Maria Savi Lopez
Leggende delle Alpi
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FATE ALPINE

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FATE ALPINE

Gli abitanti delle nostre Alpi che sono costretti a dimorare a lungo nelle città, onde trovare il lavoro che manca nei poveri borghi, e fra la rigidezza di lunghissimi inverni, sono avvezzi allo scetticismo che invade sempre maggiormente, rispetto alle antiche credenze popolari, gli abitanti delle grandi città, e non si piegano facilmente a narrarle ai curiosi, quando, tornati fra le montagne, vengono interrogati dai villeggianti e dagli alpinisti.

In questa condizione di cose è assai difficile conoscere, in ogni sua parte, la stupenda poesia delle leggende che sono popolari fra gli alpigiani; ma qualche volta avviene che essi per cortesia vincano la diffidenza che provano, nell'udire le domande intorno alle leggende delle valli alpine; però è forza che siano certi di non essere derisi, se ripetono le novelle che i nonni raccontano d'inverno ai ragazzi nelle stalle.

Ho visto qualche volta i buoni alpigiani commuoversi nel ricordare le fiabe che erano avvezzi a sentire fin dall'infanzia. Forse in un baleno essi tornavano col pensiero nei giorni lontani; rivedevano come in un sogno la stalla angusta e nera, ove stavano raccolti vicino alle pecore, quando il vento sibilava nelle strette gole, o si udiva il rumore cupo di qualche valanga che precipitava in lontananza nella valle, ed i vecchi dalle faccie serene, seduti accanto alle nuore ed alle figlie, parlavano dei loro cari andati a guadagnare lontano il pane per la famiglia, o ripetevano le leggende che diconsi da secoli nei poveri casolari; mentre i fanciulli guardavano con inquietudine nell'ombra, ove forse stavano ascosi i folletti, o provavano un brivido di spavento, pensando che passavano in quel momento vicino ai faggi le bianche processioni dei morti.

Assorti fra quelle memorie gli alpigiani dimenticavano pur qualche volta la civiltà delle città lontane, e sentivansi figli della montagna, credenti al pari degli avi nell'esistenza delle fate e delle streghe, e mi narravano colla voce lievemente concitata le novelle udite; poi si rideva insieme di quelle fole, ma io conservava nella mente, come un tesoro, il ricordo di una leggenda paurosa o gentile.

Altre volte potei sapere qualche leggenda, discorrendo a lungo con certi esseri che sono, per così dire, speciali alle montagne e che vanno pure studiati curiosamente, perchè ogni giorno ne diminuisce il numero, e fra qualche tempo saranno anch'essi figure leggendarie. Sono costoro strani scienziati, che nelle lunghe veglie dell'inverno hanno imparato a leggere il latino, studiando su vecchi libri, o manoscritti ingialliti, ereditati dagli avi, che li ebbero chi sa dopo quali vicende. Questi alpigiani, pei quali le scienze naturali non hanno progredito di un passo, dopo che sono stati scritti i libri ch'essi posseggono, non di rado conoscono mirabilmente la flora e la fauna delle montagne, ed hanno una pazienza ammirevole nell'osservare, una memoria felice nel ricordare quanto hanno imparato.

Fra essi vedonsi dei cacciatori di vipere, che non trovando più qualche farmacista che voglia comperare questi rettili, li mangiano con sommo gusto2; sonovi pure degli erboristi che conoscono le miracolose virtù d'ogni pianta. Avvezzi a cercare l'arnica, la menta di montagna e gli edelweiss, sanno ancora preparare filtri che guariscono ogni male. Questi esseri, così stranamente colti e superstiziosi, che conoscono appena le città, ma sono soliti a meditare innanzi alla sublime imponenza delle Alpi, sanno tutte le novelle della montagna; e spesso le raccontano con infinita compiacenza. Colla voce espressiva, colla frase poetica, collo sguardo scintillante, lasciano indovinare a chi li ode, ch'essi vedono, per una specie di allucinazione, mentre ripetono ciò che narrarono gli avi, una folla di demoni e di streghe, che vengono a popolare intorno ad essi la valle o i tristi boschi di larici.

Altre volte ancora sentii, fra certe paurose solitudini delle Alpi, un linguaggio affascinante nella sua poesia, che si adattava mirabilmente ad un paesaggio sublime; ma in quel caso la leggenda non mi veniva detta dai pastori che salgono d'estate fino agli estremi pascoli, venendo dalle pianure. Questa gente che mena una vita per così dire nomade, e spesso da un anno all'altro va col gregge in diverse regioni alpine, non conosce le leggende delle montagne ove si ferma per breve tempo. Invece da altri pastori, che hanno casa nei poveri villaggi delle valli, e che tornano sempre d'estate ai medesimi pascoli, le leggende e le credenze popolari, comuni ad una regione intera, o speciali ad una montagna, ad un borgo solo, vengono conservate con tutta la loro originale poesia.

Da uno di questi pastori, invecchiato fra le montagne, udii sul Monte Civrari, fra la valle di Susa e quella di Viù, narrare, con una efficacia insuperabile, una delle leggende che furono popolari, ed ora vanno perdendosi in quella parte delle Alpi, ed è quella che ricorda la corsa delle fate.

Già mi era stata narrata da un erborista della montagna dal cuore semplice e buono. Colla gerla accanto egli si era poggiato all'arco ardito e nero di un vecchio ponte, sotto il quale balzava la Stura, e colla parola come ispirata descrisse il giro percorso dalle fate, seguendo collo sguardo le creste, le cime delle montagne, le curve dei colli lontani, e forse colla fantasia accesa le vedeva passare in quell'istante, fra lo splendore del sole e lo scintillìo dei nevai. Eppure la sua parola mi parve inefficace e rozza quando udii il vecchio pastore del Civrari.

Nel sito ove incontrai costui, i fianchi della montagna aridi e neri si elevavano come una fortezza immensa, dietro la casetta scura ove a sera egli ritirava il gregge. Il paesaggio era tristissimo nella sua imponenza, non vedevansi campicelli di segala, pascoli, distese rosee di rododendri, che mettessero una nota gaia in mezzo alle rupi. Il Richiaglio solo balzava fra i massi accumulati dal precipitare d'una valanga e correva alla valle.

