Maria Savi Lopez
Leggende delle Alpi
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LEGGENDE DI ORIGINE STORICA

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LEGGENDE DI ORIGINE STORICA

Molte leggende di origine storica si formarono sulle Alpi, ma esse andarono in gran parte perdute, assai più facilmente di quelle che ebbero origine fra le antiche mitologie.

Già vedemmo che le credenze religiose durate per secoli nella coscienza popolare, ed anche trasformatesi innanzi alla religione cristiana, dovevano lasciare le stesse tracce in parte incancellabili in molte valli e sopra estese regioni alpine; invece il fatto storico il quale commosse una sola generazione, doveva quasi sempre lasciare ricordi meno profondi nella coscienza delle genti; e se la poesia popolare nell'espandersi rapidamente non ne portava anche la conoscenza fra altri popoli, o se esso non aveva importanza somma per la storia di nazioni intere, era facile che se ne perdesse il ricordo popolare.

Alcune volte avvenne pure che le leggende di origine storica di cui si trova ancora traccia sulle Alpi, si formarono in altre terre e furono portate nelle valli alpine dai giullari che passavano da castello a castello, o da altre persone, lasciando memoria durevole; e benchè sia ora difficile rintracciare la loro origine lontana, acquistano nuovo pregio a causa della loro permanenza secolare fra le tradizioni dei popoli.

Le leggende di origine storica si trasformarono nel volgere dei secoli, ed acquistarono nuovi elementi; mentre fin dalla loro origine, come avviene quasi inevitabilmente alle tradizioni popolari, era stato trascurato alquanto in esse il fatto principale, nel desiderio di dare maggior risalto ad incidenti secondarii, che pure avevano forza di allettare la fantasia. Questo avveniva più facilmente se le leggende eransi formate intorno ad una cara figura di eroe, che avea saputo acquistare l'amore di un popolo; ed anche in questo caso trovasi in esse confusione di personaggi diversi o si rinvengono anacronismi strani, fatti quasi inconsapevolmente per accrescere la gloria della prediletta figura leggendaria, che acquista qualche cosa della forza soprannaturale e della potenza dei semidei antichi; mentre si dimentica pure ogni verità storica per rendere più tristi e minacciose le figure dei tiranni o quelle di certi invasori potenti; ma non per questo le leggende perdono la loro importanza storica. Essa diventa somma se ricordano fatti dei quali non trovasi memoria in qualche documento prezioso; se invece si riferiscono ad altro fatto di cui si conosca storicamente ogni particolare, hanno pure molta importanza se vengono studiate in relazione con questo fatto istesso; perchè si può col loro mezzo intendere la formazione o la trasformazione di altre leggende, che non hanno origine in un fatto provato da documenti.

In altri tempi certe leggende di origine storica pur note sulle Alpi, potevano essere credute assurdi racconti, se il fatto del quale facevan cenno era travisato in maniera irriconoscibile; ed esse erano credute bizzarra creazione della fantasia popolare fatta, per così dire, in modo spontaneo, senza causa apparente. Ma ora che si può seguire da popolo a popolo e da secolo a secolo la storia di quasi tutte le leggende, e farle risalire alla loro origine, si può riconoscere ed affermare anche l'importanza di quelle che sembravano isolate ed inconcludenti.

Negli ultimi secoli che precedettero la grande Rivoluzione francese, duravano ancora infinite superstizioni, anche fra uomini coltissimi. Non si chiedeva più, ad imitazione dei Celti e degli Slavi, la rivelazione dell'avvenire agli Dei misteriosi o al mormorìo dell'acqua corrente; ma principi e borghesi guardavano spesso con profonda commozione i geroglifici strani intorno ai quali scrivevasi la rivelazione dell'avvenire269; e mentre certi storici narravano gravemente qualche fatto importante, essi ripetevano pure con molta serietà le credenze popolari sull'apparizione di mostri spaventevoli, di comete o di paurose meteore, che avevano annunziato la morte di personaggi illustri, o la rovina di regni fiorenti; e quasi formavasi nelle loro opere la leggenda, o per meglio dire, trionfavano anche sulle dotte carte, le credenze superstiziose del volgo.

Poi venne il tempo della reazione violenta contro il passato, ed in tanti uomini colti invalse un disprezzo profondo per le credenze, le leggende, le fiabe ed i canti popolari che i nostri avi ripetevano con somma compiacenza; e nel sentire la parola di certi pensatori audaci, si poteva immaginare che le generazioni sparite da poco tempo dalla terra, fossero composte solo di uomini pari a fanciulli creduli ed ignoranti; privi della forza di nervi e d'intelletto di cui facevano prova i superbi, che gittavano spesso il disprezzo sulla memoria dei loro antenati. Pareva che la missione dei più illustri figli del secolo innovatore fosse quella di sublimare la virtù degli antichi eroi, mentre si dimenticavano quasi generalmente le lotte tenaci, eroiche, durate in età meno lontane contro l'arbitrio, o le leggendarie figure medioevali amiche degli oppressi e ricordate nei canti eroici popolari. E mentre combattevasi per la libertà e pei diritti del popolo, si calpestava gran parte di quanto ricordava le sue credenze e le sue tradizioni, che pur compendiavano in qualche modo la storia secolare dei suoi dolori, delle sue glorie, delle sue aspirazioni, o erano, per così dire, monumenti di odio o di amore, d'ira o di splendida poesia.

