Luigi Lucatelli
Come ti erudisco il pupo
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Quello che mi arricordo de le cose mie

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Quello che mi arricordo de le cose mie

 

capitolo I

Indove nacqui; e primi passi
nel sentiero (come sòl dirsi) de la vita.

 

 

Alcuni dinigratori vogliono sostenere che mio padre facesse il trippagliolo, e abbenanche io creda che indove c'è l'onestà non ci vole altro e la virtù si trova tanto in mezzo a la trippa quanto sui gradini del trono o in qualunque posto, a buon gioco, pure ci dico che non è vero.

No! Mio padre faceva l'abbacchiaglio e con tutto che sono passati tanti anni, quando vedo un abbacchio in mostra, aripenzo all'autore dei miei giorni e me ti sento un tinticarello qui.

Mio padre dunque ti spingeva avanti la barca a la meglio, mentre mia madre stava al bancone, per cui nacqui io e non mi vergogno della mia origgine, laddovechè tanti capoccioni, se si guardano addietro, vedono che sono sortiti magari da un posto peggio.

Accusì la mia famiglia mi tirò su a mollichelle, povero sì, ma intemerato, e tutti di casa mia siamo andati sempre a fronte alta, abbenanche che papà ci avesse la testa carica di penzieri.

Adesso non ti voglio posare a farti l'omo di genio, ma se il professor Lombroso mi avesse misurata la testa, avrebbe veduto che nun ero un omo come tutti l'altri, tantochè a mammà ce lo disse puro il cappellaglio: Questo ragazzo farà qualche cosa.

E mammà ci fece tanto impressione, che quel giorno mi arovinai i calzoncini novi, e lei ci passò sopra e chiuse un occhio.

Infatti un certo non so che di poco commune me lo sentivo: certe volte, mentrechè stavo in bottega, arestavo come un frescone, soprappenzieri, e papà mi voleva magari dare una zampata, ma mammà ci tratteneva la mano e diceva: Lasselo stare, che quello fa qualche cosa.

Una volta mi aricordo che al compare mio, che era caffettiere, ci arecitai una povesia letta in un libbro accusì bene, che lui mi voleva per forza al banco con lui, ma non se ne fece gnente per raggioni di famiglia.

A scola, andavo da l'Ignorantelli indove a furia di sventole su le mano, imparai a stare a braccia conzerte che ero il primo de la classe e abbenanche il prete mi andasse poco giù, tutti mi volevano bene, e il primo premio, quando nun se lo beccava un altro, l'ho sempre ariportato io.

Il lettore mi perdonerà se ci passo sopra al luttuoso avvenimento dei miei genitori, che morirono come si si fussero corsi appresso; ma mettiamoci una lagrima e, come sol dirsi, un fiore.

Avevo diciassette anni quando mi aritrovai solo e il negozio se lo prese un amico di casa che ci aveva le cambiali. Laddovechè mi arivoltai ai parenti e li andetti o trovare tutti, e ci arimediai dodici boni consigli, una pagnotella imbottita, il compianto universale e un calcio qui.

Fu allora che ti feci questa ariflessione: Accidenti, come è aspro il sentiero de la vita

 

capitolo II

Ercole al bivio, ovverosia
male non fare e pavura non avere.

 

 

Solo, scalcagnato, senza un bagliocco, ti affrontai il primo cimento che, si ci avessi ancora qualche cosa in testa, me si addrizzerebbe solo a pensarci.

Me ti ero inteso dire tante volte che abbasta averci la coscienza tranquilla che tutto va bene. Ma la prima volta che volli trovare un oste che mi segnasse, quando ci dissi che ci avevo solo la coscenza tranquilla, ti fece un zompo come una tigre e mi tirò la lavagnetta che ci faceva i conti, perchè dice che me lo aripassavo.

Gira che ti ariggira, ci confesso che incominciai a vedermela brutta, come diceva colui che ci aveva lo specchio rotto.

Dice: la via della virtù è piena di spine, e quella del vizzio sono rose, ma in fondo c'è la rupe Tarpea.

Tutte le sere, quando andavo a letto che era una poltrona a casa d'una zia, che faceva un po' il filantropo, dicevo: Non ne posso più; domani lascio la via della virtù e ti imbocco come un razzo quella del vizzio.

Laddovechè poi ci aripenzavo, e quando era per metterci il piede mi cascaveno le braccia.

Una mattina che me ne stavo al Pincio, indove ci ho avuto sempre un debbole per la natura e, povertà non è vizzio, ci avevo una fame che puro le violette mi pareva che odorassero di abbacchio a la cacciatrice, me ti passa davanti una signora col marito e una creatura di sette anni, la quale appena mi vidde, disse: Papà, guarda che faccia di frescone.

Il padre puro mi guardò e disse: È vero, quel giovinotto mi piace.

Io capii che la fortuna mi passava vicino e messi assieme una cosa che poteva puro parere un sorriso.

Ed eccoti che presero informazzione e gli entrai in casa come segretario, con l'incarico di ariordinare la scrivania del marito, e, a tempo perso, anche l'altri mobbili di casa, nonchè ci facevo qualche spesuccia e mi affidarono l'educazzione del figlio, che io portavo a scola.

In quella casa non mi ci trovavo male: lui era un impiegato grosso a Roma e Comarca e lei ci aveva uno zio monsignore che veniva sempre in casa, raggione per cui non ci amancava gnente, ma il rigazzino era un gran boglia.

Pigliate, salvognuno, un serpente a sonagli, metteteci una tigre, un effetto protestato, sciogliete il tutto in un dispiacere di famiglia e avrete sottocchio quello che era questo giovine anticristo.

Il padre nun stava quasi mai a casa per via de l'ufficio e perchè il zio monsignore dice che ci dava sempre qualche missione delicata: la madre poi ce le mandava tutte bone, e solo una volta che lui gli si soffiò il naso nel vestito novo, la prese con me perchè dice che ci insegnavo le idee suvversive.

Però lei era una signora caritatevole e ci aveva le piccole conomie per le opere di beneficenza, raggione per cui si il pupo gli sfasciava una cosa diceva: Oronzo, siete stato voi, e a me mi toccava di aripagarla e mandar giù la pirola.