Di notte, in mezzo a quella desolazione, mentre forse la nebbia passava rapidamente nelle gole, fra il chiarore della luna, e spinta dal vento che flagellava le roccie, coprendo la voce monotona del Richiaglio, il vecchio pastore, sgomentato da un rumore di ruote e di sonagli, era uscito dalla povera casa, ed avea visto passare la splendida e meravigliosa corsa delle fate. Ora noi possiamo sorridere pensando a questa credenza degli alpigiani, ma per intendere tutta la grandiosa poesia del racconto che mi venne fatto lassù, bisognava trovarsi fra i pericoli della montagna, verso i 2000 metri d'altezza, nella solitudine ove non giungeva altro suono di voce umana, ove moriva ogni ricordo della vita cittadina; e mentre il vecchio descriveva la visione apparsagli in quella notte, mi pareva di veder passare le fate colle corone di edelweiss, ritte sui carri di fuoco, in uno splendore di luce, seguìte dai folletti nella corsa vertiginosa sulle creste, i colli e le altissime cime.

In questa credenza della corsa notturna delle fate sulle nostre Alpi Graie, che non devesi confondere colla ridda delle streghe, trovasi molta relazione con altre credenze che durano ancora su tutta la catena delle Alpi; e specialmente verso il Tirolo e le regioni austriache, ove si ha viva memoria della dea Bercht, che ebbe un culto esteso nell'antichità e venne ricordata da Tacito.

Le leggende che riguardano questa dea ed il suo seguito sono molte, e vennero raccolte con somma cura, come fiori del passato che la civiltà invadente potrebbe travolgere presto nell'oblio. Esse narrano che, specialmente da Natale all'Epifania, la dea, splendente di viva luce, passa sulle montagne, e col suo seguito di fate e di streghe, va raccogliendo le offerte che gli alpigiani depongono sui tetti delle case. Molte di queste fate sono orribili nell'aspetto, ed hanno lunghi bastoni e sacchi ove mettono i doni. Nel loro viaggio fanno un'infinità di salti3.

In altri paesi di montagna, la corsa della dea colle così dette Perchten, avviene, secondo la convinzione dei montanari, nell'ultima notte di carnevale. Allora le fate si dividono in due schiere, in una di queste trovansi le belle, adorne in modo splendido con nastri e fiori, nell'altra sono riunite le brutte, vestite in maniera da mettere spavento; esse sono cariche di catene e di sonagli, e portano una quantità di topi attaccati alle vesti. Le belle hanno un bastone adorno con nastri; le brutte gittano cenere in faccia agli alpigiani, la dea Bercht salta in mezzo ad esse, e dalla minore o maggiore quantità dei suoi salti dipende che il raccolto dell'annata sia per gli alpigiani scarso o abbondante.

Forse come ultimo ricordo delle feste che si dovettero celebrare nei tempi lontani, in onore della possente dea, si usa ancora fra certi alpigiani una danza che prende il suo nome. Questa però non ha nulla di speciale nei movimenti dei quattro ballerini che l'eseguiscono; essi sono vestiti con abiti ricchissimi, di color giallo e rosso, adorni con nastri, e portano una corona di penne4.

Sulle Alpi austriache si crede che nella notte di San Michele la dea Bercht, sempre fulgente col suo seguito, passi benedicendo i buoni e castigando i cattivi, e la seguono anche dei fanciulli che vanno cantando una tristissima nenia.

Sulle Alpi della Svizzera, credesi che la processione delle fate avvenga nel secondo giorno dell'anno, o nel terzo se l'anno comincia di sabato; però nell'inverno la bella dea ha il suo trono sottoterra, ove trovasi anche il suo gregge; ma essa ritorna pure qualche volta sulla terra vestita con indicibile ricchezza, e gitta segala sui campicelli delle montagne, o a Natale, vestita da cacciatrice, corre seguìta da una folla di spiriti allegri, ed è speciale protettrice delle buone fanciulle.

Questa dea Bercht cambia nome fra il Reno e l'Elba e si trasforma nella dea Freya che, accanto al fratello Freyr, era nel Walhalla la divinità dalla quale dipendevano la pioggia, la luce del sole, la fertilità della terra e l'amore; ma volgendo ancora verso il gelo del Nord si trasforma nuovamente e diventa la dea Holda. Però con qualsiasi nome venga chiamata, è la figura più imponente e bella delle mitologie nordiche, e dicesi che si lascia vedere specialmente nei siti ove furono eretti i suoi templi. Nel Medioevo si volle dare alla sua figura influenza malefica, e si disse che spaventava i fanciulli, mentre pur si credette che sul Horselberg, in Turingia, menasse a sicura rovina coloro che lasciavansi, al pari di Tannhäuser, ammaliare dalle parole mendaci delle belle dee. Anzi sotto questo nuovo aspetto non poche volte essa fu confusa con Venere5, ma a dispetto dei racconti che vollero farne un demone malefico, la tradizione popolare la mostra quasi sempre colla sua bellezza serena, coi lunghissimi capelli d'oro e le vesti splendide, sorridente fra le nebbie delle montagne e compagna dei possenti dei Dunar-Thor e Wuothan-Odino6.

Nella sua ultima trasformazione nella Scandinavia lontana, la dea Bercht, divenuta Holda, va pur mettendo col suo seguito una vita nuova sulle montagne. Essa appare fra la tristezza del paesaggio nordico vestita d'azzurro, con un lungo velo bianco, ed è la regina degli spiriti della, montagna e di tutto un popolo misterioso, che l'accompagna nei suoi viaggi. Anche laggiù protegge le buone fanciulle, e la leggenda narra che se toccasi il suo letto di piume nevica, mentre essa muta rapidamente aspetto. La veste splendida diviene di un bigio terreo, la sua beltà sparisce ed essa mostrasi come un'orrida vecchia dai lunghissimi denti7. Forse in quelle terre lontane sarà compagna del celebre re Jach Frost che, secondo una leggenda inglese, regna all'estremità del polo nord. Seduto sul suo trono di ghiaccio, ha un gelido serto che par fatto di brillanti, e asconde la sua altera maestà sotto un velo formato dalle larghe falde di neve, che cadono senza posa dalla vôlta di cristallo della sua dimora. Quando egli dorme l'Europa si allieta in un mite inverno, ma quando è desto nella fredda stagione, manda coll'alito potente la neve sui paesi lontani8.

Ma ritornando alla splendida dea Bercht-Freya-Holda, dirò che nella Scandinavia lontana pare che essa si fermi nell'inverno, secondo la credenza popolare, nell'Engelland o paese degli angeli, che viene anche detto Glasberg o montagna scintillante. Però non è libera nella sua nuova dimora, perchè dei nemici la tengono prigioniera finchè dura l'inverno, ed è liberata solo a primavera con tutto il suo seguito, che l'accompagna di nuovo nei suoi viaggi9.