Ma la dispersione della poesia popolare e di tutte le credenze che formavano il retaggio secolare dei popoli, non era possibile. Si abolirono in certe terre, insieme alle pratiche del culto cattolico anche le feste e gli usi popolari, che erano un ricordo di tempi lontanissimi; il nembo violento passò sull'Europa, travolgendo troni, altari ed eserciti; il sangue della nobiltà feudale e quello del popolo scorse a torrenti intorno ai patiboli e sui campi di battaglia, i sovrani della vecchia Europa dovettero umiliare l'orgoglio secolare delle loro case innanzi all'ingegno di un uomo, e parve che lo sconvolgimento generale mutasse le idee, le aspirazioni d'ogni popolo e cancellasse in grandissima parte il ricordo dei tempi che furono. Eppure se in molte terre non si accesero più i fuochi di San Giovanni, se furono abolite le processioni dei flambars, come già notai in altro capitolo, e non si accesero più a memoria dei Celti i brandons de feu; non credo invece che in mezzo a quella tempesta più violenta di tutte le tormente che passano sulle nevi eterne delle Alpi, si sia perduta una sola leggenda o una credenza veramente popolare; anzi altri racconti leggendarii pietosi o tremendi si sono aggiunti a quelli del passato, rendendo più ricco il tesoro delle tradizioni. Ed ora ancora nella formazione di nuovi racconti popolari, si può assistere alla creazione continua di altri miti e di leggende di origine storica.

Farebbe opera importante chi andasse raccogliendo accuratamente le leggende che si sono formate in Italia intorno alle figure principali che ebbero parte nell'opera del nostro Risorgimento nazionale. Coll'andar del tempo, divenendo più spiccato in esse l'elemento fantastico, formeranno un complesso meraviglioso, del quale dovranno forse avvalersi i nuovi poeti d'Italia, che andran dicendo coll'armonia del verso le glorie di questo secolo; ed io credo che potrebbe anche essere la loro conoscenza, di ammaestramento a coloro che vogliono in ogni ricordo mitologico, in ogni tradizione popolare trovare unicamente il mito solare o meteorologico; come se l'uomo fin dalla sua origine abbia potuto dimenticare se stesso, la storia delle sue sventure, quella dei suoi amori e delle sue vittorie, per immaginare solo innumerevoli racconti e splendide immagini poetiche, in cui figurino esclusivamente le varie forze e le diverse parvenze della natura.

Parmi invece che fin da quando l'uomo essendo signore della terra, per forza del dono divino dell'intelligenza, ha potuto osservare le battaglie del vento e del fulmine col mare e colla terra, le vittorie della primavera sull'inverno ed il trionfo del sole sulla notte, egli ha anche provato in l'odio o l'amore, l'ira o il dolore; ha amato e sofferto, pregato o sentito la tremenda ribellione dell'orgoglio, ed ha potuto dar forma leggendaria ai casi che si riferivano alla sua vita individuale ed a quella dei suoi fratelli, o che colpivano in modo potente la sua fantasia.

Questa convinzione si fece ancora più salda in me quando conobbi una strana leggenda, che si formò rapidamente dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il barone di Maltzan270 racconta che quattro settimane dopo l'entrata di Garibaldi in Palermo, la notizia di quel fatto giunse in Arabia, ove egli vestito da pellegrino maomettano, osava visitare i luoghi sacri all'Islam, e sentì parecchi pellegrini, che erano veri musulmani e discorrevano insieme degli ultimi casi avvenuti in Europa. Essi dicevano, fra le altre cose, di un certo eroe chiamato Kalliwali, il quale era sbarcato in un'isola, ove aveva messo in fuga i suoi nemici dall'aspetto spaventevole; ed altro non era che un cattivo genio, un terribile Djinn, che scendeva qualche volta sulla terra per compiere misteriose imprese; e portava una camicia rossa sfolgorante, la quale al pari degli occhi suoi di fuoco atterriva i nemici. Ora si dimentichi il fatto storico che ha dato origine a questo racconto, e si potrà forse trovare in Kalliwali un mito solare, rappresentando egli il sole d'estate che combatte pel trionfo delle messi, contro le giornate tiepide o fredde ancora della primavera.

Ma tornando a dire delle leggende alpine di origine storica, è forza riconoscere che se pur si raccogliessero in molti volumi, io credo che l'argomento sarebbe lungi assai dall'essere esaurito, poichè si farebbero sempre nuove ed importanti scoperte; ed innanzi alla vastità dell'argomento è impossibile che nei limiti di questo volume, io esponga in ogni sua parte il quadro vario e bellissimo che dovrebbero formare; così mi limiterò a narrare solo una piccola parte di quelle che hanno maggiore importanza innanzi alla storia, e sono più note sulla catena delle Alpi.

Un'antica tradizione delle nostre Alpi Graie vuole che uno dei principali collegi dei bardi si trovasse nella Valle di Susa, e fosse importante al pari di quelli che alcuni scrittori francesi dicono stabiliti nell'Alvernia e nella Borgogna. Questo collegio dei poeti che forse celebrarono colla parola ispirata la sublime bellezza delle Alpi, dimora del loro possente dio Beleno, si trovò, a quanto pare, nella Valle di Bardonisca, o presso il comune di Bardonecchia. Essi si raccoglievano intorno ai Druidi in occasione di solenni adunanze nazionali ed anche pei sacrifizii usuali, ed accrescevano pregio alle feste col canto e col suono.

Abbiam la prova che nella maggior parte di Europa, dalla Russia alla Spagna, dalla Scandinavia alla Provenza, i poeti popolari usarono sempre di suonare qualche istrumento musicale. A questo costume il quale fu pur comune ai bardi e che era forse imitato dai poeti e dai sacerdoti delle popolazioni retiche, io credo che si possa far risalire la credenza ancora generale sulle Alpi, nella passione che tanti spiriti hanno per la musica; poichè non solo le fate alpine, secondo le leggende, ma anche le streghe si uniscono nei convegni notturni con misteriosi suonatori, ed il Nachtvolk tedesco delle Alpi è espertissimo nella dolce arte dei suoni. In certe leggende, come già notai, dicesi che una musica soave risuona quando passa la processione dei morti, e forse dalle danze sacre che sacerdoti, poeti fatidici e sacerdotesse eseguivano sulle alture e nelle foreste sacre, derivò la credenza così estesa non solo sulla catena delle Alpi, ma in altre terre ancora nella danza degli spiriti diversi; mentre pare che innanzi alla fantasia popolare demoni e fuochi fatui, fate e draghi, morti e stregoni, gatti o streghe maledette, folletti o fanciulle della neve e del musco abbiano la stessa passione intensa pel ballo.