Tuttavia ci sarei arimasto per un pezzo di più. Il monsignore mi aveva preso a benvolere e diceva sempre che rassomigliavo a un cane barbone che ci aveva avuto da ragazzo e che ci voleva molto bene, ma a un certo punto avvenne un fatto che mi aribellai.

Nell'occasione di una festa per un parente che rivava da fori, essendoci poco personale in casa, me ti volevano far fare da grumme, e quello che è peggio da grumme nero. Averei abbozzato per la manzione, ma quando mi dissero che dovevo farmi nero, diventai bianco come un panno lavato e dissi no; per via che toccami da per tutto che abbozzo, ma lasciami stare il decoro!

Aggiungeteci che la mattina, mentre tanto per ingannare il tempo, ariordinavo la cammera de la signora, che dormiveno separati, ti ci trovai una calzetta di monsignore e la pippa del cocchiere, per cui una parola è poco, ma due mi pare un po' troppo, e tre, ti diventa addirittura un discorso.

Allora presi il coraggio a due mani, portai la pippa e la calzetta a la signora e ci dissi: Favorisca liquidarmi, come sol dirsi, il mio avere, comechè lei mi insegna che l'africano non lo voglio fare e tanto meno qualche cosa di peggio, perchè oggi o domani, tanto ci potrebbe venire voglia di farmi fare il turco, la scimmia o l'osso di persica, quanto ci potrei trovare in cammara il bancone del pizzicagliolo.

E vi aggiunga che si seguito a pagare tutto quello che si sfascia, oggi o domani mi mettono in conto qualche cosa che non l'ho toccata mai e allora aresto in mezzo a un vicolo cieco.

Per cui lei ebbe pavura de la pippa e ci fu una mezza scena col monsignore, che si nun si metteva di mezzo il marito, feniva male.

E sortii: con pochi bagliocchi, ma libbero e a fronte alta, per via che il rigazzino mi aveva attaccato una scaletta di dietro, ma ci messi una pietra sopra.

 

 

capitolo III

Ti entro da un avvocato.
Inizzio de la mia fede pulitica. Entreno questi!

 

Quando ti sortii da quella casa nun mi trovai, salvognuno, come un pesce fuor d'acqua.

Stavo in buoni rapporti con un avvocato che mi aveva notificato lo sfratto di bottega e pensai di arivolgermi a lui per entrare in un posto purchessia.

Ed eccoti che mi presento, e lui che ci aveva un certo occhio, mi capì a volo e mi prese con lui a lavorargli nello studio indove c'era da fare un po' di tutto.

In quell'ambiente ci presi il gusto de la letteratura, per via d'un medico che ci bazzicava e che sapeva molte povesie a memoria, raggione per cui quando la sera facevano a scopone io me le aggustavo che era una delizzia.

Fenì che mi venne anche a me il tinticarello di fare qualche cosa, e un giorno ti buttai giù certi penzieri, ma il diavolo volle che fusse carta bollata, e lo scherzo mi costò mezzo stipendio di un mese, per cui mi persuvasi che le belle lettere sono un gusto da signori.

Il principale era un mezzo libbero pensatore, ma siccome era furbo anzichennò, lui te si sapeva barcamenare, e quando un convento di frati ci aveva una pendenza la metteva in mano a lui.

Però, quando non lo sentiva nessuno, diventava u leone, e allora, che ti voi vedere! Ti tirava fori Dante, Coladirienzo, il Macchiavello, la repubblica del 48 e via dicendo, raggione per cui me ti toccava di chiudere le finestre si no sentiva il spezziale incontro.

Lui per l'Itaglia ci stava, ma diceva che la pera non era matura, e che la rivoluzzione bisognava farla, ma con le bone, e non come faceva Garibbaldi, che con la prescia guastava tutto.

Da lui ci imparai un buggerio di belle cose, per via che era un omo istruvito e un mezzo idealista, come diceva lui; raggione per la quale stava sempre con la testa fra i penzieri alti, e le fine del mese si correvano appresso che era una bellezza, perchè si ci andavi a reclamare la paga ti esclamava:

«Sempre queste miserie! Come si vede che siete abbituvato in mezzo ai caccialepri!...».

E io stavo zitto e mi aricoprivo con la mia dignità, ma rivai a un punto che me si vedevano le dita dei piedi, raggione per cui mi feci coraggio e ci dissi:

«Egreggio signor avvocato, io capisco che lei sta sempre in mezzo allo studio con quei libbroni e l'affari dei frati che levati, e nun pole abbassarsi fino a queste miserie; ma si ci ha un rifiletto di tempo, pregola darmi una smicciata a le scarpe e vedrà che nun le posso più persuvadere di andare avanti. Nun fo per dire, ma sono tre mesi che sto con lei e ieri mi è toccato rivare fino a Sant'Onofrio per farmi prestare due pezze da mettermi ai calzoni.

«Lei dice che oggi o domani entreno questi, e allora ti alziamo lo stendardo de la libbertà, ma la prevengo che il coco mi arifila le porzioni e quando si aricorda del pane mi pretermette il companatico. Ne consegue che quando entreno questi, lo stendardo de la libbertà gli toccherà a alzarselo da , perchè si nun trovo uno scontista che mi presta il fiato, con quello che ci ho nun glie la faccio davero».

Lui mi guardò e fece un sorrisetto amaro; poi disse:

«Come siete materiale!... Si vede che l'ideale nun lo sentite!... E io che, quando ti sento la marcia reale, qualunque cosa ci abbia, ti divento un altro».

Così fu che mi dette una lira, che allora si chiamavano papetti, ma l'affare della marcia reale era un po' esaggerato perchè quando perse l'affare del lascito dell'Orsoline, e io gli andetti in cammera facendo: «Tarazun, tarazun, tarazun!», lui mi tirò una scarpata che, se mi piglia, addio Oronzo!...

Detto un fatto ti riva quel gran giorno che sentimio le cannonate da tutte le parte e la superiora delle carmelitane si aripparò da noi allo studio suo per pavura di qualche palla.

Era tanta la pavura che volle stare allo scuro.

