Maria Savi Lopez
Leggende delle Alpi
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ALBERI E SPIRITI DEI BOSCHI

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ALBERI E SPIRITI
DEI BOSCHI

Vuolsi che fra i culti più antichi ai quali siasi piegata fra l'oscurità dell'ignoranza l'anima umana, vi sia quello verso gli alberi perchè l'uomo trovando nella vita dell'albero quasi un'immagine della propria, dovette sentirsi legato a quello da un forte vincolo. Così pure nelle antiche cosmogonie, spesso avviene che un albero misterioso rappresenti uno dei miti principali, o si trovi in modo strano unito alla prima storia dell'uomo, come se il ricordo confuso, velato in mille guise, ma indimenticabile di un fatto meraviglioso noto alle prime genti, fosse rimasto fra le generazioni disperse ed immemori della loro prima origine.

Da questa grandezza mitologica degli alberi, dalla credenza che potessero avere anima e vita, essi acquistarono grande importanza nel mondo antico, e si giunse al punto di trovare molte relazioni fra gli alberi e le divinità, di maniera che presso genti diverse fu comune l'usanza di chiamare sacri i boschi, che si estendevano intorno a qualche tempio; anzi vuolsi che anche presso le popolazioni più antiche della Grecia, prima che l'arte fosse giunta a tale in quella regione da innalzare templi alle divinità nazionali, esse ebbero per sola dimora i boschi sacri; come furono pur sacre pei Celti ed i loro sacerdoti le misteriose foreste delle quali già tenni parola.

In altri casi ancora un albero solo fu in mezzo ad un bosco ritenuto come prediletta dimora di una possente divinità, che dovea più tardi avere altro monumento; e specialmente i Druidi ritennero che i loro numi, preferissero al tempio elevato da mani mortali, la misteriosa oscurità ed il silenzio delle foreste. Quando insieme alle nuove credenze cristiane si mescolarono stranamente nella coscienza popolare i ricordi delle antiche mitologie; le leggende bizzarre intorno agli alberi si moltiplicarono, e si conservò lungamente memoria di quelli che si credevano in particolar modo prediletti dalle divinità pagane; rendendosi ad essi pur da gente cristiana, una specie di culto.

Sulle Alpi ove estendevansi immense foreste, dovevasi anche serbar viva memoria del culto reso agli alberi, e specialmente nella Svizzera tedesca, si conservò una grande venerazione pei tigli, sotto i quali rendevasi la giustizia, come in altri paesi di Europa si rendeva nel Medioevo sotto un olmo. Ora ancora nella Svizzera si ricordano certi alberi sacri, vicino ai quali avevano i cristiani collocato una croce o un'immagine di santi, ed essi erano rimasti come ricordo del passato; mentre in altre regioni gli alberi sacri erano caduti sotto la scure del legnaiuolo, benchè i popoli germanici del Medioevo cercassero con ogni mezzo di salvarli dalla distruzione.

Il Michelet vuole però che non sia cessato interamente il culto che si ebbe nell'antichità per certi alberi, e senz'andare a cercare le prove di questa sua asserzione fra lontani popoli selvaggi, che trovansi in quello stato d'ignoranza in cui è facile che si abbia per qualche forma della materia il culto che si dovrebbe rendere a Dio, narra che è possibile rinvenirne ancora memoria nel Caucaso ed in Persia. Nelle steppe solitarie se vedesi un albero sulla distesa nuda e triste, ogni uomo che passa lo saluta come un amico e gli offre qualche dono. Il Tartaro non avendo spesso altro da dare a quel solitario gli lascia parte della sua barba e dei suoi capelli219; ed io chiedo a me stessa quale strana traccia del passato è rimasta fra gli alpigiani della nostra Valle di Ceresole, i quali racchiudono doni in certi piccoli sacchi che sospendono agli alberi e che nessuno deve toccare. È questo il ricordo di un culto misterioso reso agli alberi, che fu in uso su quelle montagne, o sono doni destinati ai fantasmi, alle fate ed alle streghe che seguono in qualche sua trasformazione la leggendaria dea delle montagne?

Le mitologie diverse dicevano anche i boschi abitati da un popolo fantastico e vario di divinità inferiori, e per questo motivo destinate a lasciare ricordo più vivo fra le nazioni; poichè inevitabilmente avvenne che certe figure grandiose di possenti dee e di sommi padroni della folgore, che furono adorati specialmente dai Celti, dai Reti, dagli Slavi, e dalle popolazioni nordiche dell'Europa, essendo state gelosamente occultate in parte dai sacerdoti, e trovandosi troppo in alto e lontano dai miseri mortali; sfumarono quasi interamente innanzi alle nuove credenze. Invece rimase sempre vivo e quasi indimenticabile il ricordo delle divinità inferiori, che prendevano, per così dire, parte alla vita dell'uomo, e ch'egli avea credute anima d'ogni fiore, d'ogni fil d'erba; o che parevagli di vedere nelle foreste, nell'acqua e fra le pareti domestiche.

In certe regioni alpine trovansi ricordi vivissimi di queste credenze antiche, divenute nel Medioevo più strane ancora nella forma e forse numerose; ed esse ci mostrano certi boschi popolati da tal numero di spiriti malefici o cortesi, dall'aspetto selvaggio o dalla bellezza ammaliante, che sarebbe impossibile raccogliere in un capitolo solo, quanto può esservi d'interessante su questo argomento, e mi limiterò a parlarne brevemente.

Fra tanti spiriti misteriosi nei quali trovansi confusi insieme i ricordi della mitologia latina e di quella dei Celti, degli Slavi, e anche di tutti i popoli che vivevano verso l'estremità nordica dell'Europa, vanno notati quelli che sono l'anima degli alberi, o per meglio dire, secondo il concetto popolare, vivono della vita di certi alberi e soffrono se ne vengono spezzati i rami, o hanno la loro esistenza troncata, se gli alberi in cui dimorano sono colpiti dalla folgore o cadono sotto la scure del legnaiuolo.

In alcune regioni delle Alpi tedesche, le Waldmütter, o madri dei boschi, possono secondo la credenza popolare, aver dimora in un albero o far parte dell'albero istesso, essendo nate per vivere della sua vita; ed una leggenda dice di un boscaiuolo che abbatteva un pino secolare. Mentr'egli dava colla scure colpi violenti contro il tronco dell'albero, una Waldmütter gli apparve; essa era forse l'anima del pino, e certi versi che sono scritti in un dialetto tedesco ripetono la caldissima preghiera che rivolse al legnaiuolo. Da tanti anni viveva nella foresta, era rimasta sempre fra il silenzio e l'ombra, amava pure il vecchio pino, perchè distruggerlo, perchè abbatterlo, doveva essa morire col suo fido amico?

Altre leggende delle Alpi ci mostrano alberi che sentono, soffrono e spesso dai loro rami spezzati gronda il sangue, e odonsi gemiti fra lo stormir delle foglie, o un sentimento di dolore e d'amore muove le loro cime. Altre volte ancora si trovano negli alberi anime infelici condannate ad espiare per un certo tempo le loro colpe, e la leggenda narra che vicino al lago di Millstatt, nella Svizzera, una fanciulla maledetta dalla propria madre fu cambiata in acero. L'anima dell'infelice gemeva senza posa, e forse non avea speranza di pace; ma un giorno un piccolo suonatore di violino il quale andava vagando pel mondo in cerca di pane, sedette vicino all'albero maledetto, e sentendo i gemiti suonò per consolare quella povera anima. Forse mentre suonava pregò, e la dura corteccia dell'albero si aprì in maniera che l'anima della fanciulla fu liberata.

In una leggenda della Savoia, troviamo invece in un albero un'anima dannata eternamente, ed essa riguarda la Torre di Ripaille, che viene anche chiamata Tour du Noyer, perchè un grosso noce è cresciuto sulle sue rovine. Vuolsi che in una notte oscura un viaggiatore il quale portava una pesante cassetta andava a Ripaille; il barcaiuolo che facevagli attraversare il lago lasciandosi vincere dal desiderio di prendere quella cassetta, fece capovolgere la barca in maniera che l'infelice viaggiatore annegò; ed egli essendosi impossessato della cassetta, andò a riposare nella vecchia torre. Ma la memoria del delitto commesso gli tolse in quella notte ogni pace; finchè si avvide con sommo terrore, che Satana era salito sul suo petto e l'opprimeva in modo intollerabile, facendogli intendere chiaramente, che era egli stesso colui che l'avea tentato, e ch'egli credeva morto nel lago.