Qualche volta nelle leggende delle Alpi svizzere, in cui ricordasi la dea Bercht, parmi che essa vada confusa colla leggendaria Berta dai grossi piedi, creduta madre di Carlomagno, e ricordata nei romanzi di – Berte aus grans piés.

Fra certe statue sulle porte di grandi chiese gotiche vedesi una figura conosciuta in tutta la Francia, sotto il nome della – reine Pédauque –, e vuolsi che rappresenti la regina Berta, cantata da Adenès, chiamato il re10. Anche la dea Bercht in certi racconti ha i piedi deformi, e questo ci prova la confusione che avviene quasi sempre fra diverse leggende assai note fra le genti. Però, trasformatasi in Berta nelle leggende delle Alpi svizzere, viene creduta donna selvaggia e dal volto spaventevole.

Un'altra variante strana nei racconti popolari, intorno alle splendide processioni che vanno sulle montagne, trovasi verso le valli di Pinerolo, ed in essa vediamo una trasformazione assoluta di antichissima credenza pagana, in un'altra tutta cristiana; poichè una leggenda, nota specialmente in Frossasco, non ci mostra le fate alpine in una processione, che partesi il 7 di settembre dal Monviso, e va fino alla Basilica di Superga, ma dice che essa è formata dalle 11.000 vergini che subirono, secondo una pia credenza, il martirio con Santa Orsola. Queste fanciulle hanno in mano un lume acceso, ed in mezzo a tutte le fiammelle che splendono sulle montagne ove passa la processione, vedesi un lume più grosso portato dalla Santa.

Veramente in quella sera si accendono in onore della Madonna innumerevoli fuochi, e chi guardi la catena delle Alpi, nella parte che dal Monviso volge alla Liguria, dietro Pinerolo e Mondovì, può immaginare strane cose, vedendo quale fantastico aspetto dànno alle montagne le innumerevoli fiamme che si elevano in lontananza; e queste splendono anche sopra ogni collina, vicino ad ogni villaggio, ad ogni casa, nei vigneti, nei campi e sulle sponde del Tanaro, dalle montagne fino alle città d'Alba e di Bra.

La leggenda sul martirio di Sant'Orsola fu una delle più diffuse nel Medioevo, però la credenza nella processione delle vergini che seguono la Santa, tradisce la sua origine pagana, e si avvicina assai a tutte le altre credenze sparse sulle Alpi, intorno alle processioni delle fate, a quelle dei fantasmi, ed ai cacciatori selvaggi, quando dicesi che di nuovo può essere vista, se il tempo è sereno, nell'ultima notte di carnevale; perchè la notte suddetta è appunto una di quelle in cui le leggende note ancora, specialmente sulle Alpi della Svizzera e dell'Austria, fanno apparire in maggior numero tante strane processioni infernali.

In quella notte usavasi pure in quasi tutti i borghi, ed i miseri villaggi dell'estesa catena delle Alpi, di bruciare un fantoccio di paglia in mezzo ad un alto rogo, illuminando di nuovo le montagne: come pure usavasi, anche fra le Alpi, nella notte di San Giovanni. Sulle Alpi della Svizzera questo costume finì quasi interamente fin dal tempo della Riforma, e vuolsi che ricordasse grandi feste pagane in omaggio alle forze della natura. Pare che in tempi lontanissimi ardevasi una fanciulla o un guerriero sul rogo, divenuto più tardi il trono fiammeggiante dei fantocci.

Le leggende così diversamente travisate dalla fantasia dei montanari e dal continuo lavorìo delle intelligenze, intorno alle fate erranti sulle montagne, non si assomigliano sempre all'innocua e bella processione delle vergini sulle nostre Alpi Cozie, ed a quella delle fate, sui versanti italiani delle Alpi Graie, ricordata appena da qualche vecchio, e che forse sarà fra breve perduta interamente. Invece terribili racconti ci dicono che in altre regioni alpine, nei boschi della Germania ed in Baviera, gli spiriti notturni in aspetto spaventevole seguono la loro dea che, sotto il nome di Holla, appare come orrida cacciatrice.

La credenza nelle fate, che dura ancora su tanta parte delle Alpi, a cagione della tenacità che hanno i montanari nel conservare le antiche tradizioni e le memorie del passato, ha una lontana origine. Vuolsi che le loro candide figure siano apparse agl'Indiani ed ai Persiani nelle notti serene, e che lentamente la credenza nella loro bellezza e nella loro magica potenza si sia diffusa da paese in paese. Così pare che nel Medioevo la credenza nella loro esistenza sia stata quasi generale in Europa, ove esse ebbero nomi diversi in molti paesi, essendo chiamate Favas nel mezzogiorno della Francia, Korrigans in Bretagna, Filatrici in Piccardia; ed ora le leggende, ricordate ancora dalle popolazioni nordiche, dicono ch'esse proteggono sempre in modo speciale le abili filatrici. In Irlanda e nella Scozia furono dette Bankée, Norne in altri paesi verso il nord11, Fhade in Ispagna, e Faïes, Fatas o anche Fadha sulle Alpi di Vaud12. Esse erano credute incantatrici o maghe, bellissime o deformi, e dicevasi che abitavano specialmente sulle vette delle montagne, nelle grotte profonde o vicino alle fontane ed ai fiumi.

Parmi che i ricordi di molti esseri fantastici, che, pur somigliandosi nell'aspetto, nella potenza soprannaturale e nei costumi, si ritrovavano in parecchie mitologie, note a popoli diversi, dovettero, nel confondersi insieme, essere una delle cause principali della credenza così estesa nel Medioevo intorno alle fate. Ritrovandole come abitatrici dei boschi ed amanti delle fresche sorgenti, possiamo in esse aver memoria delle ninfe della mitologia greca e romana; mentre, senza risalire alla loro origine più lontana, rivediamo le loro figure, splendide e belle, fra le tenebre, non diradate ancora interamente, della mitologia degli Slavi, i quali credevano che le foreste e le sorgenti fossero abitate da certi genii, che i Russi e i Serbi chiamano ancora Vily.

Ma per un caso strano, queste Vily hanno carattere diverso secondo le dimore ove si trovano: le Vily dell'acqua sono traditrici come l'onda; le Vily dell'aria sono spiriti eterei, che non discendono verso le miserie umane; le Vily della terra che più si avvicinano alle fate di altre regioni europee, sono, secondo i casi diversi in cui incontransi cogli uomini, buone o cattive13.