A un tratto ti sentii li strilli, le trombe e la voce de la libbertà; me si messe una cosa davanti all'occhi, aprii la porta de lo studio e strillai: Sono entrati!...

E la superiora strillò: Uddìo!... ha visto tutto!...

Per cui a la sera ebbi il benservito, persi il posto e l'avvocato mi liquidò trenta papetti di arretrati.

 

 

capitolo IV

Indove mi si aprono tre porte e ottengo il posto.

 

Entrati questi, io mi ti arimasi di fuori e per circa quattro mesi tirai avanti pascendomi di illusioni al bengalla, e di entusiasmi giovanili, e ero rivato al punto che quando mi soffiavo il naso facevo piano piano per pavura che mi arestasse l'anima nel fazzoletto.

Dagli oggi, e aridagli domani, la miseria mi faceva da battistrada e mezz'ora prima che io arivassi in un posto, vi si sentiva la puzza di saccocce vuote. Di questo passo ogni tanto mi toccava, con rispetto parlando, di farmi il massaggio allo stommico perchè mi si appicicava il bellicolo a la spina dorsale.

Finalmente, come Dio volle, incominciò a vedercesi chiaro e, cerca di qua, cerca di , ci furono tre persone di core che mi apersero tre vie davanti. Fu allora che dissi quella frase celebbre: Oronzo, occhio a la penna!

La prima via fu uno dell'ecchese cummitato intransiggente che mi offrì un posto da guardia di Pubblica Sicurezza, e quasi, malgrado che mi piacesse poco, averei accettato, per via che la fame era rivata a un punto che la vedevo come vedo questa creatura mia, ma quando mi vidde un amico commune disse: Questo, i ladri se lo bevono!...

E accusì non se ne fece gnente, ed eccoti la seconda via, che me la offrì la vedova dello zio caffettiere, offrendomi un posto nell'amministrazione dell'azzienda; ma un giorno mentre, tanto per ingannare il tempo, lavavo uno scioppe, mi arestò il manico in mano e questo fu il pomo della discordia, sul quale si dividessimo.

 

La terza via fu la prima signora indove ero stato come segretario, la quale non essendoci più l'ufficio di Roma e Comarca e comechè fusse morto lo zio monsignore, il marito lo fecero diputato d'opposizione e mi fece un bella riccomandazzione.

Quando mi presentai dal ministro (non ci dico il nome perchè adesso è senatore e guai se lo sapesse la governante) ammalapena lesse il nome di lei ci si arifecero un par d'occhi accusì e disse: Ma le pare?... Vedremo di servirla subbito!

Allora chiamò il segretario dietro il paravento e sentii che ci diceva:

Veda di mettermi a posto questo frescone!... E allora dissi fra me: Stiamo a cavallo!... Eccoti come fu che in quattro e quattr'otto mi feci fare la rimonta a le scarpe, acquistai una soprammanica e, come una palla, entrai al fondo culto, indove non mi presero fisso, ma in seguito venne l'organico.

 

 

capitolo V

Avventure, come sol dirsi, di gioventù e capito in Filodrammatica.

 

Abbenchè questo libbro sia fatto con lo scopo precipuvo che un giorno mio figlio lo tenga in mano, puro non voglio pretermettere anche le piccole cose, accusì l'omo ti zompa fori in tutti i suoi particolari. Dice: Ma questo Oronzo era puritano? Non signore: qualche boglieria l'ho fatta puro io e siccome ho detto di metterci tutto, puro questa ci deve entrare.

All'angolo del vicolo delle Colonne di Massimo, che adesso nun c'è più, allora c'era una tabbaccaglia indove ogni giorno ci pigliavo il solito toscano.

Adesso non fo per dire, ma abbenanche non fussi un Adone, un certo non so che di povetico ce l'avevo, e compra un sighero oggi, una scatola di fosferi domani, oggi cambia una lira, domani ci dai un'occhiata sentimentale, doppodomani acquista un gioco dell'oca, il giorno appresso prendi due soldi di spuntature, sgnaccaci un sospiro, facci una risatina, eccetera eccetera, fenì che ci detti nell'occhio.

Un giorno mi accorsi che mi sorrideva, e allora mi sentii qualche cosa ne la panza che mi diceva: Oronzo, ci siamo e ci resteremo.

Ad ogni acquisto lei mi faceva una risatina, e quel giorno in capo a la sera avevo arimediato diciassette risatine, ciovè due soldi di sale, quattro scatole di ciragge brillante, sei soldi, in varie riprese, di pignoli e passerina, venti centesimi di zio Bibbo o zibbibbo come dice la plebbe, cinque lacci per le scarpe, sei toscani e un'oncia di polvere di mattone.

Fra di me feci questa ariflessione: Si riesco a seguitare così per una settimana, sono a cavallo.

Disgrazziatamente, un po' per economia, un po' a furia di zibbibbo e zucchero d'orzo mi si era indolcita anche l'anima dei trapassati, e la cosa s'incominciò a mettere male, indovechè la signora Giuditta che mi affittava la cammera credo che ancora allustri i cucchiarini con la polvere di mattone del mio primo amore.

Tuttavia i ferri si andavano ariscaldando e un giorno presi il coraggio a due mani, acquistai un foglio di carta che levati e ci scrissi una lettera che averebbe intenerito il cuore di madama Lucrezzia che, salvognuno, è tutta in travertino.

Detto un fatto, mi metto il pappiè in saccoccia, mi arriccio i baffi, ti passo dal barbiere e vado sul posto, che strada facendo mi sentivo una palla qui.

Ma appena entrato in negozio ti trovo il marito con cert'occhi che parevano due ovi frittellati il quale mi fa: «Eccoci il toscano, che è l'ultimo che lei compera in bottega mia, indovechè ci si aricapita ci fo magnare il spuntasigheri».

Che avrei dovuto fare?...

Ci penzai e aripenzai, ma tutto il giorno mi sentivo lo spuntasigheri di Damocle sospeso sulla testa, e ci dovetti mettere una pietra sopra.

Allora, ce lo confesso, volli obliare, e mi detti a lo stravizzio, raggione per cui ti passavo le sere al caffè immerso nella bazzica e granata, ovverosia scopa, come dice la plebbe; mi veniva un'idea nera e la schiaffavo nell'orzata, ci avevo un penziero triste e lo ficcavo nelle nocchie capate. In breve ti diventai un viveurre scapigliato e si seguitavo un altro po' a bazzicare la gioventù dorata fenivo in mezzo a un piccolo vicolo.