Una delle più antiche leggende storiche intorno alle Alpi è dimenticata, per quanto io sappia, nella parte della catena ove raccolsi io stessa le leggende; ma se ne trova spesso la traccia negli storici latini, che danno ad Ercole il vanto di essere stato il primo a superare altissimi colli alpini. E parmi veramente che, in questo caso, il forte Ercole sia il mito che meglio rappresenti innanzi alla coscienza popolare, il coraggio indomabile e la forza della volontà umana; ma il Ladoucette chiede se quella tradizione poteva essere conservata così tenacemente nella poesia e nella storia, se non vi fosse una certa verità storica sotto il velo mitologico. In ogni modo il Michelet vuole che si addicesse ad Ercole ed a Giove, alla forza che vince la materia, ed al padrone della folgore di avere altari sull'Alpi; e mentre Roma vittoriosa imponeva le sue divinità agli antichi e quasi selvaggi abitanti delle Alpi, o lasciava sacre colonne e are votive a ricordo del passaggio dei suoi eserciti, che movevano a nuove conquiste, molte are furono pure innalzate al forte nume, ed una di queste illustrata dal Cibrario vedesi in Usseglio vicino alla Chiesa parrocchiale.

Anche nella lontana Carinzia, non lungi dalle acque calde della Gastuna, si ritrovò un'iscrizione che ricordava un tempio dedicato ad Ercole ed era antichissima in quella regione, ove dovette forse trovarsi pure la credenza nel passaggio di Ercole. Altre tradizioni che si possono raccogliere nell'Alto Delfinato, vogliono che dopo Ercole i Galli siano stati i primi a salire sulle altissime vette delle Alpi.

Molte invasioni ed il passaggio di eserciti stranieri hanno lasciato nelle tradizioni e nelle leggende, un ricordo più durevole ed esteso su gran parte della catena. Ma il fatto di somma importanza del quale è più facile trovare memoria fra certi alpigiani, è quello indimenticabile del passaggio di Annibale; e per un caso strano se ne conserva il ricordo in diverse regioni, fra le quali vanno comprese pure quelle vicino al Monviso, la Valle di Viù, quella di Susa ed anche la Valle di Aosta.

Il St-Simon ha raccolto con somma cura negli storici latini delle notizie che hanno forma di bella e bizzarra leggenda271, mostrandoci Annibale errante sulle Alpi per molti giorni, senza che gli riuscisse di trovare un varco pel suo esercito, finchè si decise a bruciare una rupe immensa che impediva il suo passaggio verso l'Italia. Il masso fu circondato da una quantità enorme di legna alla quale si appiccò il fuoco, e veniva bagnato con aceto per renderne più facile la distruzione; finchè si sfasciò e l'esercito potè passare volgendo alla pianura desiderata in cerca di solenni vittorie. Questo fatto non è però spiegato chiaramente, ed anche fra le lunghe dissertazioni eruditissime che vennero fatte onde provare in quale delle diverse tradizioni del passaggio di Annibale si trovi la verità, non riesce di vedere una luce che faccia sparire ogni dubbio.

Una tradizione che dura ancora fra certi alpigiani vuole che sulla montagna dell'Abessée, detta Saltus Annibalis, il grande cartaginese trovò gli ostacoli maggiori al suo passaggio; e gli alpigiani dicono che sia opera dei Romani, raccolti per chiudere la valle ed impedire il passo al nemico, un muro con tre torri rotonde, difeso alle estremità da due castelli, e che a dire del Ladoucette si vedeva ancora in quel sito nel 1834, dall'entrata della Vallouise fino ad una rupe che poteva essere superata solo dai camosci. Altra tradizione popolare vuole che dal Monviso, il quale signoreggia colla sua cima acuminata la catena che si abbassa e volge verso il mare di Liguria, Annibale abbia mostrato alle sue truppe l'Italia, e che sia passato dal sotterraneo del Monviso da lui scavato dall'est all'ovest a 2400 metri di altezza, ed avendo 72 metri di lunghezza272.

In ogni modo le tradizioni che ci fanno vedere il fortissimo Cartaginese sul gigante alpino, in un ambiente che si adatta in modo meraviglioso ad epici racconti, mentre addita l'incanto della valle del Po agli Africani avidi di gloria, di combattimenti e di rapine, ha la sua grandezza poetica insuperabile; e la figura dell'uomo di ferro che fu sul punto di avere la maggior vittoria quando ignoravasi ancora se il mondo diverrebbe cartaginese o romano, fa uno strano contrasto con quella del cavalleresco Francesco I, il quale, secondo altra tradizione, avrebbe dallo stesso sito guardato a lungo l'Italia; ed un incontro degno di essere ricordato dal verso smagliante di una ballata scritta da mano maestra, deve essere quello che avviene se fra le lunghe processioni dei morti si trovano sul Monviso, dominando la libera terra italiana, ascosa nell'ombra o irradiata dalla luna, le ombre vaganti del guerriero cartaginese e del re francese.

Il Monte Ginevra celebre pel passaggio di tanti guerrieri famosi, si chiamò in tempi lontani il Monte Giano, e vuolsi che vi fosse eretto un tempio pari a quello di Roma, ma che fu distrutto dai barbari o dalla tormenta. Dicesi ancora che il suo nome fu mutato in quello di Matrona, dopo che avvenne lassù una sventura ad una nobil donna; ma potrebbe anche essere stato chiamato così dagli alpigiani, che spesso si compiacquero nel dare nomi femminei alle alte montagne. Narrasi pure che sul Monginevra e non sul Moncenisio si raccogliessero le grandi adunanze nazionali dei Segugini e dei Liguri Taurini273. Un'altra tradizione ancora popolare, vuole che vi fosse nel Monginevra un sotterraneo della lunghezza di due chilometri, ove si nascondevano gli abitanti della montagna quando passavano i barbari.