Per capire il significato della prima frase che il diavolo rivolse al colpevole è forza ripeterla in francese, poichè egli disse: «Tu ne jouiras pas de ton crime, car changé en noyer tu seras noyé comme moi». La valigia era piena di brillanti e sull'infelice barcaiuolo cambiato in noce, tutti gli anni, nell'anniversario della notte in cui egli aveva commesso il delitto, mutavansi per un'ora in brillanti le noci dalle quali era coperto. L'anima del maledetto doveva pure in quell'ora animare ogni ramo, mentre il diavolo andava a raccogliere le noci preziose, ed al posto di quelle lasciava sull'albero noci comuni.

Se in quell'ora un uomo audace si fosse avvicinato al diavolo per vendergli l'anima, avrebbe ricevuto in dono i brillanti, e sarebbe stato l'uomo più ricco della terra. Non è però mai avvenuto che si vedessero le noci meravigliose sull'albero leggendario; ma si sa che nel mentre il barcaiuolo si mutò in noce, le foglie dell'albero piansero e grondarono sangue220.

Altre leggende ancora in cui narransi i dolori degli alberi si trovano sulle Alpi, e tracce profonde si rinvengono ancora in tutta la Germania della credenza che fu comune nel mondo antico e nel Medioevo, mentre si pensava che gli alberi potessero anche parlare, e la fantasia popolare immaginò fin da tempi lontanissimi certi racconti che dovevano nei versi di Virgilio e di Dante essere immortalati.

Anzi essendo anche nel Medioevo così estesa e profonda la credenza in certe facoltà soprannaturali degli alberi, Dante non ebbe mestieri di cercare solo in Virgilio o in altri classici ricordi l'ispirazione pel canto stupendo in cui ci mostra gli spiriti, che fra i rami spezzati gemono e narrano i loro tristi casi; ma bastò che ricordasse le leggende popolari, che però erano da gran parte delle nazioni europee ritenute come narrazioni di cose vere e possibili; e nel ripetere il triste racconto della Waldmütter delle Alpi che prega il legnaiuolo, o altri infiniti casi in cui, secondo le leggende, da ogni ramo spezzato gronda il sangue, possiamo rammentare il nostro sommo Poeta che ci dice:

Allor porsi la mano un poco avante,
E colsi un ramuscel da un gran pruno,
E 'l tronco suo gridò: Perchè mi schiante?

Da che fatto fu poi di sangue bruno
Ricominciò a gridar: Perchè mi scerpi?
Non hai tu spirto di pietate alcuno?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Come d'un stizzo verde, ch'arso sia
Dall'un dei capi, che dall'altro geme,
E cigola per vento che va via;

Così di quella scheggia usciva insieme
Parole e sangue: ond'io lasciai la cima
Cadere, e stetti come l'uom che teme.

Più tardi Torquato Tasso nel raccontare gl'incantesimi fatti in una foresta in odio dei crociati, ricorda ancora le credenze popolari; ma egli si attiene specialmente a queste, nel mostrarci Tancredi che si trova di fronte al cipresso, mentre:

Fremere intanto udia continuo il vento
Tra le frondi del bosco e tra i virgulti,
E trarne un suon che flebile concento,
Par d'umani sospiri e di singulti;
E un non so che confuso instilla al core
Di pietà, di spavento e di dolore221.

Il cipresso in molte leggende note sulle Alpi come in altre parti di Europa ha anima e vita, ed è anche prediletto dalle streghe e dai demoni, e per questo motivo è nel concetto di Torquato, dimora dello spirito maligno; ma se la sua importanza leggendaria dovette farlo guardare con tema e rispetto dai nostri avi, tocca invece al sambuco di essere sulle Alpi del Tirolo un albero specialmente venerato, innanzi al quale i passanti si tolgono il cappello; ed il De Gubernatis che riferisce questo strano costume, dice che fu sacro al dio del fulmine Thunar o Donar.

La sensibilità quasi umana che gli uomini credettero comune a tanti alberi, giunge a tale secondo una leggenda delle Alpi, ch'essi possono essere affascinati in modo potente dalla musica soave che suonano certi spiriti che vanno di notte sulle montagne, facendo parte del Nachtvolk del quale già tenni parola. E vi sono certi alpigiani che sanno additare i pini, i quali secondo la credenza popolare piegano le alte cime, quando passa il popolo notturno di suonatori, e par che vogliano seguirli nel loro aereo viaggio222.

Si volle pure che gli alberi avessero il dono della memoria, e forse ricordando le umane sventure piangeva senza posa l'albero della vita; il quale secondo una leggenda che fu nota nel Medioevo, quasi al pari di quella sull'Ebreo errante, apparteneva ad un certo prete Gianni, mezzo ebreo, mezzo cristiano che governava nell'India o nell'Abissinia un vastissimo regno, ove erano raccolte cose meravigliose; e forse ricordando quella strana leggenda, Tassoni nel primo canto del suo poema l'Oceano, non ci fa vedere una quercia che perda il sangue:

Ma un grand'arbore in vece di fontana.
Stringonsi intorno a lui tutti i vapori
Del luogo, e fuor d'ogni credenza umana
La virtù di quell'arbore gli scioglie,
E gli distilla giù dalle sue foglie.

Ma non trovai ricordo dell'albero triste della vita nelle leggende delle Alpi; però va notato per altro motivo un larice leggendario che vedevasi nella Valle di Susa, e la sua storia è collegata a quella di San Giusto, monaco della chiesa di San Lorenzo d'Oulx, quando nel 571 i Longobardi discesero nella valle ed incendiarono la chiesa ed il convento.

Insieme ad un altro monaco San Giusto era fuggito innanzi agl'invasori ed avea cercato un rifugio nella foresta di Beaulard, ove trovandosi al sicuro salì col suo compagno sopra un larice, che doveva essere nell'avvenire guardato da tutti i valligiani con venerazione. Di i due monaci videro il monastero tra le fiamme ed il fumo; ma essi scorsero pure le anime dei monaci santi uccisi dai Longobardi che salivano verso il cielo, insieme ad innumerevoli angeli, e si pentirono di essere fuggiti innanzi ai loro nemici. Nel desiderio di morire anch'essi per la fede, discesero nella valle dove andarono a muovere lamento ai Longobardi delle crudeltà ch'essi commettevano, e furono uccisi al pari dei loro fratelli. L'albero sul quale era salito San Giusto si riconosceva facilmente dalla forma, perchè i suoi rami formavano sette punte, mentre i larici hanno generalmente forma piramidale. Ma l'importanza data ad esso dalla leggenda che lo faceva venerare come albero sacro non valse a conservarlo, finchè qualche temporale lo schiantasse; invece un valligiano osò abbatterlo per avere legna da ardere, ma egli finì, a quanto narrasi, miseramente e parve che una maledizione pesasse sopra i suoi discendenti223.

La leggenda di Sant'Eldrado, altro monaco ricordato a lungo nella cronaca della Novalesa, accenna pure ad un albero all'ombra del quale il Santo passò trecento anni, ascoltando un uccello del paradiso; ed egli credette di essere rimasto estatico per poche ore appena, quando tornando nel suo convento trovò tutto mutato a segno che finì col conoscere da quanto tempo mancava di ; e parmi che in qualche modo questa leggenda potrebbe collegarsi a quella di San Brandano, celebre nel Medioevo.

In una leggenda delle Alpi Svizzere, troviamo la trasformazione meravigliosa di un albero. Essa narra che San Pietro e San Filippo andavano errando verso il Vallese, e si addormentarono di notte in un bosco ove una pioggia violenta bagnò i loro mantelli. Appena apparve il sole li distesero sui rami di un vecchio albero che trovavasi vicino ad essi, ed aveva il tronco nodoso e contorto. Quando i mantelli furono asciugati, San Pietro pregò il Signore di dare un compenso a quell'albero facendone un uomo, al quale sventuratamente non mancò la gobba, e che divenne il primo abitante del Vallese224. Triste satira che ha preso forma di leggenda popolare!

Sulle regioni alpine da me visitate, non mi avvenne di raccogliere leggende sugli alberi; mi si additarono solo i faggi sotto i quali le streghe si riunivano a mezzanotte pel ballo, insieme agli stregoni; e pare che in certe regioni, ove questi alberi si elevano come giganti, e possono ancora crescere vicino ai campi di neve, ai pascoli ove danzano le fate delle Alpi, o ai casolari solitarii, essi abbiano qualche cosa della leggendaria fama delle querce e dei noci, prediletti dalle streghe.