Una sera mi aricordo che arimasi sospeso tra due penzieri, uno che era un biglietto per la filodrammatica Stefano Pecioni al Vicolo de le Palle, che si facevano i Due sergenti, l'altro era la solita via del vizzio.

Arimasi un po' sopra penzieri: rimira un poco fresche, direbbe il filosofo, da quali piccolezze ti dipende l'avvenire d'un omo!... Feci fra me: Adesso passa quel cerinaglio: se volta a destra vado al caffè: se va a sinistra ti vado in filodrammatica.

Il cerinaglio si messe a sedere sul cantone e allora, a rigor di termine, ti avrei dovuto prendere una via di mezzo fra il vizzio e i Due sergenti, ma un pizzardone lo cacciò via, e detto un fatto, mi trovai sulla via della filodrammatica, che mi aricordo come adesso, portavo i calzoni di picchè bianco e ci avevo il cravuse per via d'un buco dietro.

Accusì fu che conobbi Terresina.

 

 

capitolo VI

Conosco Terresina.

 

Pareva che il core me lo dicesse, che qualche cosa di grosso mi doveva rivare, perchè quando fui su la porta arimasi un altro momento fra il sì ed il no, fintantochè presi ed entrai.

Eccheti che mi messi in una poltrona e mi cominciai ad aggustare lo spettacolo, che era una vera schiccheria.

Un certo panciante per l'arte ce l'ho avuto sempre, e ci assicuro che si invece di inficcarmi ne la burocrazzia acchiappavo le tavole del palcoscenico, qualche cosa di grosso succedeva.

In sostanza, ci dico che fenii col prenderci parte e quando quel boglia di Valmore ci imbrigna per la fucilazzione di quei due disgrazziati, mi veniva voglia di dirci: Vieni giù in platea che me ti aripasso io!...

Abbasta, il fatto è che Terresina, la quale ancora era ragazza, ci faceva la parte di Sofia e quando riva il punto che lui se ne vole andare e ti strilla: «Si il cielo, l'inferno e l'altre boglierie mi fanno malloppo, io ci ammollo una zeccata e ti passo oltre come una palla!», lei ci si agguantava addosso e ci diceva: «Arimirami queste due creature che ci ho davanti, fallo per loro!», io mi sentii un nonsochè che mi veniva su e poi riandava giù, e fenì che mi soffiai il naso come si ci avessi avuto dentro un nimmico personale.

Abbasta, fenita la rappresentazzione, si incominciarono i soliti quattro salti, e un amico mi presentò a la protagonista.

Adesso sono passati molti anni e un po' per questo, un po' fra il debbito del signor Bonaventura e le disillusione, la povesia se n'è andata, ma ci assicuro che quando mi ci avvicinai e ci dissi: «Signorina, mi accorda un valzere?» mi parve di sentire una voce che diceva: Questo valzere leghetelo al collo, perchè te lo ricorderai fino che campi.

Abbasta, non fo per dire, adesso che queste cose nun ce si penza più, ma allora ti facevo un valzere saltato con certi molleggi che, me li saluta lei?...

Fenito di ballare andassimo al buffette, indove ci offrii un supplì e intanto che ci arinfrescavamo ci feci:

«Ma sa, signorina, che lei recita divinamente?».

Lei mi fece un sorrisetto e disse:

«Lei è molto buono, mi arangio come posso, ognuno si agliuta con l'ugne sue».

Abbasta, quella sera, quando tornai a casa me si incominciava a confondere il passato al presente e mentre mi magnavo l'ultima cartata di zibbibbo della tabbaccaglia, me ti venne come un rimorso; aprii la finestra e la buttai via, insieme con due scatole di ciragge e un laccio de le scarpe che tenevo fra le paggine dell'Ebbreo Errante.

La notte mi sognai i due sergenti che si litigavano Terresina, e l'agliutante Valmore che abbracciava Sofia e uno spuntasigheri che gli agliutava con l'ugne sue.

Per farcela breve, tutte le domeniche aritornai a la filodrammatica e in capo a un mese sapevo i Due sergenti come l'avemmaria e una sera che il caporale Senzaffanni era indisposto, mi prestai gentilmente e me la cavai con plavuso di tutti.

Dacci oggi e ridacci domani, l'amore, salvognuno, è come un pedicello che, più lo stuzzichi e più s'infiamma, fintantochè nun ti viene a capo.

E fu così che una sera aripresi la penna e ti scrissi la seguente lettera:

 

Egreggia signorina,

L'altra sera lei notò che io ero pallido e mi disse che ci parevo Iacopo Ortise: ci confesso che per ci ho avuto quasi un moto, come sol dirsi, di aribellione e di gelosia, ma poi mi sono informato e ho saputo che è il fatto d'un libro.

Nun so se i miei sguardi, le mie parole e l'inciampicone che presi entrando in palcoscenico perchè lei, mi guardava, ci hanno fatto capire quello che ci ho dentro: ad ogni modo come disse Cesare alla Berresina, il dado è tratto, e si lei nun mi ha penetrato, adesso ce lo dico io.

Ci assicuro, però che ne lo scrivere queste parole mi trema la penna e gli occhi mi fanno piccolo fico, ovverosia fichetto, come dice la plebbe.

Ebbene, sì, ce lo confesso: io l'amo!

Lei dirà: Che frescone!... Che cosa si è messo in testa?...

Sono in un tale stato che nun so più quello che mi metto in testa, in bocca o ne la froce, salvognuno, del naso, e ne consegue che mi aspetto un sì che mi farà schioppare da la gioglia, che si, mi puti il caso, fosse viceversa un no, si aspetti di aricevere la notizzia de la mia morte, con tanto d'ombra implacabbile che ci verrà a sturbare le notti.

Attendo la sua risposta col cuore appeso, salvognuno, a un filo.

 

Il suo

Oronzo E. marginati.

 

La sera a le otto, dopo i Due sergenti, me ci avvicinai e, senza che se ne accorgesse nessuno, ce la messi in mano.