I Bulgari, nostri contemporanei, credono ancora nelle Samovily che in Tracia diconsi anche Samodivi, e come le antiche fate delle nostre Alpi italiane, vivono sulle montagne e danzano di notte sulle alte cime. Al pari delle fate del Monte Civrari, esse volano rapidamente o corrono sui colli e le creste frastagliate; ma non sono gentili e miti. Invece passano come il vento, montate sui cervi veloci; usano redini formate con vipere minacciose, e portano in mano una serpe a guisa di frusta. Esse ammaliano gli uomini e guardandoli bevono i loro occhi neri. Per una stranezza della fantasia popolare che unisce con tanta frequenza le idee cristiane colle reminiscenze delle mitologie antiche, queste figure femminili, che pure hanno qualche cosa d'infernale, puniscono gli uomini che lavorano nei giorni di festa, e sono alleate fedeli degli eroi, che esse liberano dal danno comune della morte. Sonovi pure le Samovily del mare14.

Con molta frequenza trovansi sulle Alpi le grotte delle fate. Una di esse mi venne additata sul Civrari in Val di Viù, e molte altre se ne trovano ancora sulle nostre Alpi italiane, su quelle della Provenza e della Savoia15. Sulle Alpi di Vaud esse sono pure in gran numero, e vengono dette Tanne. Questo fatto fa correre il pensiero ad un'altra causa possibile della credenza così estesa, nel magico potere delle fate, e della convinzione che esse preferiscano avere dimora sulle montagne e nei boschi. Presso i vecchi Celti, i Druidi avevano per templi i boschi sacri, e vivevano vicino ai massi erratici o ad altre pietre enormi che essi, maestri in certe arti meccaniche, sapevano trasportare lontano a meraviglia delle genti ignoranti; ma le Druidesse non potevano vivere all'aria aperta, ed esse stavano in certe grotte naturali o artificiali16. Dotate innanzi alla fantasia popolare di un potere soprannaturale, profetesse e sacerdotesse, avevano tale bellezza sul volto e tale dolcezza nel canto, che ammaliavano, a quanto dicesi, gli uomini a tal segno da far perdere loro la ragione. Benchè fossero i Romani avvezzi a vedersi intorno belle figure femminili, essi rimanevano affascinati al loro cospetto, e dovettero essere riguardate come esseri superiori ai mortali, avendo pur qualche cosa di comune colle sibille temute.

Queste sacerdotesse che avevano aspetto di dee e servivano la possente Néhalennia, signora della luna e del mare, e adoravano anche le Alcis, divinità soavi adorne di grazia e di bellezza infinita, che guarivano colla loro presenza le malattie dei miseri mortali17, furono sempre riguardate come esseri misteriosi e potenti, ed anche le loro figure si dovettero confondere colle reminiscenze delle divinità pagane, innanzi alle genti che credettero fervidamente nell'esistenza delle fate.

Molte sacerdotesse vedevansi ancora sparse nei boschi e sui monti nei tempi oscuri del Medioevo, e trovasi anche memoria di quelle che erano addette nel 772 al culto del possente Immersul dio Sassone, nel suo tempio stupendo sull'Eresberg in Westfalia. L'idolo di questo Immersul aveva aspetto terribile, egli portava sul petto un orso dipinto, aveva un gallo sull'elmo, un leone sullo scudo, e per un caso bizzarro, fra tanti simboli di forza e di coraggio, aveva una rosa rossa sullo stendardo, che teneva colla mano destra superbamente alzato. Le sue sacerdotesse predicevano, al pari delle druidesse, l'avvenire; Carlomagno nella guerra contro i Sassoni distrusse il tempio dell'Eresberg, ne prese il tesoro e disperse le potenti sacerdotesse18, che il popolo doveva guardare colla riverenza istessa, che forse avevasi già in quel tempo ed in altre regioni per le fate19.

Fra le Alpi Retiche dicevasi che sul Julier si trovasse la dimora prediletta delle fate, e forse anche lassù, misteriose sacerdotesse compirono sacri riti, poichè su quelle montagne vedonsi pure gli avanzi di colonne, che furono innalzate in onore di qualche divinità, ed il Dr Brügger vi rinvenne le tracce del culto che rendevasi alle fontane, fino agli ultimi tempi della dominazione romana. Di certo il Julier era uno dei monti sacri che spesso trovansi nominati nei racconti slavi e rumeni.

Altre leggende delle Alpi Retiche ci fanno trovare nelle fate anche un lontano ricordo delle Parche, narrando di tre filatrici abilissime che proteggono in modo speciale una buona fanciulla. Tre fate abitano pure nella stessa regione in una grotta vicino al Rinckenberg, e secondo la credenza popolare trovansi presenti ai battesimi, per decidere quale sarà l'avvenire dei bambini. Vicino ad un castello, sempre sul Rinckenberg, apparisce, in occasione di feste solenni, ai fanciulli nati di domenica, una Dama bianca, trasformazione della dea Bercht o Berta, oppure secondo altre leggende, lasciansi vedere tre bellissime fate, che possono trovarsi anche nella mitologia dei Celti. Una di esse, splendida per bellezza sovrumana, si fece vedere un giorno, secondo la credenza popolare, vicino ad un mucchio di monete d'oro, ad un altro di monete in rame ed a un cumulo di funi20.

Nelle leggende savoiarde dicesi anche di tre fate che fabbricarono il castello di Féternes, ma le ritroveremo nei racconti intorno ai misteriosi tesori delle montagne.

Queste Parche delle Alpi hanno una certa somiglianza colle Norne o profetesse della mitologia del Nord, ricordate nel magico regno che ci viene rivelato dall'Edda scandinava; ma ai piedi del Giura le Parche del Nord hanno lasciato memoria più viva ancora nelle tradizioni, e dicesi che sopra una spianata erbosa, presso il villaggio di Bérolles, chiamata Nernetzan o campo delle Norne, si raccolgano insieme agli dei del mondo antichissimo, divenuti i demonii del Medioevo. Essi festeggiano il sabato al suono di una musica soave, e stanno intorno ad una tavola coperta con piatti d'oro e d'argento. Mentre dura l'allegro banchetto, un cavallo grigio senza testa, il cavallo della dea Freya, si aggira vicino ai convitati; poi i demoni danzano affollandosi intorno alla collina, finchè all'alba mutandosi in ombre diafane spariscono nell'aria21.

Anche i Greci moderni credono nelle Parche e le chiamano Moirai. Tre giorni dopo la nascita di un bambino preparasi un banchetto per esse. Le donne greche vanno nelle grotte delle Parche ove dicono una magica invocazione dalle parole oscure in cui ritrovasi il nome dell'Olimpo22.

