande quiete che nasceva in lui, alla gioia torpida dei sensi che si adattavano all’ambiente; accettando senza discuterlo questo beneficio che gli veniva dall’ignoto.

Ad un tratto volse lo sguardo a destra, sul tavolo, ed i capelli gli si rizzarono sul capo.

Non c’era nulla. Il posto, ove un tempo era un’altra tazza era vuoto. Un fiore bizzarro si disegnava sulla felpa, al suo posto.

Egli rimase chino su quel tappeto nuovo e decente, come sulla cavità aperta ed oscura d’un precipizio, in cui fosse appiattato l’orrendo mistero che l’intelletto umano non può afferrare, il nulla.

C’era, un tempo, un altro essere, una creatura come lui, che viveva un po' della sua vita, che era entrata nelle sue abitudini, che aveva un profumo a cui i suoi sensi si erano assuefatti, e prendeva il thè con lui.

Ora, al suo posto, c’era una cavità immensa, una cosa indefinibile e mostruosa, piena di gelo e di solitudine, il nulla.

Egli aveva creato tutto ciò.

Ebbe l’illusione che la finestra si fosse aperta ed il gelo della via muta in cui si soffre e si muore al vento ed alla pioggia, fosse penetrato nella piccola stanza.

Essa non esisteva più: Dalla mano di lui, dalla piccola mano bianca abbandonata sul tavolo, era partita la realtà spaventosa della morte.

Tutto il suo essere assuefatto alle sensazioni mediocri si contorceva e soffriva alla augusta presenza di questo mistero.

Come una volta, come nella notte in cui era fuggito urlando per la campagna vuota e sinistra, egli sentì la presenza di un essere invisibile vicino a , sentì con evidenza spaventevole, una mano fredda posarglisi sul collo, e sospingerlo, e comprese che essa non lo avrebbe abbandonato più. MAI...

FINE


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