Però anche le querce trovandosi in regioni meno elevate, sono sui versanti italiani delle Alpi, oggetto di credenze superstiziose; perchè è impossibile che mentre si rinvengono tante reminiscenze di antiche mitologie, si sia perduto, sulle nostre montagne, ogni ricordo dell'importanza somma che ebbero nel culto dei Celti, ed in quello di altri popoli, che vedevano anche in esse gli alberi dedicati al possente dio Thunar. Di certo questa grandezza leggendaria delle querce come alberi sacri o dimora delle divinità, dovette essere combattuta energicamente dalla religione cristiana, che in tanti siti riuscì a farle ritenere come alberi degni di venerazione, secondo il concetto delle nuove credenze, sol perchè sotto i loro rami o sui ruvidi tronchi si sospesero immagini della Madonna o di qualche Santo.

Non sempre però si ottenne che la venerazione per le querce, come alberi sacri di molti pagani, si mutasse in rispetto per le immagini sante che trovavansi vicino ad esse; ma essendosi trasformate in demoni innanzi all'immaginazione popolare le divinità alle quali erano consacrate, finirono coll'essere tenute come il centro intorno al quale si riunivano le streghe per le ridde notturne. In molte regioni d'Europa questa credenza dura sempre, insieme ad un certo terrore superstizioso pei gatti; ed ora ancora a piè delle Alpi nel Canavese, le querce più annose sono la dimora di streghe che assumono secondo la credenza popolare forma di gatti. Esse saltano lassù, hanno occhi scintillanti ed alternano il mesto miagolìo con parole del linguaggio umano225.

Ora tornando alla credenza nel popolo misterioso e leggendario dei boschi, è necessario dire ch'essa durò a lungo nei siti ove si trovarono boschi foltissimi ed estesi; ma ne rinvenni solo traccia nella credenza negli uomini selvaggi, sulle Alpi del versante italiano, ove sventuratamente furono distrutti tanti boschi, e sparirono insieme ad essi le loro divinità; come pure nessuna leggenda che lo riguardi venne trovata dagli amici gentilissimi che per me raccolsero notizie nelle Valli di Susa, di Varaita, di Challant, nella Valle Anzasca, nella Vallemaggia, nella Valsesia e nel Canton Ticino.

Nelle regioni ove si rinvengono ancora bizzarre leggende intorno ai fantastici abitanti delle foreste, parmi che in prima linea vadano notate quelle che dicono delle fanciulle del legno o del musco, che cambiano nome dalla Scandinavia fino a certi versanti delle Alpi italiane. Molte di esse, come il Robin Hood di certe leggende inglesi, sono vestite di verde, secondo la credenza che è anche popolare sui monti dell'Harz e sulle regioni alpine che più si avvicinano alla Baviera. Quando sono sugli alberi non è possibile distinguerle dal musco che ricopre tronchi e rami; spesso la loro vita è legata a quella degli alberi delle foreste, ed ognuno di questi ha la sua fanciulla o la sua donna selvaggia, che deve morire al pari delle Waldmütter alpine, se l'uomo abbatte il loro amico226.

Secondo altre leggende le fanciulle del musco ed i nani dei boschi sono liberi affatto, vivono però sugli alberi o stanno nelle case di musco; cullano i loro bimbi nei nidi anche di musco o raccolgono le verdi foglie che mutano facilmente in oro227. Spesso le fanciulle del musco filano, formando la specie più fina di musco che si attacchi agli alberi, o regalano a persone care dei gomitoli di quel filo verde; e parmi che nelle leggende questo popolo misterioso di fanciulle e di donne selvaggie abbia pure qualche somiglianza colle fate, specialmente nel costume di filare, ed in quello di riunirsi di notte nei siti coperti di musco, ove ballano mentre i raggi di luna passano tra lo scuro fogliame dei larici e dei faggi. Ma ad esse si avvicina maggiormente il gruppo delle Selige Fräulein o delle Belle Vivane, che formarono innanzi alla fantasia dei Tirolesi il poetico e divino popolo dei loro boschi.

Questi spiriti così diversi secondo il concetto popolare, dalle Fanggen anche tirolesi e dalle donne selvaggie della Germania, vanno beneficando gli uomini e gli animali, potendo uscire dalle loro verdi dimore. Al pari di certe fanciulle del musco, mentre fanno parte del popolo dei boschi non sono legate alla vita di alberi speciali, e non di rado soccorrono i viandanti che si sono smarriti sulle montagne, o li sorreggono sui ripidi pendii ghiacciati. Dimorano con frequenza in certe grotte nascoste in mezzo ai boschi; e perchè, come già vedemmo, quasi sempre avviene che la leggenda si adatti in modo mirabile all'ambiente di quelle regioni ove giunge, passando da popolo a popolo, le fantastiche fanciulle delle Alpi hanno cura speciale dei camosci; ma forse non avendo dimenticato la loro lontanissima origine orientale, tengono nelle grotte ove dimorano, molti uccelli dalle penne tinte coi più vivi colori, insieme ai camosci che difendono con infinito amore dalle insidie dei cacciatori; sapendo che provano un dolore inenarrabile quando uno di essi viene ucciso dagli arditi alpigiani228.

Nel popolo cortese delle fanciulle dei boschi, ed in certi nani verdi o grigi al pari degli elfi, possono gli alpigiani di certe regioni tedesche, trovare, secondo la credenza popolare, un valido aiuto nelle faccende domestiche, ed essi come i servants delle Alpi di Vaud ed i lutins delle montagne di Francia lavorano attentamente, rimanendo però invisibili sui pascoli vicino al gregge e nelle case. Ma se odono pronunziare il loro nome, o se mostrasi d'indovinare ch'essi sono presenti, tornano rapidamente nelle loro dimore sulle rupi o nei boschi. Si ritiene che sia una grande ventura per una famiglia avere a suo servizio uno di quegli esseri benefici, e le leggende dicono che nel sito ove si trovano, più fertili diventano i pascoli, e più facilmente girano le ruote dei molini.

Le dolci fanciulle dei boschi, possono al pari delle fate provare vivo affetto pei giovani pastori, ai quali rivelano tutte le segrete e magiche virtù delle piante; ed esse formano sia nelle più lontane regioni nordiche dell'Europa, sia nei boschi o vicino ai ghiacciai delle Alpi, un contrasto spiccato con altri genii o spiriti dei boschi, chiamati con nomi differenti in diverse lingue; e che il Mannhardt vuole ritenere come rappresentanti, innanzi alla fantasia popolare, della vegetazione nelle sue forme più gigantesche ed imponenti, e per questo motivo assai diversi dal popolo gentile del musco e delle pianticelle; che al minimo soffio dell'aura si piegano, ed hanno fremiti di paura o d'amore nelle foglie e nei rami sottili.

Il popolo selvaggio formato dalle donne e dagli uomini dei boschi ha aspetto spaventevole e forme gigantesche, anche sulle Alpi. In parecchi villaggi del Tirolo le donne selvaggie sono chiamate Fanggen (sing. Fangga). Di altissima statura hanno il corpo peloso come le scimmie, e mentre la fantasia popolare si è compiaciuta nel dare tanta bellezza di forma alle fate ridenti ed a certe fanciulle dei boschi, par che abbia voluto, rispetto alle Fanggen, dar prova della sua potenza nell'immaginare anche il brutto. Così il loro viso è contorto e feroce, esse hanno la bocca che apresi da un'orecchia all'altra; ed i loro capelli simili ad una specie di lichene (Lichen barbatus L.) scendono disciolti ed arruffati sulle loro spalle. Esse hanno voce spiacevole, priva d'ogni dolcezza, mandano scintille dagli occhi e sono vestite con pelli di gatti selvaggi229. Vivono in società nei boschi, e molte di esse hanno a quanto pare nomi speciali.

Quando il vento sibila con violenza, i Tirolesi dicono che il gigante dei boschi chiama le Fanggen disperse. Mannhardt narra ancora che, secondo la credenza popolare, queste donne così feroci ed orribili nell'aspetto, si piegano spesso a fare nelle case le parti di utili spiriti famigliari; e non so intendere per quale stranezza la fantasia popolare possa trovare in esse le qualità di gentilezze e d'umiltà necessarie nella comunanza della loro vita con quella degli alpigiani.

Una delle più strane leggende tedesche sulle donne selvaggie parmi quella di Wolfdietrick, che non è però speciale alle Alpi, ma trovasi più generalmente in tutta la Baviera, e vien pur ricordata in certe vecchie poesie del 1221. In essa ritroviamo l'argomento comune a tante fiabe ed a tante leggende sparse sulla terra, in cui mostransi miracoli operati per forza d'amore, e la vittoria di qualche cuore appassionato, sopra altro cuore chiuso all'amore. Questa leggenda dice di un giovane pastore chiamato Wolfdietrick il quale seduto sull'erba vegliava vicino al fuoco acceso, essendo rimasto a custodia dei suoi compagni addormentati; quando vide fra l'ombra una forma spaventevole, che gli parve un orso ed avvicinavasi a lui, camminando a quanto pareva sulle quattro zampe; finchè egli si avvide che non era un animale, ma la selvaggia Elsa, coperta di lunghissimi capelli e brutta al pari di tante donne selvaggie.