Sulle Alpi della Svizzera serbasi ancora, in mille tradizioni e leggende, memoria del passaggio dei Romani; e questa ritrovasi pure in modo speciale verso la regione bavarese, ove narrasi di un leggendario guerriero che forse li guidava o volle opporsi al loro passaggio. Su altra parte della catena si può anche trovare ricordo delle devastazioni dei barbari e specialmente di quelle degli Ungari, i quali non erano creduti solo dalle popolazioni atterrite selvaggi e feroci, ma menavano vanto di discendere dagli Unni, mettendo Attila al primo posto fra i loro re274. Sulle montagne della Carinzia le leggende ricordano pure sanguinosi combattimenti, avvenuti quando i Bavaresi che formavano il nucleo principale della popolazione, respinsero una tribù slava che era stabilita sopra una parte della catena alpina. Oggi ancora villaggi, montagne e foreste ricordano col loro nome il passaggio di quella tribù, ed a conservarne più vivamente la memoria si eressero certe cappelle espiatorie chiamate Blutcapellen.

La memoria dei Longobardi e quella dei Saraceni è rimasta vivamente impressa fra gli abitanti di una gran parte delle nostre Alpi; ed anche di quelle dei versanti francesi verso la Provenza e l'Alto Delfinato.

Si può anche trovare verso la Provenza, qualche leggenda che appartenga a quelle del ciclo brettone, essendo stata portata dai giullari nei castelli a piè delle Alpi; ma le leggende che trattano di Carlomagno, dei Longobardi suoi nemici o dei suoi prodi cavalieri, dovevano lasciare ricordi più durevoli ed estesi, sopra gran parte della catena, essendo in mezzo alle Alpi che avvenne la grande sconfitta dei Longobardi.

In Valle di Susa presso Villar Focchiardo, vedesi un masso erratico dalla forma bizzarra, e la leggenda narra che è stato spezzato dalla forte e temuta spada del paladino Orlando, il quale volle in quel sito dar prova della sua forza. Questa spada di cui le leggende medioevali dicono cose meravigliose, fu secondo certe credenze popolari opera stupenda dei Trolli o dei nani che dimoravano nelle montagne del Nord, e vuolsi che a Roncisvalle per non vederla in mano dei suoi nemici, egli la gittò contro le rupi nella speranza che si spezzasse; ma essa invece aprì la montagna formando il passaggio chiamato la breccia di Orlando.

Sul colle del Colombardo che vidi in mezzo ad un paesaggio sublime fra la Valle di Susa e quella di Viù, ebbe luogo, secondo una tradizione assai nota in valle di Viù, un epico combattimento fra i guerrieri del re franco ed i Longobardi. Non lungi dal colle, vicino agli erti fianchi del Civrari, altra tradizione vuole che si elevassero le mura della Chiusa, e si deve anche notare come spesso accada sulle Alpi di trovare ricordi popolari o leggende intorno alla costruzione di estese mura, di cui si rinvengono qualche volta le tracce; ed oltre queste della Chiusa e quelle erette, secondo la credenza popolare, nella Vallouise contro Annibale, si possono notare quelle che si dicono costrutte da Giulio Cesare, per impedire l'emigrazione degli Elvezii, e delle quali serbasi ricordo nelle leggende svizzere.

Ora tornando ai Longobardi, dirò che altre leggende e tradizioni della Valle di Viù, accennano a case da essi costrutte o a certe strade che tracciarono; ma parmi che la cronaca della Novalesa, scritta fra le Alpi, a piè dell'altissimo Rocciamelone e del Moncenisio, sia la reliquia più preziosa, che pur ricordando importanti notizie storiche, parli con forma quasi leggendaria dei Longobardi; facendo specialmente cenno del loro passaggio in Val di Susa.

Molte tradizioni che assumono pure forma di leggende si trovano fra tante altre nel Trentino, ricordando il passaggio di Carlomagno, il quale pel famoso varco di Campiglio, ove altre tradizioni più recenti fanno anche passare il Barbarossa a danno di Milano, sarebbe disceso nella poetica valle di Rendena, ove a ogni passo odonsi narrare bizzarre leggende. Questo racconto intorno a Carlomagno si accorda colle tradizioni popolari della Valcamonica, e vuole che nel suo passaggio su quelle montagne, egli facesse bruciare grandi foreste, ove si nascondevano audaci predoni, discendenti o antenati dei famosi demoni alpini. Egli, a quanto narrasi, fece anche distruggere molti castelli appartenenti ai pagani, ed anche ad ebrei che venivano battezzati se si arrendevano, o trucidati se opponevano resistenza e volevano conservare la propria religione275.

Pare che il ricordo dei Saraceni sia rimasto ancora più profondamente impresso nella coscienza popolare, e quasi ad ogni passo, dalle Alpi Pennine alla Provenza, se ne trova la traccia che pare incancellabile; e non si rinviene solo, a quanto parmi, nelle leggende che trattano dei demoni e dei feroci predatori alpini, ma notasi pure in altri racconti che li mostrano come lavoratori tenaci ed intelligenti, come costruttori di torri e di canali, o come esperti cercatori di oro o di ferro sulle Alpi.

Nelle vicinanze di Graglia nel Biellese, sopra una delle prealpi, un canale costrutto con arte ammirevole e scavato in gran parte nella roccia, è detto dalla leggenda opera dei Saraceni; ed anche rispetto a questo canale, come alla rupe distrutta da Annibale, la credenza popolare vuole che siasi adoperato l'aceto, per rendere più facile l'arduo lavoro durato nell'incavare il sasso. Non molto lungi dal canale dei Saraceni vedesi pure il Forno dei Saraceni, e nella valle di Ceresole essi vengono detti i primi cercatori di oro. In questo caso la leggenda popolare, che fa in un certo modo notare la loro intelligente e benefica operosità, non va sempre d'accordo colla storia, che spesso ce li presenta solo come predatori su quelle regioni delle Alpi; specialmente quando uscendo dal loro temuto rifugio di Frassineto, andarono a devastare la Valle di Susa, e portarono la rovina e la morte anche nel convento della Novalesa.