 

 

capitolo VII

Bazzico per casa di Terresina e conosco il sor Filippo.

Il matrimonio.

 

Nun ci so dire con quale lippe ed ezziandio lappe arimasi durante i dieci minuti che tennero dietro a questo fatto.

Me te ne andetti pel vicolo ceco dietro la filodrammatica e era tanta la confusione, che mi ficcai il sighero acceso in bocca all'incontrarlo, e mi scottai il labbro di sotto, ma la trepidazzione era tale che ci messi una pietra sopra; e passai oltre.

Mi sentivo il core che mi faceva ticche tacche, come il patocco d'un orologgio e ogni tanto pigliavo la rincorsa per arientrare, ma su la porta facevo un pirolè e ritornavo indietro.

A la fine ti acchiappo il coraggio con le mano e con i piedi, mi metto a correre e ti entro come una palla: la trovai che la madre ci infilava il paltoncino, e ci detti una guardata che lei capì a volo d'uccello.

Di prima botta capii che si metteva bene, e quando fummo al portone lei mi fece:

«Nun vede, signor Oronzo, si che bella luna?... A che cosa ci fa pensare a lei?...».

«Mi fa pensare, ci arisposi io con un filo di voce, che si lei mi dicesse di sì, mi parerebbe di toccarla, salvando il dovuto arispetto, con un dito».

Fu allora che a la madre ci cascò l'ombrellino e arimanessimo soli, per cui quando l'ombrellino fu raccolto me ci feci davanti e ci dissi: «Signora, mi accorderebbe, esempligrazzia, la mano di sua figlia?...». E lei arispose: «Abbasta che sia contento il sor Filippo».

Fu così che ci entrai in casa.

Il sor Filippo era un amico di casa per cui, come diceva la madre, aveva veduto nascere Terresina e doppo la morte del padre, che era maestro di casa del principe Mazzetti, ci era seguitato a andare come ci andava prima. Siccome era una persona per bene, impiegato a la Minerva e ci aveva qualche cosetta fori, accusì era una specie di appoggio morale e loro si consigliaveno sempre con lui.

La prima sera che ci andetti in casa ci trovai puro lui e facessimo una piccola aribbotta. La madre che era la signora Concetta, mi fece vedere i capelli del defunto, che ci aveveno aricamato un quadro con un salice piangente, e poi un tappeto di scatolette di cerini, col merletto di stama indovechè dice che Terresina ci aveva le mani d'oro e il sor Filippo puro diceva di sì.

Al sor Filippo ci feci una bella impressione e disse che per Terresina ero proprio il marito che ci voleva.

Anzi, un giorno facessimo una passeggiata io e lui, che si vede che la madre era d'accordo, e accusì una parola tira l'altra, mi domandò quanto pigliavo, si ci avevo qualche follia, come sol dirsi, di gioventù e mi fece: Abbasta, dice, io sono omo di mondo, conosco la vita e sono stato nella pulitica tant'è vero che ci curse un pelo che non mi presentassero a Bettino Ricasoli, perciò l'ommini li conosco a volo, e spero che lei la farà felice; in ogni caso eccoci un amico come ce ne sono pochi. Su la qual cosa ci stringessimo la mano e credo di averci mantenuto per lo meno la parola, comechè ci avrò tutti i difetti, ma come marito sono tutto d'un pezzo, e dal giorno che ci dissi di sì davanti al Sindaco, Terresina ci pole dire che pochi ommini seppero abbozzare come ho abbozzato io nelle boglierie de la vita.

Accusì, una bella mattina di primavera facessimo il matrimonio, col rinfresco che ce lo offrì la zia caffettiera e una bella povesia del sor Filippo, il quale era un sonetto che diceva accusì:

 

Esulta, Oronzo, esulta Terresina!

Ora di gioglia imperitura è questa,

poi che 'l giocondo Imen ti s'avvicina

e a redimerti appressasi la testa.

 

Al casto fronte il labbro s'avvicina

e tutta la natura si aridesta,

e se fia che in un'epoca vicina

un pargoletto venga a farvi festa,

 

sovvengavi colui ch'or ve l'augùra,

come v'augùra pur prosperi i fati

del dolce Imen fino alla sepoltura.

 

E stringendoci insiem tutti abbracciati

gridiam dal monte fino a la pianura:

O sposi veramente fortunati!

 

E quello, si nun fusse stato un boglia che si volle divertire a mandarmi una lettera anonima indove mi dice beccaccione, fu il più bel giorno della mia vita, che alle 2 partissimo per Frascati.

 

 

capitolo VIII

Contraggo il debbito col signor Bonaventura.

 

A riguardo alla luna di miele ci passo sopra, tanto per non stuzzicare il santuvario della famiglia, comechè queste cose più si mucinano e peggio è.

I primi mesi di matrimonio fussimo come due piccioni e tubba che ti aritubba, un bel giorno la sora Concetta bonanima sua si arese defunta.

La socera sarebbe quella cosa come, salvando il dovuto arispetto, certe cose che tutti ne dicheno male, ma tutti ce l'hanno, e oltre la tomba non vive odio nimmico nemmeno per il formaggio, ma tuttavia mi ci arisico una lacrima e un fiore.

Proprio boglia non era, ma ci aveva quel vizzio che ogniqualvolta ci accadeva una cosa purchessia che nun ci andava bene, eccoti che ci veniveno le convulsioni e ti si metteva a strillare: Indove sta mio marito che mi teneva come la rosa al naso!...

E con questo affare della rosa e ezziandio del naso, quando ci aveva l'attacco dava via pignoli e colpi di babbuccia o ciavatta, come dice la plebbe, dimodochè mi inficozzava la testa e mi aridusse la pace di casa che non si ariconosceva più.

 

Poi diceva che io ci avevo il fare plebbeo e che si campava suo marito bonamina, sua figlia averebbe portato una coda lunga accusì e tutta di pelusce, tantochè un giorno ci dissi:

«Signora Concetta, io non vi posso tenere come la rosa al naso perchè i mezzi non mi rivano, e lo vedete che si va avanti, come sol dirsi, a mollichelle; ma non si pole prenderla con me perchè ci ho una bona volontà che si la vedete vi piglia, salvognuno, un caso imprevisto, o accidente, come dice la plebbe; con quale vi confermo che in fatto di coda bisogna che Terresina abbozzi e tiri avanti con quello che passa il convento, ariflettendo che col tempo riveremo puro al pelusce».