Quando giunse vicino al giovane quella triste figura di donna, essa gli chiese se era disposto a seguirla ed amarla per tutta la vita. Egli rispose con un rifiuto, allora la donna selvaggia cercò di ammaliarlo colla dolcezza delle parole, ma vedendo ch'egli provava ribrezzo innanzi al suo spaventevole aspetto, e che non si sarebbe mai piegato ad esserle sposo, lo addormentò per arte magica, e tagliandogli due ciocche di capelli e le unghie delle mani lo trasformò in toro.

Per lunghi mesi Wolfdietrick immemore di quanto era avvenuto andò al pascolo vicino alla donna selvaggia, finchè Iddio comandò a costei di fare cessare l'incanto fatale, che avea ridotto il giovane in quello stato compassionevole, ed essa dovette ubbidire, altrimenti sarebbe stata uccisa dalla folgore. Appena Wolfdietrick ebbe ripreso forma umana, la donna selvaggia gli chiese se voleva seguirla ed avendo egli volontariamente dato il suo consenso, lo sollevò in aria e facendolo passare sopra il mare, lo portò in una terra lontana ove essa regnava.

Giunta in quel sito si bagnò in una fontana ed essendo uscita dall'acqua in aspetto di donna bellissima prese il nome di Segennine e sposò Wolfdietrick230.

Fra il popolo selvaggio dei boschi hanno pure molta importanza i piccoli nani del musco, i nani delle folte selve, ed i giganti selvaggi, chiamati con diversi nomi in molte regioni alpine, e detti nel Tirolo Belmon, Savadegh, Salvanel. Costoro, secondo la credenza popolare vivono nei boschi insieme alle Fanggen, ed a tutte le donne selvaggie; ma sembrano miti e buoni ed ammaestrarono gli alpigiani in molte utili arti.

Anche nel Biellese, e nelle Valli di Lanzo e di Aosta trovansi, come già dissi, parecchie leggende sugli uomini selvaggi. Non lungi dal Lago della Vecchia in Val d'Andorno ho visto una piccolissima grotta, ove secondo la credenza popolare, visse in altri tempi l'uomo selvaggio, e forse su tutta la catena delle Alpi credesi che questi uomini leggendarii insegnarono ai pastori l'arte di fare i formaggi, come usarono i Salvadegh del Tirolo. In questa regione trovasi però una versione assai diversa da molte altre leggende, poichè da quanto narrasi non pare che un certo Salvanel insegnò volontariamente quanto sapeva agli alpigiani, ma che avendo essi trovato mezzo di ubbriacarlo poterono rapirgli i suoi segreti.

La strana credenza nella scienza degli uomini selvaggi, che sono innanzi alla fantasia popolare esseri soprannaturali, ha forse relazione con antichissima mitologia nordica e con quella di Roma e di Atene, che non davano sempre agli uomini il vanto di essere giunti per forza d'ingegno, e dopo lunghe prove a conoscere le arti più elementari dell'agricoltura e della pastorizia; ma li dicevano ammaestrati dalla mente superiore di divinità diverse o di eroi. Però trovandosi negli uomini selvaggi delle Alpi pochissima potenza superiore alle facoltà umane, parmi che si possa oltre ad un lontano ricordo mitologico, veder pure in essi memoria degli antichissimi abitanti delle Alpi, che dovettero mostrare a nuove popolazioni di barbari invasori, o di operai andati a sfruttare le ricche miniere, gli usi più comuni nelle regioni alpine, per la conservazione dei formaggi e l'allevamento del bestiame.

Forse il demone Salvané della valle di Genova, leggiero e crudele, il quale usa mille arti d'inganni verso i miseri mortali231 deve essere una trasformazione del Salvanel o Salvadegh tirolese.

In Fassa, secondo la credenza popolare, gli uomini selvaggi avevano alta statura, capelli neri lunghissimi ed unghie che sembravano artigli, all'estremità delle dita lunghe e pelose. Forse a cagione dell'uso durato fino ai nostri tempi di spaventare i fanciulli, minacciandoli dell'apparizione di qualche essere pronto a castigarli ed a portarli via, è pure invalsa in certi paesi della Germania e delle Alpi la credenza che le donne selvaggie ed i giganti dei boschi, possono al pari di altri spiriti malefici rubare i bambini. Di questo vengono accusati i Salvanel e le Fanggen del Tirolo; e questa credenza giunge a tale che su certe alte montagne si tengono chiuse le finestre dalle quali, col mezzo di una scala, potrebbe entrare nelle case il ladro misterioso.

Nell'istessa regione alpina le mogli dei Salvegu o Salvanel chiamavansi Bregostane, e questi spiriti dei boschi, al pari dei centauri e dei giganti, che secondo la credenza degli Eschimesi già vedemmo dotati della facoltà di ritrovare per cinque volte la giovinezza, sono in parte uomini ed in parte animali232.

Mannhardt che cercò con tanta passione le memorie del passato nelle credenze popolari germaniche, accenna pure alla somiglianza che trovasi fra i Silvani della mitologia latina ed il Salvegu o Salvanel, dicendo che possono vivere ancora innanzi alla fantasia popolare fauni e satiri, ninfe e altre divinità inferiori dei boschi.

Nel popolo degli Elfi studiato dal Grimm e da altri dotti, e del quale trovammo ancora memoria sulle Alpi nelle diverse sue trasformazioni in folletti, in servants, in folatons o in lutins, possiamo vedere anche una grande somiglianza con certi spiriti speciali dei boschi; solo parmi che mentre i misteriosi abitanti dei boschi tirolesi, si avvicinano maggiormente a certi tipi di divinità inferiori della mitologia latina, i folletti di altre regioni alpine, abbiano qualche cosa di più aereo, di più fantastico, che li unisce strettamente agli Elfi, o ad altri spiriti delle mitologie nordiche.

Gli Elfi neri o grigi vivono anch'essi nei boschi; e mentre il Moosleute o popolo del musco cambia in oro le foglie degli alberi, gli Elfi raccolgono nei sotterranei oro o argento, ed hanno spesso la loro abitazione sugli alberi. Il nano Alberico, il quale, come già dissi, rappresenta nell'antica poesia popolare germanica un poetico tipo di elfo, visse, secondo la credenza popolare, per tre anni in un tiglio, che divenne pure albero sacro; e questa leggenda è nota anche nella Scandinavia233.

Nelle tracce lasciate dalle credenze dei Celti ritrovansi pure con frequenza le donne selvaggie, chiamate in Francia, nella Franche Comté, le dame verdi, e dette nelle vicinanze dei monti del Giura, le dame grigie; mentre forse nella coscienza popolare è avvenuta una confusione fra le loro figure fantastiche e quelle delle fate, che certe leggende francesi ci dicono anche vestite di grigio. Esse dimorano sopra una quercia ed al pari di molti spiriti dei boschi delle leggende della Germania e delle Alpi, hanno potenza di affascinare gli uomini, che non sanno più vedere in altre donne bellezza pari alla loro. Si raccontano pure certe leggende d'amore in cui hanno parte.

Nella Svizzera e nel Tirolo credesi che gli uomini selvaggi, o genii delle foreste, abbiano sempre in mano un grosso pino; ed anzi il pino è pur dimora prediletta di quei misteriosi signori, i quali, al pari della Waldmutter soffrono e pregano quando i legnaiuoli vogliono abbattere i loro amici.

Non sempre le donne selvaggie che vedemmo in aspetto spaventevole, hanno così triste apparenza innanzi alla fantasia popolare; e raccontasi pure di una pastorella che filava in un bosco di betulle e vide una donna selvaggia vestita di bianco, con una corona di fiori sul capo. Costei pregò la fanciulla di ballare, e questo ella fece per tre giorni fino al tramonto del sole, ma così leggermente che l'erba non si curvava neppure sotto i suoi piedini. La donna selvaggia per compensarla le diede molte foglie di betulle che si cambiarono in monete d'oro234.

La credenza così viva nel Medioevo in tutta la fantastica popolazione dei boschi, fu causa che in certe feste, le quali erano spesso una reminiscenza o una trasformazione di antiche feste pagane, che si celebrarono in onore della primavera, dell'amore e delle vendemmie, riapparivano gli uomini selvaggi e questo costume durò a lungo. In Austria essendovi ai tempi dell'imperatore Giuseppe II una grande tendenza al razionalismo, si proibirono i giuochi in cui essi figuravano.