Nel 965 i Saraceni che eransi già nel 915 impossessati a tradimento della città di Embrun, misero l'assedio innanzi a Gap, ma costretti a ritirarsi si fortificarono nel miglior modo sulle Alpi, ove essi presero forse anche il castello di Malmort. La leggenda vuole che venisse dato al castello questo triste nome, perchè il feudatario trovandosi vicino ad una finestra colla propria figlia, per osservare i movimenti dei Saraceni che lo stringevano d'assedio, vide cadere la fanciulla colpita mortalmente da una freccia, ed esclamò: «Oh! male mort!».

I Saraceni hanno lasciato su quella parte della catena alpina ricordi tanto dolorosi, ed il loro nome è ancora odiato a tal segno, che dopo i lunghi anni passati sotto il loro dominio, non si trova traccia della loro lingua nei dialetti, che hanno pur conservato ricordo delle parole usate da altri popoli, passati come conquistatori su quelle regioni.

Ad un miglio circa da Gap si teneva acceso dai Saraceni sopra una torre, a quanto ricorda la tradizione, una specie di faro in corrispondenza con altri fuochi simili, accesi sulle torri di Montrond, di Montmaur e di Malmort, e con altre torri e fortezze erette sulle Alpi, in siti elevati; specialmente nel Champ Saur, e delle quali si rinvennero ancora certi avanzi, che hanno dato origine ad infinito numero di leggende che non mi è stato possibile conoscere276.

Vuolsi che in memoria di qualche antica vittoria degli alpigiani sui Saraceni, usavasi ancora sulle Alpi del Delfinato e sull'altura di Puymore, ove era stato eretto un loro castello, di simulare un combattimento a metà Quaresima; ma se tiensi conto delle strane leggende che correvano sulle Alpi intorno a quel giorno, si può anche trovare in quel costume il ricordo di antiche feste pagane. Sulle stesse regioni alpine si conservò pure a lungo nelle leggende, memoria dei Templari che eransi raccolti in parecchi castelli fra le Alpi. L'illustre poetessa Diodata Saluzzo prese ad argomento di un suo poetico lavoro la leggenda dei Templari nella valle di San Bartolomeo, e ritrovasi in esso l'epica grandezza comune a tante leggende che narransi ancora sulle montagne.

Sarebbe arduo lavoro quello di separare interamente nella cronaca della Novalesa, la parte leggendaria da quella che racchiude importanti verità storiche; trattandosi di tempi oscuri, ad illustrare i quali mancano molti documenti necessarii a chi vorrebbe conoscere il vero in ogni sua parte. Per questo motivo sono incerte assai ed oscurissime le notizie che si possono raccogliere intorno ad un personaggio di cui discorresi a lungo nella cronaca, e che a dire del cronista essendo rimasto per qualche tempo nella valle di Susa, parmi una delle figure più importanti che vengano ricordate fra le leggende delle Alpi.

Il cronista ci racconta lungamente i casi di costui che venne chiamato nel convento il monaco Valtario e fu nel secolo Gualterio di Aquitania. Egli aveva dato il suo amore e la sua fede ad Ildegonda figliuola del re dei Franchi, e dopo diversi casi essendo accompagnato dalla sposa e da un valoroso guerriero chiamato Hagano, era andato come ostaggio alla corte di Attila. Più tardi essendo morto il re, padre d'Ildegonda, salì sul suo trono Cundhario, che più non volle pagare il tributo solito ad Attila. Quando i giovani sposi seppero questa notizia, essi fuggirono, preceduti da Hagano che ritiravasi alla corte di Gundhario. Il caso volle che in un bosco i due giovani fossero scoperti, e sapendolo Hagano, egli diede a Gundhario avviso del loro arrivo.

Il re Franco sapeva ch'essi portavano pesanti scrigni, ed immaginando che vi tenessero rinchiuso una parte del tesoro di Attila, pensò d'impossessarsi di tanto bene, ed insieme ad Hagano con dieci altri guerrieri andò nel bosco ove i due sposi eransi fermati. Egli col loro aiuto assalì Gualtiero, ma costui uccise dieci combattenti senza però colpire Gunthario ed Hagano che sparirono.

A questo punto del racconto notasi una interruzione alla quale si potrebbe supplire colla lettura di un antico poema latino che contiene la storia di Gualtiero277, ma la cronaca ce lo mostra quando egli si fa monaco e termina i suoi giorni nel convento.

Vuolsi anche ritrovare nel leggendario Valtario della Novalesa divenuto umile frate, il Guillaume d'Orange della canzone di gesta francese chiamata le Moniage Guillaume; la canzone francese sarebbe anteriore al racconto della cronaca, e lo scrittore di questa l'avrebbe in qualche modo imitata, sentendola ripetere da uno di quei frati francesi che in tanto numero si ritiravano nel convento della Novalesa.

A dire il vero la maggiore impresa di Valtario sulle Alpi ha grandissima somiglianza con un caso occorso a Guglielmo d'Orange. Il frate della Novalesa sa che certi soldati si sono impossessati di roba che appartiene al convento, ed egli suggerisce all'abate di mandare verso i predatori alcuni frati, per chiedere con preghiera la restituzione del bottino; ma l'abate non conosce altro uomo più valoroso di Valtario ed è lui che deve andare incontro ai soldati, eppure l'antico guerriero sa che difficilmente potrà tollerare la loro superbia. Finalmente egli cede alle insistenze dell'abate, esce dalla Novalesa e dimentica che gli è stato vietato di battersi. È disarmato ma giunge ad uccidere il primo che l'assale, gli toglie le armi e battesi valorosamente, poi le lascia e strappando la coscia ad un vitello che passa se ne serve contro i nemici.

Il leggendario guerriero andato a cercar pace fra le montagne, e che pur dimentica l'umiltà del nuovo stato innanzi ai prepotenti, e ritrova tutto il coraggio ed anche la forza dei giorni passati fra epici combattimenti, muore nel celebre convento fra tanti altri frati, i quali dopo molti disinganni o per religioso fervore hanno trovato pace fra le Alpi278.