Invece sono passati tant'anni e stiamo ancora a la cottonina da mezza lira al metro, vero fallimento. Ma chi lo sa che un giorno non ti spunti tanto di sole dell'avvenire o qualche altra boglieria.

Abbasta, chiudo la parentisi e ci vengo al fatto che la sora Concetta arestituì l'anima a chi ce l'aveva data, e per quanto le cose si facessero in famiglia, bisognò metterci una pietra sopra e le spese furono grosse.

Una mattina feci i conti, chiamai Terresina, e ci feci: Son dolente di dirtelo, ma siamo andati di sotto.

Lei mi guardò con un sorriso e disse:

«A me mi abbasta il tuo cuore e, salvognuno, una capanna».

Viceversa, si ci avessimo avuto una capanna se la saressimo almeno affittata, invece il garzone dell'orzagliolo ci veniva a fare le sgaggiate, e il macellaglio che ci portava la copertina a casa, disse che mi faceva l'atti.

Accusì fu che un giorno quel compagno mio d'ufficio coll'erre moscio di famiglia decaduta, mi disse: Stia tranquillo, che in ultima analisi la presento al sor Bonaventura.

Il quale sor Bonaventura era uno scontista che vendeva l'ogliografie e i servizzi da tavola a rate settimanali con una bona firma e era stato usciere puro lui al Fondo culti. Lui ci disse che non era lui, ma una terza persona, e doppo una settimana facessimo l'effetto, dopodichè l'ho rinnovato un migliaio di volte e me ne trovo accusì bene, che si putacaso moro, si l'inferno c'è, e ci vado io, lui ce lo trovo come una palla e ci do certi mozzichi in testa, che quelli del conte Ugolino diventeno casti baci.

 

 

capitolo IX

M'entra in casa il sor Filippo

 

Dacci oggi e ridacci, salvognuno, domani, questo fatto del signor Bonaventura, che doveva essere come chi dicesse un'ancora di salvezza, mi diventò invece un pricipizzio nel quale più bagliocchi buttavo e più me ce ne volevano.

Ogni giorno che mi passava era una boglieria nova, e si facevo tanto da attapparti un buco, ecco che te ne zompava fori un altro, per la qual cosa andavo sempre dicendo tra di me: Nun si riva, nun si riva, nun si riva.

 

Fu allora che Terresina ci venne fori l'ideale infranto, la pianticella che intristisce nell'ombra, l'omo plebbeo, la piaga insanabile e tante altre boglierie per le quali i capelli, comechè ancora ce l'avevo, mi si addrizzaveno in testa.

Raggione per cui, appena rivata davanti al canapè ci pigliavano le convulsione e un giorno ce si trovò il sor Filippo che abbuscassimo un pignolo per uno e dicessimo di commune accordo: Passiamoci sopra.

Eccoti che il sor Filippo, ci morì la padrona di casa indove ci stava da diciotto anni, e un giorno che io e Terresina facevamo i conti per vedere si si poteva arinnovare il miracolo, come sol dirsi, dei pesci, nonchè dei pani, mi riva a casa e me ti fa la seguente proposta:

Dice: «Sa, io sono un omo che ci ho certe abbitudini, come diceva Bettino Ricasoli bonanima, quando ci corse un pelo che me lo presentassero, e abbenanche non mi sia fatta una famiglia, mi ci scapperebbe di averci puro a me due bagliocchi di focolaglio domestico.

«Coi quali, come lei vede, io ci ho qualche incommodo e mi piace l'ordine in famiglia e lei vede che si poterebbe fare tutto un molloppo, comechè nun fo per inficcarmi indovi non mi tocca, ma puro a lei nun ci farebbe danno un piccola spinta.

«Pigliamo una casa con una cammera di più e si alla signora Terresina nun ci dispiace, quello che mi tocca ce lo do tutte le fine di mese e tiriamo avanti accusì».

Detto un fatto, lo dissi a Terresina e lei puro annuvì e il giorno doppo, mentre io stavo all'ufficio, si messero in giro loro due per trovare la casa e a Terresina ci servì per distrazzione.

A questo punto faccio, come sol dirsi, una sosta e do libbero sfogo a un cosidetto giusto risentimento, che ce l'avevo su lo stommico da un pezzo.

Nel bollore della lotta pulitica vi fu un boglia che, aripparondosi dietro il baluvardo dell'anonimo, intinse la penna nel bidone del fiele e con animo boglia, nonchè dilibberato, mi scagliò la freccia come sol dirsi, del parto.

La quale mi pizzicò proprio nel santuvario della famiglia che però l'arispingo sdegnosamente.

Non ci voglio stare a dire la cosa in tutte lettere, ma il lettore intelligente l'acchiapperà a volo, laddovechè io, il sor Filippo e Terresina siamo, salvognuno, abbastanza gentilommini per sentirsi superiori a certe boglierie, e questo signore che si so il nome ci sgnacco due amici, il menagge a tre ce lo avrà lui e lo spirito vile di suo nonno ganimede, overosia l'animaccia di nonno paino, come dice la plebbe. Si ci potessi parlare a quattrocchi ci direi:

Suino, che è come chi dicesse porco, anima nera, vassallo scostumato e zozzaglione, si vede che a casa tua ne hai viste, salvando il dovuto rispetto, di tutti i colori, ma si vieni a casa mia, indove ti arivolti e per quanto guardi per tutti i buchi nun vedi che montarozzi d'anime intemerate e fagotti di coscenze tranquille, comechè a Terresina ci pòi cercare puro il pelo, a bon gioco, nell'uovo, che su quell'affare non ci è stato mai gnente di dire.

Il sor Filippo è un uomo tutto d'un pezzo e pole dirlo lui si a casa mia è custodito come si deve, si la mattina non trova sempre i pedalini al posto loro. Pigliatelo, rivoltatelo da tutte le parte, e se ci amanca verbigrazzia, un bottone, me ne faccio strappare due e magari tre.