Nelle storie francesi ritrovasi qualche volta ricordo di queste strane divinità dei boschi, e specialmente nel ballets des ardents, datosi il 29 gennaio 1393, quando Carlo VI volle festeggiare la regina Isabella di Baviera. Ad un nobile normanno venne l'idea di far figurare nella festa gli uomini selvaggi, ed il re e quattro nobili vollero rappresentarli. Froissart dice che si fecero «six cottes de toiles couvertes de lin délié en forme et couleur de cheveux; ils furent vestus de ces cottes qui est bient-faites à leur point, et ils furent dedans consus, et ils montroient estre hommes sauvages, ils estoient tous chargés de poils, depuis le chef jusqu'à la plante du pié».

In Italia nelle feste che vi furono pel matrimonio di Alfonso di Ferrara con Lucrezia Borgia, si videro danze di uomini armati, ed anche di uomini selvaggi, che portavano in mano certi corni di abbondanza, dai quali usciva fuoco: essi figuravano come liberatori di una fanciulla minacciata da un drago235. Anche a Bologna pel matrimonio di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d'Este, apparvero nelle danze gli uomini selvaggi, che circondavano un uomo il quale raffigurava in modo ammirevole un leone236; e forse anche i poemi cavallereschi valsero con frequenza a rendere popolari le loro figure, descrivendole come si usò per quella dell'uomo nero selvaggio nel romanzo bretone d'Yvain et la dame de Brécilien, che servì di modello al poema così diffuso del Chevalier au Lyon237. In questo secolo ancora nella strana processione in uso ogni anno nella città di Mons, per celebrare il ricordo della grande vittoria del cavaliere Gilles de Chin, sopra un drago leggendario, si vedevano apparire gli uomini selvaggi insieme ai diavoli238.

Altre leggende innumerevoli si trovano in gran parte d'Europa e sulle Alpi, intorno agli spiriti dei boschi, i quali tutti nel concetto medioevale, mentre si estendevano sempre maggiormente le credenze cristiane, si trasformarono, come già notai, in demoni della vegetazione; che non solo furono le anime malefiche degli alberi, o serbarono il carattere degli spiriti che si mostravano quasi esitanti fra il bene ed il male, rappresentando pur nel concetto popolare gli spiriti celesti che rimasero neutri nella terribile lotta fra gli spiriti buoni e quelli cattivi; ma si credettero anche anime delle pianticelle più umili e delle erbe.

Mannhardt però nel descrivere infinito numero delle figure splendide o tristi che l'immaginazione umana seppe vedere, dandoci nuova prova della sua potenza creatrice; le raccoglie tutte nel gran popolo degli spiriti dei boschi, in cui credettero i nostri avi e credesi ancora, come vedemmo, anche in certe regioni alpine. Ma pure mentre m'inchino innanzi alla sua immensa dottrina, che deve far provare un senso di ammirazione a chi legge i suoi lavori, dirò timidamente la mia opinione riguardo al popolo selvaggio ch'egli ha studiato con tanto amore; poichè sembrami che pur fra la confusione inenarrabile di tante leggende e di tante credenze diverse, si possono trovare fantastiche figure create dalla fantasia popolare, le quali non appartengono alla grande famiglia delle fate ed a quella degli Elfi, delle donne del musco e del popolo dei boschi; ma si debbono ritenere quali genii speciali delle montagne, delle grotte, delle rupi e dei ghiacciai, intorno ai quali più non crescono le alte piante dei boschi, e solo i rododendri ed i fiori più minuti e gentili della flora alpina, mettono una nota gaia.

In questo caso parmi che avvenga all'illustre Mannhardt il caso comune a chi appassionandosi per un solo concetto, vuole riferire a quello, infinite manifestazioni del pensiero umano; la qual cosa accadde pure a coloro che vollero nei miti solari od in quelli meteorologici trovare la sola spiegazione d'innumerevoli leggende o credenze popolari.

Sembrami però che anche nello studio stupendo sul culto degli alberi e sul fantastico popolo delle selve, il Mannhardt, al pari di molti altri dotti, i quali spesso come incoscienti, o a dispetto delle proprie convinzioni, debbono venire alle stesse conclusioni, dopo il confronto delle mitologie e delle credenze popolari; sia come sospinto da una misteriosa forza a provare l'origine unica del genere umano; rendendo forse più vicino ancora uno dei maggiori trionfi della scienza, che potrà affermare il vero proclamando anche il trionfo di una verità della fede; ed egli dopo averci mostrato il popolo selvaggio dell'Europa, dalla Scandinavia fino alle più spaventevoli regioni delle Alpi, ci fa rivedere gli uomini selvaggi nei boschi lontani del Perù e del Brasile, ove essi a notte scherzano cogli amfibii e cogli uccelli che temono la luce del sole, ed usano con inganno di trarre possibilmente gli uomini a sicura morte. Così le stesse figure spaventevoli o gentili appariscono all'uomo, ovunque egli si trovi coi suoi dolori, colle sue speranze e cogli affetti suoi.

LE REGINE DELLE NEVI
E GLI SPIRITI DELL'ACQUA

In mezzo alle numerose famiglie di esseri fantastici che si sono formate nel volgere dei secoli, trovansi pure, come già dissi, altre specie di spiriti femminili, che hanno molta somiglianza colle fate, o colle fanciulle degli alberi e del musco; ma per certi caratteri distinti, non comuni ad altri spiriti alpini, o perchè rimangono isolati, come regine delle montagne, debbono avere un posto speciale fra le creazioni più splendide o strane della fantasia popolare.

Più in alto ancora delle belle Vivane e delle Selige Fraülein Tirolesi, per la bontà del cuore e la bellezza affascinante, sono le fanciulle delle nevi. Esse mandano le loro benedizioni sul gregge che sale nelle alte regioni alpine, quando la neve si scioglie sugli ultimi pascoli, e le viole fioriscono vicino ai ghiacciai. Quando vi è minaccia della tormenta sulle montagne, ne danno in qualche maniera avviso ai pastori, che possono scendere verso gli alp e salvare gli armenti. Spesso distendono al sole sulle più alte rupi le loro candide vesti, che hanno lavate vicino ai ghiacciai; e quando nelle belle giornate non vedonsi nell'alto quei fiocchi di neve, è segno che il tempo si manterrà sereno.

La nebbia che passa sospinta dal vento sulle rupi altissime, o le nuvolette irradiate dal sole, che sembrano d'argento, e spesso restano immobili sui fianchi scuri delle Alpi, diedero forse occasione ai poeti pastori d'immaginare le strane leggende sulle fanciulle delle nevi. Esse, al pari delle fate alpine, sono vestite di neve, o coperte di ghiacciuoli scintillanti ed hanno capelli biondi ed occhi azzurri. Di rado rimangono fra i tristi boschi di larici o di faggi, e preferiscono stare al sole, sedendo sulle più alte cime ed ammaliando da quell'altezza gli uomini, che anelano a salire fino al loro candido regno; ma solo ai giovani dal cuore gentile e puro, è dato di salire finchè si trovino accanto alle bionde fanciulle.

Una leggenda tirolese narra che alcune di queste regine della neve, abitavano fra certe rupi in sito ombroso e fresco, e mostravansi amiche dei pastori beneficandoli. Di sera sedevano sopra un'alta rupe, accanto ad un larice, e cantavano in tal maniera che nessuna voce umana poteva vincerle al paragone nella dolcezza. Avvenne che un pastore sentì quelle soavissime voci, quando tornava a casa col gregge, ed egli fu in tal maniera affascinato che rimase in piedi vicino alla rupe, mentre scendeva la notte sulle montagne, e vi stette a lungo, finchè essendosi levata la luna, si ricordò del gregge e della giovane sposa e tornò a casa sua; ma nella sera seguente andò sempre vicino alle bionde fanciulle, ascoltando estatico le loro canzoni, finchè esse vollero mostrargli i tesori della grotta ove dimoravano, ed il gregge di camosci che tenevano raccolto nel loro palazzo sotterraneo.

Per qualche tempo ancora il pastore rimase come ammaliato dalle candide fanciulle della neve, e quando lungo il giorno custodiva il gregge, o di notte ritornava verso l'umile casa, aveva nell'anima una tristezza invincibile, e pensava ancora alle canzoni udite. La giovane sposa essendo profondamente addolorata a causa del cambiamento strano avvenuto nel pastore, e non sapendo ove egli passava la sera, trovò mezzo di mettergli in tasca un gomitolo, e tenne in mano la parte estrema del filo che si svolgeva mentre egli camminava. Quando fu sicura che il marito erasi fermato, si servì del filo per seguir la stessa via ch'egli aveva percorsa, e giunse finalmente nella grotta delle bianche fanciulle, ove il pastore fra i camosci e le belle ammaliatrici ascoltava come era suo costume il loro canto.