Altra figura che ci vien presentata dalla cronaca della Novalesa in forma quasi leggendaria, e che ha somma importanza nelle antiche tradizioni italiane, è quella di Adelchi, il quale è l'anima della resistenza incontrata da Carlomagno nella valle di Susa. Pari agli antichi eroi ha forza sovrumana e statura gigantesca, ed il Fauriel vuole che nella sua lotta tenace contro i Franchi a difesa della terra italiana, ed in mezzo ai colossi alpini, non rassomigli ai tipi cavallereschi di Orlando e di Rinaldo, ma si avvicini maggiormente agli eroi dei poemi scandinavi, avendo in qualche cosa di strano che mal si adatta all'Italia medioevale dei secoli IX e X; mentre sembra che i racconti in cui appare la sua figura siano opera di un longobardo e non di un italiano279.

Altri racconti che pur essendo di grande importanza storica, hanno piacevolissima forma e semplicità leggendaria, trattando di fatti avvenuti sulle Alpi, trovansi nelle preziose cronache francesi di Casa Savoia. Una di queste narra la battaglia di Chillon, e dice come il Conte Pietro di Savoia era divenuto Signore di Torino ove dimorò per alcuni giorni; ed avendo rinforzata la sua armata, deliberò di andare a muovere guerra al Marchese di Monferrato ed agli uomini d'Asti, perchè sentiva contro di essi molto odio nel cuore. Mentre credeva di essere pronto per fare un'aspra guerra, gli fu portata la notizia che l'imperatore Federico nuovamente eletto, era molto adirato contro di lui ed avea mandato il duca di Chophingnen, principe della Germania, il quale aveva signoria sopra una parte della terra di Vaud, per riconquistare le terre d'Aosta e del Chiablese, che erano state prese dai signori di Savoia.

Quando il conte Pietro seppe quella notizia mise sicura guarnigione in Torino, e partì verso la mezzanotte con tutta la sua armata, così segretamente che poche persone sapevano il suo volere. Egli entrò nella valle di Aosta e passò sul monte Gonz per andare nel Chiablese. Appena vi giunse seppe che il duca Chophingnen, aveva posto l'assedio innanzi al suo castello di Chillon verso la parte di Vaud; e allora cavalcò di notte e così copertamente che non fu veduto dai nemici, andando dalla parte opposta del suo castello, ove non eransi fermati; e fece tal segno alla sua gente che stava a guardia, che fu riconosciuto e potè entrare subito fra le alte mura.

Egli si riposò e bevette in mezzo ai suoi soldati, che erano lieti dell'arrivo del loro signore; poi salì sulla torre e vide che i nemici avevan le loro abitazioni lontane le une dalle altre e che dormivano, non sospettando di cosa alcuna. Adunque egli discese a piè del castello, salì sopra una barchetta che era sul lago di Ginevra, e si fece tirare per forza d'uomini fino alla Ville neufve ove aveva lasciato la sua gente. Egli era assai allegro ed i suoi uomini nel vederlo dissero: «Et quelz nouelles, Monsignieur?» ed egli rispose loro: «Mes signieurs et amys, bonnes et belles, car a layde de Dieu se nous voullons estre bonne gens toux nos ennemis sont nostres, car ilz ne sceuent rien de nostre venue. Or est le temps de nous montrer estre gens de bien, – et tous a une voyx repondirent: Signieur, il n'y a que du commender».

Allora prontamente tutti si armarono e montarono a cavallo e volsero verso il castello di Chillon, senza suonare le trombe ed assalirono la dimora del Chophingnen, che trovarono disarmato insieme ai suoi e fecero buona preda. Altri capitani assalirono gli alloggiamenti degl'imperiali, ed oltre al duce supremo furono fatti prigionieri il conte di Nydoye e quello della nobile casa di Gruyères, «ensemble plusieurs aultrez barons signyeurs, chivalliers, escuyers et nobles des ditz pays et tous les fist mener prisonnyers au chastel de Chillion, a le comte Pierre et la il les festia honorablement, non pas comme prisonnyers, maiz comme signieurs par celle nuyt. Et moult fu gran le gain de leur despoillie et chescung gagnya au buttin».

Quando il conte Pietro ebbe guadagnato la «iournée» lodò il Signore con tutto il cuore e pensò che Iddio l'amava poichè gli aveva dato pronta vittoria; e quando finì la sua orazione chiamò i suoi baroni e con molte belle parole disse: «Signori ed amici, è piaciuto a Dio di darmi gran fortuna, come vedete, tanto di qua come di dei monti e per questo ho intenzione di seguire la mia buona ventura. Voi vedete che non vi è dimora nel paese di Vaud di cui il signore o barone non sia in nostro potere, e ci sarà agevole il conquistarlo». Tutti furono del suo parere, allora egli mandò nel suo paese per avere truppa fresca e raccogliere tutta la sua artiglieria, e quando fu pronta ogni cosa, «il se meust en noble arroy et sen ala à la conqueste du pays de Vuaudz». La sua prima cavalcata fu verso Mondon; egli prese la città e poi coll'artiglieria cominciò a battere il castello, ma quelli che eran dentro sapendo che non potevano ottenere soccorso, essendo presa tutta la nobiltà, si arresero, ed avendo giurato fedeltà ebbero «leurs bagues et viez sauves». Poi entrò il Conte nella torre e vi fu un gran banchetto che durò fino a notte; egli volle che vi prendessero parte tutte le dame. Nel mattino seguente fece suonare le trombe, lasciò forte guarnigione nel castello e andò innanzi finchè divenne signore di quasi tutto il paese.

Nelle cronache di Vaud si trovano varianti nel racconto dello stesso fatto, e dicesi che Pietro di Savoia era in guerra col duca di Zaeringen; egli sorprese il castello di Chillon, e vinse l'armata del duca a Monstreux nel sito ove, secondo il cronista, si vedeva una specie di ossario in una cappella vicino alla Chiesa. Anche in questo racconto il conte Pietro fa prigioniero il duca suo nemico.