Abbasta, facciamo come diceva Michelangelo: Non ti curare di loro, ma guarda, sputaci in un occhio, facci tanto di scongiuro, mostraci il tuo disprezzo, fumaci mezzo toscano sopra, e passa.

Per farcela breve, si stabbilissimo insieme, e allora le cose incominciarono a camminare con le gambe loro, come puro Terresina si fece un po' più tranquilla e il sor Filippo dette una spinta a la barca.

Raggione per cui una sera a cena ti accade che Terresina, credevo che fusse l'abbacchio che ci avesse fatto male, e invece mi tirò in un cantone e mi disse:

Dice: «Oronzo, non fo per vantarmi, ma azzeccaci un poco?... Sono madre».

E io mi sentii come una gran botta in testa, che erano le viscere paterne.

 

 

capitolo X

Me ti nasce il pupo.

 

Il giorno appresso venne la Signora Assunta, che sarebbe la mammana e mi confermò la cosa.

Ci assicuro che provai una sensazzione nova e che quando sortii per la strada mi pareva che tutti mi dovessero insegnare col dito come per dire: Quello nun è un frescone, ma viceversa è padre.

 

Puro a l'ufficio si accorsero che ci avevo qualche cosa di novo che mi traspariva pelle pelle, e mi aricordo che a un certo punto non mi potevo tener più e sbottai col più anziano, ma lui mi arispose: «Uno, pupo; ottanta, genitrice», e al terzo nummero ci dissi frescone e lo piantai.

Quello coll'erre moscio di famiglia nobbile decaduta mi allungò una guardata e fece: «Beato voi che credete alle gioglie de la famiglia».

Lui era pessimista, che sarebbe come chi dicesse uno che ci ha sempre come l'ammoniaca sotto al naso, e porta sempre la sigheretta smorzata.

Abbasta, si devo dire la verità, le gioglie de la famiglia mi fecero tribbolare un bel po' perchè a Terresina durante la gestazzione ci venivano tutte sorta di voglie e mi toccava a farmi in quattro per contentarla, si no c'è il caso che il pupo mi nasceva tutto a l'incontrario.

Per darci un esempio, è capace che di notte d'un tratto me ti faceva un gran zompo e si metteva a strillare: «Oronzo, voglio una beccaccia, datemi una beccaccia, si no moro!...».

Robba, ci dico, da far venire i geloni a Pasquino, laddovechè trovai aperto solo un oste che ci aveva un beccafico e lo travestissimo da beccaccia.

Un'altra notte, eravamo di dicembre, ci viene la voglia della corallina e il sor Filippo tanto si messe in giro che glie l'arimediò.

Quel povero sor Filippo abbasterebbe quello che fece in quella circostanza per aricordarselo tutta la vita: e nun si possono dire l'attenzione che ci usava a Terresina.

Rivò fino al punto che una notte che ci presero le dogliette curse a chiamare la mammana, che viceversa era un falso allarme.

Abbasta, dacci oggi, dacci domani, la cosa cresceva a vista d'occhio e la sora Assunta affermava che era maschio per via che ci aveva la sporgenza davanti.

Incominciassimo quindi a discutere il nome del nascituro che tanto io quanto il signor Filippo che era il compare, volevamo darcelo, e quell'erre moscio pessimista disse: «Pigliate una via di mezzo e metteteci nome Filipponzo o Oronzippo», ma si vede che le disillusione ci avevano dato in testa.

Abbasta, il gran giorno si avvicinava a gran passi e il nascituro stava , tantochè tutte le sere, quando venivo fra le parete domestiche, mettevo prima l'orecchio al buco de la chiave, per paura di trovarmi davanti a l'improvviso il frutto de le mie viscere.

M'aricordo come si fusse adesso che era una sera che tirava la tramontana e Terresina stava per andare a letto, quando me ti fa, dice: «Uddìo, Oronzo, vi siamo!...».

Io mi sentii un'altra botta fra capo e collo e corsi a chiamare la mammana, intantochè il sor Filippo ci faceva la camomilla.

Fu tanta la prescia che mi messi i calzoni a l'incontrario. Strada facendo mi sentivo una cosa in testa che mi stava stretta e era il cappello del sor Filippo che me l'ero messo dall'altra parte.

Come Dio volle rivò la mammana ed ezziandio la zia di Terresina che c'era passata tante volte, nonchè venne la sora Adalgisa, quella che abbitava di sopra.

Io e il sor Filippo arestassimo in salotto e lui mi voleva fare coraggio, ma ero così aggitato che mi soffiai il naso al boa della sora Adalgisa, che doppo ci toccò di dire che c'erano passate le lumache.

A ogni strillo me si addrizzaveno quei quattro peli che ci avevo sul capo e il core mi faceva come un botto dentro. A un tratto ti sentiamo un gran strillo: che è e che non è, me ti si apre la porta, ti vedo comparire la mammana con un malloppo in mano che si moveva e mi ti dice: «Signor padre, guardate si che bel maschio!..,»

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Io e il sor Filippo si gettassimo uno nelle braccia dell'altro.

 

 

capitolo XI

Mi zompano nella promozione.

 

Vi è un proverbio che dice. È meglio essere ricco di carne che di bagliocchi, come a dire che è meglio averci un figlio che un biglietto da mille, con la differenza che al biglietto da mille non ci vonno scuffiette e al pupo invece abbisogna darci tanto di zinna, quando non riva fino a rovinarti i vestiti.

In una parola, al pupo ci fu messo nome Filippo Oronzo Teodoro Spiridione e se lo allattassimo in famiglia, che nun fo per vantarmi, ma il latte di Terresina era un butirro.

 

Ne nacque che all'ufficio si formò la lega di resistenza fra il personale e si incomiciassimo a aggitare perchè volevamo, salvando il dovuto rispetto, l'organico che sarebbe quel meccanismo, per cui uno entra con lo scappelloto e poi si trova fisso. Mi ricordo che la prima adunanza la facessimo a la Posta vecchia e quando ti viddi che due minuti prima si davano del profumone e facevano magari a scopa per ingannare il tempo fra una pratica e l'altra, mentre si dicevano egreggio collega e mi dettero perfino del preopinante, mi aricordai il bel tempo de la filodrammatica e ci presi un gusto grosso buggero e buggerone (come dice la plebbe).