La credenza nelle fate era anche estesa assai sulle Alpi Cozie; e verso il versante francese esse dovettero imperare specialmente nella Vallée des fées, ma non resta in quelle terre memoria delle leggende in cui esse apparivano23; invece sono ricordate ancora sul versante italiano. Sulle prealpi verso Pinerolo, non lungi da Santa Brigida vedesi un pilone detto della – donna morta – e narrasi che vi sieno ancora le fate in quelle vicinanze.

Il caso che fece dare il triste nome al pilone, vien narrato nei villaggi vicini, e dicesi che in una sera d'inverno, mentre parecchie fanciulle erano raccolte per la veglia, e discorrevano delle fate, esse promisero un premio a colei che oserebbe piantare un fuso vicino ad un castagno, nel sito ove credevasi che si riunissero. Una fanciulla schernì le sue compagne, che non mostravano di aver coraggio, ed alzandosi rise schiettamente, facendo vedere il fuso che teneva in mano e che voleva andare valorosamente a portare nel sito così temuto dalle sue amiche. Infatti essa andò ma non tornò più, e nella mattina seguente la trovarono morta in vicinanza del castagno. Dicesi che nel piantare a terra il fuso, lo aveva pure conficcato nel suo grembiale, e forse fu vinta da un terrore pazzo, mentre nell'andarsene si credette trattenuta dalle fate malefiche. In quel sito fu innalzato il pilone ed una donna intenta a piantare un fuso a terra fu dipinta sopra uno dei lati di quella specie di cappelletta; ma la sua figura è quasi interamente cancellata.

Anche nelle leggende francesi, note in regioni lontane dalle Alpi, trovansi con molta frequenza le fate, ma pare che rispetto al resto della Francia la loro patria leggendaria sia la Bretagna, ove il loro ricordo è ancora profondamente impresso nella coscienza popolare, ed ove esse ebbero celebrità maggiore in certe leggende che appartengono al ciclo brettone, in cui si mostrano qualche volta come sapientissime; poichè nel romanzo di Erec ed Enida, Erec porta nel giorno della sua incoronazione un mantello bellissimo, opera delle fate di Bretagna che vi hanno ricamato sopra gli attributi della geografia, dell'aritmetica, della musica e della poesia24. Vi è però fra questi spiriti misteriosi della Bretagna una strana specialità che non ritrovasi in altra parte della Francia, ed essi si dividono in gruppi femminili ed in maschili chiamati fayoux25. Queste creazioni della fantasia popolare si ritrovano pure nella nostra Valle di Susa ove gli spiriti maschili sono detti arfai. Essi restano nascosti nell'acqua, e forse sono i genii benefici della Dora, che passa fra l'incanto indescrivibile della valle e volge sulla pianura verso Torino. Il loro regno è sotto le acque dai riflessi di brillanti, ed al pari dei folletti, che troveremo in tanto numero sulle Alpi, hanno le loro simpatie. Se prendono a proteggere qualche bella fanciulla, essa non deve sgomentarsi, se mentre lava spariscono le pezze di tela che le appartengono; anzi deve rallegrarsi, perchè nel giorno seguente le vedrà distese sui pascoli, e così candide che solo i misteriosi arfai o lavandai della valle potevano giungere a far tanto.

Secondo un concetto quasi generale fra gli alpigiani, le fate erano anche i genii tutelari delle montagne e dei ghiacciai. Al pari degli elfi nordici che ballano di notte sul musco o sui pascoli fioriti, esse avevano le loro sale da ballo all'aria aperta, e forse coll'animo gentile e la cortesia mostrata agli alpigiani, facevano un contrasto potente colla malvagità dei demonii alpini, e colla leggerezza spesso malefica dei folletti.

Nelle tre Valli di Lanzo e nel Biellese mi vennero mostrate le sale da ballo delle fate, in alto sui colli, vicino ai laghi alpini o all'ombra dei faggi e dei castagni; e forse ora ancora, quando i fiocchi di nebbia passano in alto, sui fianchi scuri delle montagne, gli alpigiani credono ch'esse vadano ai lieti convegni; come in altre terre lontane credesi che i turbinii della polvere sollevata dal vento, involgano come in un velo misterioso gli elfi, che vanno da valle a valle o da villaggio a villaggio26.

Vedremo il popolo fantastico delle Alpi ed anche di tutta l'Europa appassionato pel ballo; ma la credenza nelle danze delle fate fu così generale, che in Inghilterra, nella Svizzera ed in Francia, chiamansi ancora – circoli delle fate – quei cerchi verdi che nel mattino vedonsi sui prati bagnati dalla rugiada. In una leggenda popolare del Paese di Galles narrasi di un giovane il quale ballò in mezzo ad uno di quei circoli magici, ed appena ne venne fuori cadde e morì. Intorno a quel sito l'erba è divenuta rossa27.

Ora ancora verso le nostre Alpi Cozie sentesi di notte, secondo una credenza popolare, una musica soave che par cosa meravigliosa, e dicesi che nel mattino si vedono sulla terra le impronte dei piedini delle fate che hanno ballato senza posa fino al sorgere del sole.

La credenza popolare vuole pure che:

Morir non puote alcuna Fata mai
Fin che 'l sol gira, o il ciel non muta stile28

ma esse al pari di certe olimpiche dee sentivano anche passioni terrene, ed in parecchie regioni alpine si credette che potessero affascinare i giovani pastori, e divenissero con piacere le loro spose. Già vedemmo le Samovily slave appassionate per gli eroi, coi quali vivevano come sorelle29. Sulle Alpi invece le fate amavano i pastori bruni e cortesi con ardente affetto, e non sembra che tutte avessero il costume, al pari di tanti spiriti germanici, di uccidere coloro che prendevano parte alle loro danze. Le troviamo però qualche volta, nel seguito della dea Bercht o della cacciatrice Berta, in aspetto minaccioso, come le druidesse apparse ai guerrieri romani; che le vedevano vestite di nero, cogli occhi sfavillanti, colle torce accese in mano, gettarsi in mezzo ai combattenti, ove più terribile era la battaglia, ed animare i Celti alla lotta feroce. Ma pur fra le leggende che le mostrano in triste o minaccioso aspetto, intorno alla loro dea suprema, non ne trovai nessuna che le dicesse feroci come le Samodivi bulgare che uccisero il giovane Stoïan. Egli doveva passare col gregge nella foresta delle Samodivi, e sua madre lo pregò caldamente di non suonare il flauto in quel sito, perchè le tristi fate si muoverebbero ad assalirlo. Ma pel giovane pastore era dura cosa seguire le pecore all'ombra fitta e non suonare nella foresta, ed egli dimenticò la preghiera di sua madre. Appena il dolce suono del flauto coprì il canto festoso degli uccelli, una Samodivi in aspetto di giovane coi folti capelli arruffati, andò incontro al pastore, e cominciò con lui una terribile lotta, che durò per tre giorni di seguito. Ma Stoïan era valoroso e forte, e quello spirito malefico, non potendo vincerlo, chiamò in aiuto le tempeste che erangli sorelle, ed avean forse forma di Samodivi; esse trasportarono sulla cima degli alberi il forte Stoïan e l'uccisero30.