La cronaca di Savoia nel raccontare ancora le imprese del conte Pietro, dice altra cosa che si riferisce pure a questa conquista del paese di Vaud, e ce lo mostra di fronte all'imperatore a Basilea, mentre egli è stranamente vestito, avendo un lato della persona coperto splendidamente di seta e l'altro rivestito d'acciaio, ed ha sulle labbra superbe parole simili alquanto a quelle che la leggenda doveva pure attribuire a Guglielmo Tell.

L'imperatore si stupisce di quel bizzarro modo di vestire del Conte, e poi gli dice:

«Beau cosin, si je ne vous heusse voullu envestir de Chablaix, de Vaudz et d'Ouste, mais que je les heusse voulu avoir pour moy, que heussies vous fait par votre foy».

Il Conte gli rispose

«Monsignieur, vous en dirayge sur la foy et fidélite que je vous doi, je vous heusse tourné le costé armé et l'espée, et me fusse deffandu jusqu'à la mort l'espée au poing».

Studii recenti vogliono provare che non a Pietro di Savoia, ma a Tommaso possono riferirsi queste altere parole, come pure a lui deve forse darsi la gloria della battaglia di Chillon; mentre è avvenuto intorno alla figura di Pietro nelle vecchie cronache, ciò che spesso accade per le persone predilette dalla fantasia popolare, ad accrescere la gloria delle quali, vengono ad esse attribuiti atti di valore compiti da chi le precedette, o fu loro successore nell'altezza del grado280.

Queste preziose cronache, le quali hanno spesso l'attrattiva del romanzo, e dovrebbero essere note in ogni parte d'Italia, ci mostrano pure in guerre frequenti coi Delfini i signori di Savoia, costretti a passar le Alpi; ma pur mentre innumerevoli sono altri racconti storici, anche senza nessuna forma leggendaria, che ci fanno assistere alle imprese militari ed al passaggio di re e di famosi guerrieri sulle Alpi, la cronaca di Casa Savoia ci mostra una eroina che deve avere la sua gloria fra i poetici e leggendarii racconti, che pur si formarono intorno a fatti reali.

Dice la cronaca che il conte Amedeo V era a Roma al servizio dell'imperatore, ed il Delfino Umberto del Viennese aveva ricordo continuo degli oltraggi sofferti nel tempo passato; e cercava ogni occasione di muovere guerra alla Casa di Savoia, avendo a disprezzo la pace fatta. Avvenne un giorno che certi mercanti del Delfinato ruppero il pedaggio a Quirieux, piccola città sulla sponda sinistra del Rodano, che apparteneva al conte, ed essi furono arrestati e tenuti prigionieri. Questo venne a conoscenza del Delfino, che cercava un'occasione propizia per assalire Savoia, e disse che era il caso di dichiarare la guerra, perchè gli ufficiali del Conte l'avevano insultato insieme alla sua gente. Egli adunò molti soldati nel Delfinato finchè ebbe grande e possente compagnia. Preparò ancora molta parte della sua artiglieria, e andò a mettere l'assedio innanzi a Quirieux. Subito prese la cittadina, ma non ebbe il castello che era forte e munito d'artiglieria, perchè nel tempo della guerra il Conte l'aveva ben fortificato. Quei della città eransi riparati dentro il castello e si difendevano valorosamente, in maniera che nulla poteva il Delfino contro di essi.

La contessa Sibilla moglie di Amedeo seppe quanto avveniva intorno a Quirieux, e non usò come donna, ma come valoroso uomo d'arme. Chiamò tutti i baroni vicini ed anche i suoi sudditi di Beaujey, montò a cavallo e mettendosi alla testa di quell'armata discesero dalle montagne verso il corso del Rodano, e andarono a soccorrere il castello, in maniera che il Delfino dovette ritirarsi togliendo l'assedio281. A proposito di questo racconto dalla forma quasi leggendaria, ricorderò che le donne di Ennetburg nell'Unterwald narravano con orgoglio che, secondo una vecchia leggenda, le loro antenate avevano nell'anno 1315 vinto un'armata austriaca; ed altre leggende ancora delle Alpi, narrano imprese guerresche di donne, nelle quali parmi che si dovrebbe ritrovare un ricordo delle Valkirie, e anche delle Polinitze Slave, che possono dirsi Amazzoni medioevali celebrate nell'epopea russa.

Personaggi cari alle genti e che vengono ricordati in leggendarii racconti, si trovano pure sulle Alpi della Svizzera e del Tirolo, e fra essi come guerrieri parmi che tocchi un alto posto a Teodorico ed a Guglielmo Tell. Già trovammo in altre leggende il valoroso Teodorico, vincitore di draghi e di serpenti; ma però egli non giunge mai ad assumere la grandiosa forma della figura di Guglielmo Tell, che può dirsi innanzi alla fantasia popolare, la personificazione dell'infinito amore che gli alpigiani sentono per la libertà.

Anzi questo amore si manifesta in tal maniera sulle Alpi della Svizzera, che le lotte audaci combattute in quella regione contro la tirannide, vengono narrate con forma leggendaria, ed oltre Guglielmo Tell vi sono parecchi eroi cari ai montanari; ma innanzi a tutti gli altri appare con una grandezza epica la figura immortale dell'audace arciere; benchè da molti si voglia negare anche la sua esistenza, e non si trovi nessuna realtà storica nella narrazione che dice quanto egli operò per la libertà della patria. Ora sarebbe inutile trattare a lungo l'ardua questione, non risolta ancora intorno all'esistenza di Guglielmo Tell; ma è pur forza dire che prima dell'epoca in cui vuolsi ch'egli sia vissuto, si narrarono molti racconti in cui si parlò della meravigliosa abilità di qualche arciere, e per citarne alcuni dirò prima di una donna, poichè nell'epopea russa del ciclo di Vladimiro trovai che la moglie del forte bogatyr Donnaï osò vantarsi di maneggiare l'arco meglio del proprio marito; egli volle mettere a prova la sua valentìa e si pose sul capo un anello d'oro costringendola a tirare. Per tre volte l'esperta giovane portò via l'anello senza ferire il marito, ed egli vinto dall'ira e dalla gelosia rivolse una saetta verso il cuore della moglie; ma costei colle sue preghiere vinse l'ira dell'eroe e fu salva282.