Domandai la parola con la stessa trepidazzione con cui avevo domandato Terresina, e me la dettero. Fu allora che ti scaricai una loquenza che tutti mi staveno a sentire, indovechè ci feci notare che si si aggita la piazza, quattro carabbigneri e siamo al posto, mentre si si aggitiamo noi, le pratiche chi te le scrive?... E si nun vi siamo noi per mettervi le cose negli atti, mi fa il piacere di dirmi come ti va avanti il paese?... E il baluvardo de le stituzzione, doppo l'esercito, chi è?...

Pinco?... Federico Barbarossa?... L'onorevole Icchese??... Nemmeno per il formaggio! Siamo noi che viceversa è come tante rotelle d'una gran macchina che abbasta che ne fermi una, il capodivisione è inutile che ci metta una pezza, non va avanti!

E quando ti vengono a dire la burocrazzia di qua, la burocrazzia di , la spesa improduttiva di sopra e la sanguisuga di sotto, ci arispondo che sono mentecatti, o come dice la plebbe, fresconi, perchè si una cosa purchessia non me la emargini, non me la finchi sotto copertina e non c'è la firma del segretario, nun vale, e allora come va avanti il paese?...

E si arifletta che noi siamo gente d'ordine e toccaci dapertutto, ma lasciaci stare le stituzzione; ma quando si riva a l'organica siamo capaci di tirarci fori lo spirito di classe come uno scopino qualunque.

Abbasta: fui loquente.

Ma, come sol dirsi, Adamo si salvò, ma incorse in gravi dispiaceri intimi. L'organico non me lo potettero levare, ma a la prima promozzione, quando ti passavo a milledue, eccoti che quello con l'erre moscio che era pessimista per via che la sorella era una certa Demì Mondana, che se ne parlò tanto all'epoca di quel ministro che morì d'un colpo nel budoarre, me lo trovai davanti.

E viceversa mi toccò prendermela come una cosa naturale.

capitolo XII Ti entro nella libbera stampa!

Mi arimmento una povesia di Stecchetti quello che era morto, ma non era vero gnente, che dice:

Sono un poveta o sono un imbecille?

Si loro sapessero quante volte mi sono arivolto una domanda su per giù come questa! Quando ti vedevo una boglieria, mi si arivoltava, salvognuno, il fritto e mi toccava di tenermelo dentro e abbozzare, e allora dicevo: Ma questo arivoltamento di fritto sarà nobbile indignazione, ovverosia una fresconata qualunque?

Un giorno finalmente, che mi ricordo come adesso, avvenne quella boglieria del tranve, che ti rivai a casa come una tigre, zompo in cammera, piglio il quaderno del pupo, impugno la penna e così, senza arifletterci più che tanto, ci buttai giù una lettera che la penna mi zompava fra le dita come una cigliuola o ciriola (come dice la plebbe).

A farla non fu gnente, ma non ci so dire la trepidazzione quando, senza dirci gnente a nessuno, la copiai in un bel foglio protocollo senza righe, col titolo con tutti svolazzi e me la messi in saccoccia.

Strada facendo me ti dicevo fra me e me, dice: Oronzo, qui non bisogna tremare; se titubbi ti pigliano per frescone.

Le mie simpatie erano per il Travaso, abbenchè il capodufficio dicesse che era giacobbino, e detto un fatto ti rivai a la porta de l'ufficio e siccome me ti mancò il fiato arimasi co le braccia a pendolone e feci finta di guardare il gioglielliere.

Finalmente feci animo, come sol dirsi, arisoluto e mi domandai: Ma dunque non sono omo?... Mi messi una mano su la coscenza, onde feci: Sì, sono omo! E allora perchè faccio il perverso pupo o pupazzo, come dice la plebbe?... Chi ci sarà laddentro?... un leone?... il sor Bonaventura?... la bonamina della signora Giuditta?... No: vi sono dapertutto dei gentilommini come me e lei e il primo frescone che passa!... E allora, coraggio!... Detto un fatto ti piglio la scala a la rincorsa, e ti rivo a una porta che s'apre e c'era un uscere che mi fa: «Lei che vole?...».

«Voglio il direttore!» ci arisposi dandomi un'aria san fasonne, ma però da lo sturbo che ci avevo ne la panza capivo che stavo per fare un gran passo.

Lui mi fa: «Passi puro in redazzione che ci sono tutti».

 

Dice il direttore: «Ma lei, scusi, chi è?». «Sono, ci feci io, un omo tutto d'un pezzo che adesso se sono aggitato vi passi sopra, ma il bene pubblico ce l'ho avuto sempre in pizzo a tutti i penzieri e quando vedo una boglieria bisogna areggermi se no sbotto, e Terresina tante volte mi i calci sotto al tavolino, per via del sor Filippo che è ben pensante, ma ci confermo che si nun trovo uno sfogo divento narchico. Lei dirà: E chi se ne stropiccia?... Io ci arispondo: E allora la fede inconcussa e quell'anima ideale che levati, col quale ti abbiamo inficozzato lo straniero e ti inalberassimo il vissilo della riscossa, indove li ficca?...

«Io direi di ficcarli ne la libbera stampa, che appena vi è una boglieria ti si addrizza davanti come una vipera che ci hai acciaccato un piede, la quale ti impugna la penna e ziffe, ziffe, ziffe, ecco che ti trionfa la giustizzia!».

A mano a mano che parlavo me ci ero ariscaldato, e quando fenii mi fecero una mezza ovazzione, e ci fu uno che nell'abbracciarmi mi fece una ficozza al cappello, ma fu per amicizzia, e vollero puro sturarmi qualche cosa per fare legria. Laddovechè quando sortii, dico: Stasera, Terresina ci dirò che mi faccia una giunta a la pelle perchè non vi entro più dalla gioglia.

Tanto è vero che mi amancò un piede e cascai con la faccia avanti, indovechè con questa posizzione vi feci tutte le scale e in fondo sbattei ezziandio la capoccia.

Fu così che entrai nella libbera stampa.

 


 

 


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