Invece le fate delle Alpi svizzere, sposavano i pastori più gentili e belli; esse li conducevano nelle loro alpestri dimore, e rivelavano ad essi le virtù segrete delle piante, facendoli anche maestri nelle arti di magia, e mostrando ove trovavansi i tesori custoditi dai nani sotterranei delle Alpi. Non usarono forse in egual modo le sacerdotesse dei terribili Teutates e Taranis31, quelle d'Immersul, della dea Bercht o di altre divinità delle mitologie celte e slave?

Per quanto riguarda le fate delle Alpi, secondo la credenza popolare, i loro matrimonii coi pastori non davano sempre ad entrambi la felicità, sia per la differenza dei caratteri, sia perchè le fate erano così delicate e sensibili, che la minima scortesia faceva su di esse un'impressione profonda, e poteva mutare il loro amore in indifferenza o in odio.

Sulle Alpi di Vaud le fate, che la fantasia popolare vide in altre regioni bionde e candide come nordiche fanciulle, erano brune e belle, di una bellezza orientale dalle tinte calde; ma, al pari delle altre ammaliatrici alpine, erano vestite di neve, candida e leggiera, che mandava bagliori intorno alle loro snelle persone, o tingevasi coi colori dell'iride. Una delle più belle leggende su quelle brune divinità è nota in tutta la valle degli Ormonts, ed è quella che si riferisce alla Torre d', alta rupe che sorge a poca distanza dal piccolo lago d'. Sulla parte settentrionale della Torre, vedesi una grotta oscura, chiamata la barma delle fate d'.

Quella leggenda dice che nei tempi che furono, una bella fata, la quale avea nome Nerina, si accese d'amore per un giovine pastore che si chiamava Michele, ed era fidanzato ad una bionda alpigiana; pur la fata seppe affascinarlo colla malìa della sua bellezza, e mentre discorrevano insieme, dicendo come sia difficil cosa avere la felicità sulla terra, Nerina promise al giovane di fargliela trovare. Con un cenno della magica bacchetta mutò in un carro alato una rosa delle Alpi, e centinaia di rondini, venute rapidamente intorno alla fata, furono legate al carro con fili d'oro. Il giovane e Nerina, seduti l'uno accanto all'altra sul roseo carro, furono trasportati in una rapida corsa sulle Alpi32.

Anche Titania, la regina fantastica cantata da Shakespeare nel «Sogno di una notte d'estate», vola sopra una foglia di rosa, portata invece da parecchie farfalle; ma essa, vista dalla fervida fantasia del sommo poeta, non fu di certo più bella e soave della bruna fata delle Alpi di Vaud, immaginata dai poveri montanari, che parlano pure della corsa vertiginosa della carrozza tirata dalle rondini.

Cime candide e burroni profondi, valli solcate dai fiumi d'argento, ghiacciai scintillanti al chiaror della luna, passavano sotto le ruote d'oro del carro; e Nerina, colla bianca veste di neve, coi bruni capelli cosparsi di stelle d'oro, era raggiante allato al giovane pastore; che pur non trovava la felicità promessa, e pensava di continuo alla bionda fidanzata ed al suo villaggio natìo, ascoso in quell'ora fra le brune pareti dei monti; finchè, non potendo reggere al dolore che provava nell'andar lontano da quanto egli amava, chiese alla fata di ritornare sulla sua montagna, perchè non v'era altra cosa al mondo che potesse piacergli più di quella, e Nerina, con una tristezza profonda nell'anima, comandò alle rondini di tornare indietro. Altre volte ancora ella seppe indurre Michele a seguirla nelle corse notturne, ma egli non aveva il cuore debole al pari degli altri pastori delle sue montagne, che dimenticano le bionde fanciulle nate nei poveri villaggi, quando sono amati dalle fate brune, ed era fedele sempre alla sua fidanzata, che si chiamava Salomè. Potè così resistere a tutte le malìe di Nerina, quando ella voleva fargli dimenticare la sua montagna, ed essendo finalmente sposo di Salomè, visse fra l'ombra e la pace nel casolare ove erano morti i padri suoi; personificando per così dire, innanzi alla fantasia popolare, l'amore immutabile e ardente che gli alpigiani sentono per le valli natie.

Una delle leggende più strane sulle fate delle nostre Alpi, parmi quella che io raccolsi nella Valle Grande di Lanzo33, e ci mostra le bianche e splendide divinità della montagna raccolte sull'altipiano di Vonzo, nell'allegria di una danza notturna; finchè per un capriccio, volendo divertirsi in altro modo, pensano di prendere la leggendaria Balma di Vonzo e trasportarla sul ponte che il diavolo avea costrutto sulla Stura, vicino al borgo di Lanzo. Ma il superbo signore della Valle non volle che si danneggiasse l'opera sua stupenda, e le fate, vinte da indicibile spavento dovettero, in un doloroso viaggio, riportare la Balma sull'altipiano di Vonzo; lasciando sul duro sasso incavi profondi nel sito ove erano state poggiate le loro bionde teste. Ora ancora si può vedere la Balma imponente e leggendaria vicino al bizzarro e nero villaggio di Vonzo34.

Questo nome di Balma o Barma si ritrova con frequenza su quasi tutte le diverse regioni delle Alpi, e vien dato ad una o più rupi sporgenti dal fianco di una montagna, che formino una specie di riparo o di piccola grotta, ove non di rado vengono nell'estate raccolte a sera le pecore. Anche in Valle d'Aosta, a Brousson ed a Challant, si può vedere qualche – barma da fava, – e di nuovo, come in tanta parte di Europa, ci troviamo dinanzi ad una caverna o tana delle fate. Una di quelle misteriose dimore delle fate valdostane internasi, a quanto dicesi, profondamente nei fianchi della montagna e, secondo la credenza popolare, avviene qualche volta che in certe ore determinate l'accesso ne diviene facile; ma richiudesi in un baleno e divide per sempre dal mondo dei viventi l'infelice che per curiosità fosse entrato in quella specie di caverna per vederla nell'interno35.