La giovane sposa nel vedere in quel sito l'uomo ch'essa amava tanto, cominciò a piangere ed a disperarsi, imprecando alle fanciulle della neve, che sparirono col gregge innanzi ad essa, e non tornarono più nella bella grotta. Questa leggenda ritrovasi spesso con molte varianti, e parmi che sia una delle più comuni in parecchie regioni alpine.

Sotto la Rocca Pagana nel Trentino, gli ultimi pagani avevano, secondo una credenza comune in quelle regioni, nascosti i tesori dei loro templi, e molti andavano di notte lassù a fare lunghe ricerche nel desiderio di trovarli; ma una misteriosa e bellissima donna della montagna li custodiva, ed essa affascinò un giovane medico il quale si aggirava di notte intorno alla Rocca, e trovò il tesoro più caro e più desiderato negli occhi dell'incantatrice, ch'egli amò pazzamente. Nessuno sapeva qual magica forza attraeva l'infelice verso la Rocca pagana; ma finalmente alcune persone venute in sospetto lo spiarono, ed avendolo seguito videro la bellissima dea che stava a custodia del tesoro. Essa credendosi tradita colpì di subita morte l'infelice che aveva amato239.

Forse bella al pari di costei è la dea Selten, creduta in Isvizzera una delle buone signore della montagna, mentre molte leggende in cui essa appare in aspetto gentile narransi sulle Alpi. Nel cantone di Urì si ha anche ottimo concetto della bella dea, che porta buona fortuna ovunque passa. Nel Tirolo invece la Moglie di Pilato è, secondo la credenza popolare, l'angelo custode dei fanciulli240.

Fra le regine delle montagne va anche annoverata la bellissima Walpurga. In Germania fu chiamata Walpurgisnächt la prima notte di maggio, assai prima che Goethe rendesse noto quel nome ad ogni popolo civile col suo capolavoro. Davasi anche quel nome ad altra notte nel tempo della mietitura, e la dea Walpurga passava sulle montagne come la dea Bercht in aspetto di dama bianca, colle scarpe di fuoco ed una corona d'oro. In mano aveva uno specchio ed un fuso; la seguivano qualche volta molti spiriti malefici montati su cavalli bianchi.

La leggenda di Tannhaüser, così nota in Germania, ritrovasi pure con qualche variante sulle Alpi tedesche, ed anche altri uomini sono andati, secondo i racconti popolari, sul monte della dea Venere. Tannhaüser, secondo una delle varianti della leggenda che narrasi spesso sulle Alpi, era un peccatore così grande che nessun sacerdote del mondo cristiano poteva dargli l'assoluzione, ed egli dovette andare dal Papa per confessarsi. Il Santo Padre inorridito nel sentire quali delitti egli avea commessi, esclamò: «Quando questo mio bastone tornerà ad essere verde, potrà solo avvenire che tu diventi cittadino del cielo!» Con immenso dolore nel petto, solo ed affranto, Tannhaüser lasciò la città eterna, e andò camminando a caso sulla terra. Qualche tempo dopo il Santo Padre con sua meraviglia somma, vide il suo bastone coperto di fiori come un albero di maggio; egli ricordò subito l'errante peccatore e volle che lo cercassero in ogni parte della terra; ma per lungo, lungo tempo nessuno potè incontrare il cavaliere. Finalmente lo trovarono nel monte di Venere, addormentato sopra una tavola, ed egli non si destava mai. La sua barba lunghissima scendeva verso terra, e quando essa sarà così lunga da circondare per sette volte la tavola, allora verrà pel cavaliere Tannhaüser il nuovo giorno241.

Altre leggende della Svizzera tedesca ci mostrano il cavaliere Tannhaüser fra le ammaliatrici, che danzano sul monte di Venere, prima che egli vada in Roma.

In Savoia troviamo una bizzarra trasformazione della Venere pagana in cinghiale! Sul versante dei Voirons verso il Lago di Ginevra, sorge una cappella, vicino alla quale in altri tempi elevavasi anche un eremitaggio; e vuolsi che in quel sito fosse un tempio dedicato a Venere, il quale racchiudeva un idolo, venerato dai demoni e dagli stregoni, che raccolti intorno ad esso facevano infiniti malefizii contro i cristiani.

Da lungo tempo la gente della pianura erasi convertita alla nuova fede, ma gli alpigiani non si piegavano ancora ad abbandonare la religione dei loro padri, ed il tempio di Venere era sempre il centro intorno al quale convenivano molti pellegrini. Il Vescovo di Ginevra non poteva permettere simil cosa, ed egli comandò ad alcuni cristiani coraggiosi di andare a distruggere il tempio e l'idolo, la qual cosa fu compita senza difficoltà, e pareva che la fede cristiana fosse vittoriosa; ma Satana non si rassegnava facilmente alle sconfitte, e più non prese forma dalla bellissima dea Venere per ammaliare gli uomini; divenne invece un cinghiale enorme e spaventevole, che fermava per via i passeggieri, volendoli costringere a rinnegare la fede di Cristo; poi li sbranava e recava al paese altri danni.

Il nobile Amedeo di Langin era un giorno a caccia sulla montagna quando incontrò il cinghiale diabolico, che divorò parecchi dei suoi vassalli, e lo ferì non lievemente. Amedeo fece voto di fabbricare una cappella nel sito ove era stato ferito, se il Signore gli accordava la grazia della guarigione. Egli guarì e secondo la sua promessa fece fabbricare una cappella alla Vergine; ma il cinghiale che volle penetrare nel recinto consacrato fu ucciso facilmente a' piè dell'altare, non essendo più felice nella sua nuova trasformazione di quanto lo fosse stato in aspetto di Venere bellissima.

Un'ammaliatrice possente si trova pure, secondo una leggenda, sui monti della Scandinavia; essa attrae gli infelici che ammirano la sua bellezza, e per avvicinarsi al suo trono di ghiaccio non badano ai pericoli, finchè cadono e muoiono nei profondi burroni. Parmi che nel concetto popolare quella perfida regina delle montagne abbia molta somiglianza con certe Dame bianche delle Alpi, che non sono miti e buone come le bionde fanciulle delle nevi; ma sanno destare nel petto degli alpigiani un fervido amore, nel desiderio che finiscano col precipitare nei crepacci dei ghiacciai e nei burroni.

Il Michelet vuol trovare in queste regine delle montagne, una poetica figura che accenni solo al fascino delle alte cime sull'animo degli uomini, che vanno a sfidare la morte per vedere da vicino le signore delle nevi eterne. Tschudi non vuole invece riconoscere che la curiosità sia il movente principale degli alpinisti più audaci; ma trova la causa prima di tante ascensioni pericolose in un sentimento di orgoglio, perchè l'uomo sa di essere signore della terra e vuole che sventoli ovunque la sua bandiera vittoriosa.

Per qualsiasi ragione ciò avvenga, si chiamino pure le altissime vette la Jungfrau, la Regina o la Cima Tosa, o abbiano nomi bizzarri e maschili, esse attraggono in modo possente l'anima dei poeti ed anche quella degli alpinisti; che dimenticheranno forse per molti secoli ancora ogni cosa terrena, anche la malìa delle grandi città e gli agi della vita, per l'amore delle regine altere e candide delle montagne, che hanno allato il triste angelo della morte.

Vedemmo che, secondo la credenza popolare, le fate alpine hanno di frequente la loro dimora vicino alle fontane ed ai laghi, ma esse vanno spesso vagando sulle montagne; invece diverse leggende delle Alpi ci fanno conoscere altri spiriti femminei, miti e belli come tante fate o perfidi come le sirene antiche, e che non si allontanano mai dall'acqua ove hanno il loro regno. Forse la sola credenza dell'antichità greca e latina in tanti spiriti dell'acqua, non sarebbe stata sufficiente per lasciare un ricordo così durevole nelle leggende note ancora agli alpigiani delle regioni tedesche, se altre mitologie, o se i canti popolari ripetuti da certe nazioni nordiche, non avessero anche lasciato reminiscenze profonde in quasi tutte le nazioni di Europa; accennando all'esistenza d'innumerevoli spiriti delle acque che hanno aspetto di bellissime fate, di elfi lucenti, di sirene o di spaventevoli fantasmi.

Queste ninfe o sirene, che ritroveremo specialmente fra gli abitanti delle Alpi tedesche, furono chiamate Nik, Nacken o Nixen, e fin da tempi lontanissimi ripetevansi assurdi racconti, dicendo che affascinavano e facevano morire nell'acqua coloro che osavano guardarle, senza avere per esse ogni riguardo. Nell'Islanda, ove, secondo una credenza del Medioevo, si riteneva che andassero i dannati, si trovavano sotto il nome di Nikur le ninfe della Germania e della Scandinavia; ma dicesi pure che le divinità inferiori dei fiumi, delle fontane e del mare, presso tutti i popoli settentrionali, fossero distinte interamente dal terribile Kicker o Necken, Nettuno malefico del Nord242; il quale però, a quanto sembrami, deve in certo modo assomigliarsi ai perfidi Kelpie della Scozia ove, se un uomo annega, dicesi che ciò sia avvenuto per opera loro. Secondo la credenza popolare essi hanno artigli d'acciaio, ed anche in Germania credesi nella loro esistenza: in certe regioni si pure il nome di Kelpys o Kelpics alle voragini che si formano nelle sabbie moventi.

Vuolsi che in certe isolette vicino alle spiaggie dell'antica Bretagna si trovassero raccolte molte druidesse e che non fosse permesso agli uomini di avvicinarsi ad esse: forse divennero le Mary Morgan che secondo la credenza popolare, che dura ancora sulle coste settentrionali della Francia, possono dirsi le buone fate dell'acqua. Esse hanno però come tutte le ninfe facoltà di affascinare gli uomini. Sedute sulle spiaggie coi piedi lambiti dalla schiuma hanno bellezza sovrumana, e se travolgono fra le onde i giovani marinai, non li uccidono; li trasportano invece nelle loro dimore di corallo o di madreperla e li sposano. Essi sono così felici sotto le onde burrascose dell'oceano, vicino alle bionde spose, che non tornano più sulla terra fra gli uomini e nelle povere case.

Nella mitologia slava le Samovili che ci apparirono come fate scintillanti, si ritrovano pure come divinità del mare, dei boschi e dei fiumi, e ad esse erano consacrati certi terreni paludosi, ove si vedevano molti fiori gialli o azzurri. Altre ninfe furono dagli Slavi chiamate Rusalki ed in loro onore celebravansi certe feste dette Rusalja. Le leggende intorno a queste ninfe si ritrovano presso i Serbi, gli abitanti della grande e della piccola Russia ed altri popoli ancora. Nelle Rusalki vedevansi specialmente le dee dei ruscelli e dei fiumi.

Ora in Bulgaria rimane ancora memoria di malefiche sirene che si assomigliano alle Samovili dell'acqua; ma hanno diverso nome. Esse vengono dette Judi, sono conosciute in Macedonia sulle montagne di Rodope ed in altre regioni, e secondo la credenza popolare hanno al pari di tanti altri spiriti buoni o malefici, lunghissimi capelli che portano disciolti sulle spalle, mentre vivono nei laghi e nei fiumi. Se vedono un uomo che nuoti, fanno quanto è possibile per impedirgli ogni movimento, involgendogli intorno i capelli, e lo traggono a sicura morte. Si compiacciono pure nel fermarsi sulle sponde dei laghi e dei fiumi, lasciando asciugare al sole i capelli. Nell'acqua si riuniscono volentieri, ove più rapida è la corrente, e ballano con passione, al pari di tanti altri spiriti leggendarii; ma va incontro a sicura morte chi incontrando le Judi si lasci affascinare e si unisca ad esse per la danza243.

Una vecchia leggenda dell'isola di Ouessant ci fa vedere le Morganered, o donne del mare che secondo la credenza popolare apparivano su quelle spiaggie. Sirene medioevali, esse al pari delle antiche Judi, non fidavano nella magìa del canto per sedurre gli uomini e trarli a morte. Una leggenda scritta verso il 1050, tolta da una vita inedita di S. Tedual, narra che parecchi scolari passavano in una valle, seguendo sulla breve spiaggia il mare che internavasi assai addentro in quel sito fra le rupi, quando un bellissimo giovane, che trovavasi fra essi, sparì senza che potessero intendere ove era andato. Essi per tema di una disgrazia pregarono con tutta l'anima San Tedual, e dopo un momento il giovanetto apparve sull'acqua e potè nuotando raggiungere i compagni. Intorno al piede destro portava una sciarpa di seta, di cui eransi servite le malefiche donne per trascinarlo nell'abisso. Mentre il giovane travolto fra le onde credevasi perduto per sempre, la veneranda figura di San Tedual era apparsa, e strappandolo alle Morganered lo avea salvato. Per riconoscenza del soccorso avuto, il giovane cominciò a vivere santamente, ed un anno dopo il giorno in cui era stato salvato, egli morì, perchè non vive a lungo chi ha guardato le donne dell'Oceano.

In certe sirene o ninfe delle Alpi, ritroviamo pari malvagità, ed una delle leggende in cui ci appariscono fra luce più fosca le loro strane figure, è quella delle Fenette del Rodano, che già trovammo nella leggenda delle bellissime ninfee, raccolte dall'infelice giovane che volle portarne un mazzo alla fidanzata. Esse imperano sulle acque del fiume, al pari di altre divinità; ma secondo certe varianti delle leggende, le loro voci non hanno la dolcezza ammaliante che ebbero quelle delle sirene antiche, le quali allettavano i naviganti, traendoli a sicura rovina; invece il loro canto cagiona agli uomini indicibile spavento, ed esse sono temute al pari di certe Mermaids che imperano sul Baltico, avendo pur facoltà di predire agli uomini l'avvenire. Queste figure strane create dalla fantasia dei marinai, e delle quali dirò a lungo in altro libro, portano spesso sull'onda burrascosa un'arpa, e fra la schiuma che bacia i loro capelli d'oro dicono forse qualche inno appassionato a gloria del mare. Esse fermansi a preferenza sulle spiaggie svedesi, ove i marinai le vedono intente a pettinare i lunghi capelli, e tenendo in mano uno specchio244; o ancora, come le fanciulle delle nevi, distendono sulle roccie le candide vesti. La loro presenza annunzia l'imperversare della burrasca, mentre quella delle bianche fanciulle alpine annunzia la tormenta, ed esse dimorano nel fondo del mare, avendo al pari di tante fate e di altri spiriti femminei delle Alpi, castelli, palazzi e numerose greggie.

Vicino ad una sorgente sul monte Pilato appare in primavera, secondo una credenza popolare, una specie di fata o sirena; essa guida due capre, le quali sono bianche, se il raccolto dell'annata sarà abbondante, e nere, se l'annata sarà cattiva per gli alpigiani245.

A Chiusa nel Friuli, in vicinanza della cascata del torrente Macilla, vi è una grotta della quale dicesi che non si conosce ove vada a finire, ma si crede che si prolunghi fino all'altra parte del monte Canino. In quel sito dimorano, a quanto dicesi, le Aganis divinità femminee che hanno i piedi rivolti all'indietro, e divorano quegl'imprudenti che di notte si avvicinano alla loro dimora246.

Vicino ad una fontana nel cantone di Zug apparisce di notte un fantasma in aspetto di donna, ed essa gitta un velo nell'acqua e sparisce. Dicesi che sia una madre infelice che ha perduto il suo bambino; ma a causa del velo che viene ricordato dalla leggenda alpina, si può riannodarla ad altre leggende tedesche sulle belle ninfe o profetesse del Danubio. Come divinità dell'acqua esse avevano facoltà di predire l'avvenire, ed erano, secondo i casi diversi, amiche degli uomini o loro nemiche mortali. Ciascuna di esse aveva un lungo velo, ma se avveniva ad un uomo di prenderlo, la regina del Danubio che lo perdeva, diveniva una misera mortale.

Una delle più graziose leggende su queste figlie dell'acqua narra che un cavaliere, bello come il sole e forte come un leone, passò sulla sponda del Danubio e vide disteso sui giunchi un velo che parea tessuto dalle fate. Egli lo prese colla mano coperta di ferro, e mentre lo guardava, una fanciulla più bella di ogni umana creatura uscì dall'acqua accanto a lui. Essa aveva gli occhi verdi come le Fenettes del Rodano ed i capelli lunghissimi di un biondo luminoso, che scendevano fin sull'acqua argentea del fiume. Con voce soave chiese il velo al bel cavaliere; egli la guardò, sorrise, ammirandola estatico e non rispose, perchè forse non poteva intendere quanto ella diceva; ma essa ripetè la domanda, poichè se egli portava via il velo, essa dovea perdere la sua potenza divina, ed essere costretta a vagare sulla terra come una povera fanciulla; consumandosi nel dolore e pensando al suo palazzo di cristallo. Se invece le fosse dato di riavere il velo, avrebbe mostrato al cavaliere ove trovavansi i tesori dei nani. Ma egli sorrise ancora, avea la spada allato, avea vassalli e paggi nei lontani castelli e non voleva i tesori sotterranei.