Le fate delle Alpi savoiarde non sono egualmente crudeli, anzi hanno fama di mostrarsi pietose e gentili, e le ritroviamo pure in una delle leggende che ricordano con tanta frequenza il nome dei nobili signori di Pontverre. Uno di essi andò un giorno in vicinanza del castello di Montrottier, chiamatovi forse dal desiderio di vedere qualche bella castellana, o di conoscere in ogni sua parte esterna il castello, onde poterlo più tardi assalire; ma una delle sentinelle si accorse della sua presenza e rapidamente molti arcieri, uscendo all'aperto, si diedero ad inseguirlo.

Eglì fuggi insieme ad un suo paggio che pure, essendo a piedi, correva dietro il cavallo del suo signore, e presto essi giunsero vicino ad un abisso spaventevole, che il cavaliere di Pontverre voleva superare con un salto del suo cavallo. Il paggio, indovinando quale era il suo proposito, nella tema di essere abbandonato, si attaccò alla coda del cavallo, e l'egoista signore si voltò inviperito troncando con un colpo solo della forte spada un braccio dell'infelice giovanetto che sparve nell'abisso, mentre invece il suo padrone potè salvarsi continuando la pazza corsa. Dicesi che dodici fate dimoravano nella caverna vicino a quel precipizio ove sparisce il Fier, ed esse, avendo raccolto pietosamente il corpo del giovane paggio, lo collocarono sotto un masso enorme che vien detto la – rupe delle fate – e trovasi in mezzo alla – Mer de rochers36.

Ma più felici di tutte le altre fate alpine, quelle della Carnia ispirarono a Giosuè Carducci il verso smagliante. Chiamate dalle loro sorelle, venute sulle cime della Tenca, vanno anch'esse alla danza sulle montagne, mentre:

Tra il profumo degli abeti,
Ed il balsamo de i fiori
Da le valli ascende il coro
De 'l mistero e dell'amor.

Sulla vicina rupe del Moscardo uno degli spiriti dannati, che trovansi con tanta frequenza nelle leggende alpine, sta solo al supplizio, come Prometeo, e deve con una clava immane spezzare le rupi della montagna, ma:

Quando vengono le fate
Egli oblia l'aspro lavor;
E sospeso il mazzapicchio
Guarda e palpita d'amor.

Se le fate delle leggende alpine si accendono d'amore pei giovani pastori, o non isdegnano di seguire anche a caccia feroci cavalieri; esse non hanno però compassione per l'infelice dannato all'eterna guerra contro la montagna, e non sembra che gli sorridano. Egli, al pari dei nani delle leggende tedesche, mette qualche volta un cappello verde, e copresi con un mantello rosso, ma nessuno curasi di lui. Finalmente più non appariscono le fate sulla cima della Tenca,

E il dannato sul Moscardo
Senza più tregua d'amor,
Notte e col mazzapicchio
Rompe il monte e il suo furor37.

Una credenza nota in Bretagna vuole che se le fate sono invisibili nel nostro secolo, ciò non toglie che appariranno in gran numero e per sempre ai figli degli uomini, nei secoli che verranno38, noi intanto le vediamo solo fra la magia di versi splendidi e di poetiche favole; ma era inevitabile che la credenza nella loro esistenza, e le bizzarre leggende in cui vengono ricordate, si conservassero ancora in modo speciale sulle montagne in generale, ed anche sulle nostre Alpi, ove l'ambiente è tale che la mente di persone anche rozze può essere costretta ad un lungo lavorìo ed immaginare strane cose.

Gli alpigiani passano parecchi mesi dell'anno nelle altissime regioni salendo verso gli ultimi pascoli, ove questi non sono più coperti di neve, e fra la solitudine un popolo fantastico deve muoversi intorno ad essi, mettendo una vita nuova fra le montagne. Le voci dell'acqua e del vento debbono parlare alle loro anime in modo misterioso; la nebbia che sale dai valloni, e sospinta dal vento passa sui ghiacciai, deve prendere aspetto di figure soprannaturali, e qualche volta crederanno di vedere realmente le ridde delle streghe, i balli delle fate e le processioni dei morti; come pure, ignorando il secolare e meraviglioso viaggio degli antichi ghiacciai, immagineranno racconti nuovi, intorno ai massi erratici, che diranno trasportati dai demoni e dalle fate, o tornando a sera verso i borghi natii, guarderanno sgomentati i fuochi fatui erranti sui piccoli cimiteri, e narreranno intorno ad essi casi strani.

Ho notato in alcune regioni delle nostre Alpi che la credenza nelle fate e le antiche leggende che le riguardano, si sono mescolate in modo strano con tutte le superstizioni, che durano ancora così vive, e saranno forse indimenticabili, intorno alla malefica potenza delle streghe; e nei racconti che in alcune terre del Piemonte mi vennero fatti, a proposito delle masche o streghe, mi parve che sotto questo nome venissero anche comprese le fate. Ma forse questa confusione di credenze diverse avvenne solo riguardo alle fate malefiche, che pure in altri tempi erano viste dalla fantasia popolare, e vendicavansi spietatamente, al pari degli elfi e dei folletti, se ricevevano offese gravi o scortesie.

Per un caso strano, il quale ci prova come spesso avvenga un medesimo lavorìo nella fantasia popolare intorno a miti opposti, e fra genti che ebbero credenza in mitologie diverse, gli spiriti d'ogni genere, dalla Scandinavia fino alle Alpi, non solo si dilettano nel suono e nel ballo, ma pare che preferiscano gli stessi giuochi. A questo io pensava nel ricordare una strana leggenda, udita in vicinanza di Lemie in Val di Viù, e raccontatami da un viperaio con tal efficacia di parola che parevami di vedere, mentre egli parlava, le fate o streghe della valle in un momento di pazza allegria, quando fra l'ombra della notte giocavano alla palla, gittandosi dall'una all'altra un misero fanciullo; il quale rimase, dopo quella terribile notte, deforme e sofferente per tutta la vita, ed era una conoscenza del viperaio!

Anche nella vicina valle di Susa, le fate, secondo la credenza popolare, giuocano alla palla, gittandosi dall'una all'altra certi poveri bimbi. Nella valle di Varaita si racconta pure di questo notturno e terribile giuoco, ma in quella regione esso diletta le streghe in modo speciale, invece sulle Alpi di Vaud, non lungi dalla cima dei Diablerets, e proprio di fronte alla rupe dettaQuille du diable – i demoni giuocano alla palla nelle notti tempestose39, ma non pare che in questo caso si dilettino straziando creature umane.