La bionda dea pregò ancora con voce dolente, offerendo al cavaliere la facoltà di conoscere l'avvenire; ma egli non lasciava il velo, perchè è bella la speranza per chi ha la giovanezza sulla fronte e nel cuore, ed è triste cosa perderla per vedere solo nell'avvenire la triste realtà. Egli non voleva lasciare il velo per avere il dono fatale.

La bionda dea divenne bianca come il velo che il cavaliere avea fra le mani. Ella non sapeva promettere altro e pianse. Le sue lagrime cadendo sull'acqua del fiume diventarono perle, mentre pareva che il vento gemesse fra i giunchi della sponda. Il cavaliere non sorrise più e con voce esitante, come se temesse un rifiuto, chiese alla fanciulla di seguirlo. Egli era un possente signore ed essa sarebbe la regina dei suoi castelli, a lei s'inchinerebbero vassalli e paggi; per amor suo si spezzerebbero le lance nei tornei.

Nell'udire quella proposta la dea non piange più, ma sorride e dice che per amore del cavaliere è pronta a lasciare il palazzo di cristallo e le bionde figlie del Danubio; sol ch'egli le dia il velo, essa lo avrà come signore e sposo. Il cavaliere le porge il candido velo, essa lo guarda sempre mentre lo prende, ha gli occhi scintillanti e sulle labbra ha la magica parola «amore». Il cavaliere chinasi sul forte cavallo che non teme la rapida corrente del Danubio, le piume nere ondeggiano sull'elmo che ha già portato in cento battaglie, ed egli vuol dare il primo bacio di fidanzato alla sposa divina; ma ella sparisce nell'acqua in un baleno ed una risata squillante passa sull'onde del Danubio247.

Anche nel Reno trovansi, secondo le leggende, altre ninfe simili a quelle del Danubio e del Rodano. Una tradizione del IX secolo vuole che il famoso tesoro dei Nibelunghi, essendo stato gittato nel Reno, una sirena, che lo custodiva, attraeva in un vortice le barche, affascinando gli uomini con dolcissimo canto.

Nell'immaginazione degli alpigiani pare che certe fontane, che appariscono periodicamente, abbiano per così dire un'anima, senza che si vedano in esse ninfe o strani fantasmi. Anche la Dora, che ha la sua sorgente vicino a quella della Durance, e corre verso il Po, mentre la Durance volge al Rodano, ha per gli alpigiani anima e parola, e narrasi in quella regione alpina che prima di volgere alla pianura italiana essa dica:

Adieu donc, ma sœur la Durance,
Nous nous séparons sur ce mont.
Toi tu vas ravager la France,
Je vais féconder le Piémont248.

Se per una conseguenza inevitabile delle antiche credenze dei Romani, dei Celti e degli Slavi, che derivano da altre più lontane ancora, dovevano anche sulle Alpi le sorgenti, le fontane ed i laghi essere abitati da infinito numero di spiriti femminei, non mancano neppure fra quelle regioni i feroci genii delle acque; e vuolsi che oltre il Piano di Usseglio un essere orribile, chiamato Giovanni di Parigi, aspettasse in altri tempi i Francesi, ai quali avveniva di passare vicino alla spaventevole cascata del Piss-Madai e li gittasse nell'abisso249. Parmi che sia difficile assai trovare l'origine di questa leggenda, ma in altri tempi erano meno pericolosi i varchi alpini oltre il Piano d'Usseglio, e forse a causa dell'inevitabile confusione che avviene nelle leggende, in Giovanni di Parigi, franco di patria e cristiano di nome, divenuto spirito malefico della cascata, si potrebbe trovare ricordo di qualche famoso predatore saraceno, nemico del nome francese; mentre ferveva la lotta che diede origine a tante celebri canzoni di gesta.

Altro spirito minaccioso appariva nel Lago Nero in Val di Susa. Alcuni pastori che passavano di notte nella valle di San Giovanni, videro sorgere dall'acqua la sua testa minacciosa, mentre grosse pietre erano gittate contro di essi250. Spaventevoli figure simili a questa si trovano ancora in lontanissimi paesi. Nella nuova Zelanda dicesi che vi sia un mostro dell'acqua, il quale fermasi nei fiumi, e quando gli riesce, travolge gli uomini nell'acqua. Presso gl'Indiani Sioux, altro mostro acquatico, affascina gli uomini che sono costretti a precipitare nell'acqua, ove si annegano sicuramente251.

Come pure avviene, in diverse mitologie, trovansi molte leggende delle Alpi che ricordano uomini fortissimi e giganteschi; fra questi parmi specialmente simpatico un gigante della Svizzera, che dimorava sul leggendario monte Pilato, e rimaneva lassù a custodia della terra svizzera e del suo popolo, essendo beato nel vedere in ogni città ed in ogni villaggio la pace e la libertà. Un giorno avvenne ch'egli si addormentò sulla sua alpestre dimora, e mentre più non vegliava sulla nazione, l'ira si accese nel cuore degli uomini che si armarono gli uni contro gli altri. Quando il gigantedestò e vide quella rovina nazionale, ne provò tal dolore che la vita venne meno in lui. Ritornò in vita quando la pace regnò di nuovo nella Svizzera.

La credenza nei genii tutelari della patria si estese anche in altre regioni e troveremo un gigante chiamato Töll, il quale dimorò a lungo nella lontana isola d'Oesel. Prima di morire disse agli abitanti dell'isola di destarlo nel suo triste letto di pietra, se mai i nemici andassero ad assalire la patria.

Però fra tutto questo mondo fantastico di giganti e di fantasmi, di sirene e di ammaliatrici possenti, parmi che spetti per la bellezza il posto d'onore alle candide regine delle nevi, che hanno i troni di brillanti sulle altissime cime delle Alpi.





219 Michelet, La Montagne.



220 Dessaix, Légendes de la Haute Savoie.



221 Gerusalemme liberata, canto XIII.



222 Berlepsch, Op. cit.



223 Des Ambrois, Op. cit.



224 Lutolf, Op. cit.



225 Vaira, Le streghe del Canavese. – Curiosità e ricerche di storie subalpine.



226 Mannhardt, Op. cit. Si chiamano Holzfräulein o Moosfräulein, in Germania.



227 Si ritrova con molta frequenza nelle leggende della Germania in generale, ed anche delle Alpi, questa facoltà data ai nani, ai folletti o ad altri spiriti misteriosi, di mutare le foglie o altre cose in oro.



228 Il Mannhardt divide in diversi gruppi le credenze su queste fanciulle o donne dei boschi, raccogliendo quelle che sono popolari presso parecchie popolazioni, e parla del popolo selvaggio tirolese dalla 99a pagina alla 109a del volume citato.



229 Mannhardt, Op. cit.



230 Questa leggenda ritrovasi con molte varianti anche nelle saghe islandesi, e l'uomo non vien cangiato in toro, ma in orso.



231 Annuario degli Alpinisti tridentini.



232 In un volume dal titolo Indogermanische Mythen. Gandharven Kentauren, von Elard Hugo Meyer, Berlin, 1883, trattasi con molta dottrina della credenza nei centauri e dei miti che possono trovarsi in essi.



233 Grimm, Op. cit.



234 De Gubernatis, Op. cit.



235 Burckardt, Op. cit., Tom. II, pag. 42.



236 Burckardt, Op. cit., Tom. II, pag. 169.



237 Hersart de Villemarqué, Op. cit., pag. 111.



238 Collin de Plancy, Légendes des origines.



239 Annuario degli alpinisti tridentini, 1884-1885.



240 Lutolf, Op. cit.



241 Lutolf, Op. cit., pag. 86.



242 Mémoires de l'Académie Celtique. Tome I, pag. 234.



243 Jirececk, Op. cit.



244 Thorpe, Northern Mythology, vol. II, p. 27.



245 Bridel, Conservateur Suisse, IV, 163. Il Lutolf prova come si trovi in questa leggenda delle Alpi un mito antico, essendo le capre in certi casi diversi, simbolo di abbondanza o di povertà. La capra Amaltea era bianca, e spesso figura la capra nelle mitologie diverse. Anche le Norne, che presso gli Scandinavi avevan l'ufficio delle Parche greche, hanno diversi colori secondo le diverse loro missioni. Una di esse è bianca, l'altra nera, la terza metà bianca e metà nera.



246 Annuario degli Alpinisti friulani.



247 Sébastien Rhéal, Les divines féeries de l'Orient et du Nord.



248 Ladoucette, Histoire des Hautes Alpes.



249 Cibrario, Descrizione di Usseglio.



250 Des Ambrois, Op. cit.



251 Mélusine, Les noyés en Basse Bretagne. Gaidoz et Rolland.



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