Nella famosa leggenda di Tundalo, così popolare in Irlanda, i diavoli orribili, armati di tridenti infiammati e che hanno occhi ardenti al pari dei draghi alpini, fanno al fuoco massa di molte anime e se le gettano, quasi giuocando alla palla, riparandole sui forconi. Questo palleggio diabolico delle anime trovasi anche in una visione dell'abate Morimondo40.

Gli elfi dell'Irlanda e di alcune regioni tedesche sono, secondo la credenza popolare, anche amanti di questo giuoco, il quale è spesso causa fra essi di terribili lotte41. Più lontano ancora, secondo una leggenda dei poveri Eschimesi, gli spiriti infelici che stanno in una triste regione oltre il cielo, giuocano pure alla palla, adoperando cranii di foche, e questo loro divertimento è la causa delle aurore boreali!42.

Altre figure innumerevoli e fantastiche, le quali hanno qualche somiglianza colle fate, si notano ancora nelle leggende delle Alpi; ma trovandosi esse specialmente, secondo la credenza popolare, alla custodia delle alte cime e dei tesori nascosti, o essendo, per così dire, l'anima dei boschi e delle acque, mi è parso di dividerle in diversi gruppi, e le vedremo in altre pagine come dee minacciose o gentili, come sirene ingannevoli, o dolci e benefiche amiche degli uomini.





2 Conobbi uno di questi ultimi cacciatori di vipere in val di Viù ed era uno dei tipi più strani d'alpigiani che abbia incontrato: ne parlo a lungo nel volume sulle Valli di Lanzo.



3 Nella «Zeitschrift des Deutschen und Oesterreichischen Alpenvereins» del 1881, trovasi un bellissimo articolo del Freitag sulla dea Bercht.



4 Nel lavoro citato del Freitag sulla dea Bercht, trovasi la fotografia di quattro alpigiani che portano il bizzarro costume usato in quella danza.



5 Lutolf, Sagen, Bräuche, Legenden, Lucern, 1862.



6 Melusine, Revue de Mythologie. – La coccinella et Holda-Freya.



7 Freitag, op. cit.



8 London JournalChristmas number, 1883.



9 L'illustre Mannhardt volle annodare quest'ultima credenza ad un gruppo di miti celebri fra tutti i popoli Arii, e che trovasi specialmente nelle mitologie dell'India vedica e della Scandinavia, ed è quello delle donne simboliche prigioniere dei nani e dei giganti, liberate da Indra.



10 P. Paris, Li Romans de Berte aus grans piés, Paris, 1832.



11 Paul Lacrois, Sciences et Lettres au Moyen-âge.



12 Alfred Ceresole, Légendes des Alpes Vaudoises, Lausanne, 1885.



13 Dora d'Istria, La nationalité bulgare d'après les chants populaires. Revue des deux mondes, 1868. Juillet, pag. 336.



14 I. Iirececk, Storia dei Bulgari.



15 Anche in altre regioni d'Italia si trovano queste grotte o tane credute dimora delle fate. Il Fauriel nel volume I, pag. 291 dell'opera: Dante et les origines de la langue et de la littérature italienne, fa cenno di una specie di caverna presso Fiesole, chiamata la buca delle fate. Certe tradizioni dicono quel sito sacro nei fasti della cavalleria, perchè sarebbe stato visitato da Carlomagno, e Orlando vi avrebbe ricevuto per forza d'incantesimo il dono d'essere invulnerabile.



16 Mémoires de l'Académie celtique. Bibl. Naz. in Torino.



17 Sibastien Rhéal, Les divines féeries de l'Orient et du Nord, pag. 152. Paris, 1843.



18 Mémoires de l'Académie celtique, Tome IV, pag. 140.



19 Wilhelm Scheffler nella sua opera bellissima sulla poesia popolare e le leggende francesi, ricorda che secondo la credenza popolare le fate stanno a preferenza accanto ai dolmen della Bretagna, e che spesso le rupi celtiche sono dette «Margot la fée».



20 D.r Gaspard Décurtius, Étude sur la Rhétie. – Mélusine, Revue de Mythologie, Vol. II.



21 Mémoires et documents publiés par la société d'histoire de la Suisse Romande, Tome VIII.



22 J. J. Ampère, La Grèce, Rome et Dante, pag.58.



23 Ladoucette, Histoire des Hautes Alpes, Paris, 1834.



24 Hersart de Villemarqué, Les romans de la table ronde et les contes des anciens Bretons, pag. 132.



25 Wilhelm Scheffler, Die Französische Volksdictung und Sage.



26 Wilhelm Grimm, Kleinere Schriften. Recensione del libro: Fairy legends and traditions of the south of Ireland. By John Murray, 1825.



27 De Gubernatis, La Mythologie des plantes.



28 Ariosto, Orlando Furioso, Canto X, 51.



29 Iirececk, op. cit.



30 De Gubernatis, La Mythologie des plantes.



31 Taranis padrone della folgore era uno degli dèi misteriosi dei Galli. Trovansi ancora delle piccole statue che lo raffigurano, e nel periodicoMélusine, Revue de Mythologievedesi il disegno di una di esse. Dietro il capo ha un'asta, all'estremità della quale vedesi un martello, da questo partono sei raggi con altri martelli più piccoli all'estremità. Anche il dio Thor porta il martello.



32 Alfred Ceresole, Légendes des Alpes Vaudoises.



33 Ho raccontato a lungo questa leggenda nel volume sulle Valli di Lanzo.



34 Il Ladoucette nel suo volume Histoire des Hautes Alpes, cita un poema di Laurent de Briançon, scritto nel 1560 e che ha per titolo: Le Banquet de la Faye. Si debbono trovare in questo lavoro notizie interessanti anche sulle fate dell'alto Delfinato e forse delle Alpi marittime, ma non mi è stato possibile averlo.



35 Debbo alla cortesia di un colto valdostano, le leggende della valle di Challant.



36 Antony Dessaix, Légendes de la Haute-Savoie, Annecy, 1875, pag. 19.



37 Giosuè Carducci, Rime nuove.



38 Wilhelm Scheffler, op. cit.



39 Alfred Ceresole, Légendes des Alpes Vaudoises.



40 Alessandro D'Ancona, I precursori di Dante, p. 57.



41 Grimm, op. cit.



42 Henry Rink, Tales and traditions of the Eschimo, 1875.



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