Un re d'Islanda costrinse invece l'arciere Egil a colpire una mela posta sul capo di suo figlio; un certo Toko, abilissimo arciere, fu costretto a far simil cosa da un re di Danimarca. Il medesimo caso avvenne ad un arciere di Norvegia chiamato Endride dai larghi piedi; invece un certo Henning dovette colpire una nocciuola sulla testa del proprio fratello. Un'altra specie di Guglielmo Tell ritrovasi in un certo Cloudesly celebrato dalle ballate inglesi, ed in uno stregone del Palatinato.

Costoro che hanno storia quasi simile a quella dell'eroe svizzero, tolgono ogni originalità al suo atto audace, benchè la leggenda che lo riguardi sia nota generalmente e le altre invece siano conosciute solo dagli eruditi. Meno nota è un'altra strana tradizione svizzera dalla forma leggendaria, che può essere chiamata l'Epopea della fame, ed ha di certo origine storica.

Alla Svizzera non mancarono i poeti popolari che sapevano anche battersi per la libertà della patria; essi ci lasciarono questa bizzarra epopea la quale dice che nella Svezia lontana il popolo viveva a stento, e per evitare le torture della fame fu necessario prendere una triste risoluzione. Il re adunò i suoi consiglieri e fu deciso che per sottrarre il popolo alla morte, era necessario che la decima parte di esso fosse mandata in esilio lungi dalla patria. Ma tutti prescelsero di rimanere nella loro terra, rassegnandosi a morire di fame anzichè lasciarla. Il re non volle che ciò fosse, e mentre durava tristamente in mezzo al popolo quella gara di amor patrio, fu deciso ancora che si tirerebbe a sorte il nome di coloro che dovevano partire, e dopo una settimana essi lasciarono la patria diletta, mentre avevano la disperazione nell'anima.

L'Ostfriesenlied, che può dirsi realmente l'Epopea della fame, narra ancora che:

«L'uno era ricco, l'altro era povero, ma tutti gridavano: che Iddio abbia pietà di noi. Ove dobbiamo volgere il passo?...

«Molti tenevano per mano i fanciulli e portavano le loro scarse provviste; quello spettacolo stringeva ogni cuore e le rupi istesse ne sarebbero rimaste commosse. Essi non avevano più casa, non avevano più il domestico focolare e le loro preghiere salivano fino a Dio».

Essi partirono in numero di 6000 ed un giuramento solenne li avvinse, poichè tutti promisero di rimanere sempre uniti in qualsiasi evento; e varcarono molti monti, passarono su molte pianure, facendosi animo mentre soffrivano per la fame, finchè incontrarono certi Conti dell'Impero che li accolsero come nemici. Essi li vinsero e andarono sempre innanzi, impossessandosi di molto bottino, in maniera che il popolo affamato divenne ricco, e per qualche tempo seguì il corso di un fiume, finchè si fermò sul Brochenberg; la montagna spezzata, della quale ignorasi la vera posizione fra le Alpi, volendo alcuni che fosse una parte del monte Pilato, verso Lucerna, mentre altri accenna alle due punte dette Mythen, che sembrano divise dalla forza di un Titano. Vuolsi che più tardi una parte della popolazione dovette anche partire per cercare altra dimora, e seguitando essa il corso dell'Aar popolò l'Hasli283.

Altre leggende delle Alpi si sono formate, narrando come vennero popolate alcune valli, e furono costrutti borghi o città che trovansi sui versanti delle montagne. Parecchie di esse ci fanno intendere come fossero ancora in tempi non antichissimi, incolte e quasi inabitabili certe regioni alpine, ove ora trovasi vicino a tanti pascoli l'alp ospitale, o l'allegro villaggio, colle cascate che scintillano balzando nelle valli. Ma anche adesso in alcune regioni alpine vedonsi parecchie foreste che possono dirsi vergini ancora; il loro numero diminuisce coll'andar degli anni, e la loro estensione viene sempre maggiormente ristretta. Alcune pagine scritte con rara maestria dal Berlepsch fanno un confronto stupendo fra questi avanzi delle foreste vergini delle Alpi, colle foreste vergini americane, e da quella descrizione possiamo aver mezzo ad immaginare che cosa fossero or sono circa mille anni le Alpi, mentre innumerevoli orsi e lupi vivevano nei boschi ove l'uomo non era entrato ancora, e dai quali stava per quanto poteva lontano non per la sola tema di pericoli reali, ma a causa delle sue credenze nell'esistenza di quegli spiriti innumerevoli e quasi sempre malefici, ch'egli credeva padroni di quelle alpestri regioni.

Il ricordo di una vittoria degli uomini sulle Alpi si trova in una leggenda, che dice come venne popolata una parte della bellissima valle di Gruyères, ove già trovammo le fanciulle che difesero valorosamente il castello contro i nemici. Questa valle è bagnata dalla Sarina che scende dai ghiacciai di Sanetz verso la frontiera del Vallese. Essa appartenne per sette secoli alla famiglia dei conti di Gruyères, che fecero coltivare la valle e vi portarono la civiltà ed il benessere, essendo padri pei loro vassalli e non superbi signori.

Nella valle di Gruyères si parlano due lingue diverse. Dalle sorgenti della Sarina al castello di Vaud è in uso il tedesco; nella parte inferiore parlasi il francese, e vuolsi che mentre duravano le devastazioni degli Unni, quelle di altri popoli barbari o dei Saraceni, genti fuggitive appartenenti a diverse nazioni siano da parti opposte penetrate nella valle e vi abbiano conservato il proprio linguaggio. La leggenda narra che le due estremità della valle siano state così popolate prima della parte centrale, e dice che certi Paladini venuti dai paesi della neve avevano il loro castello in quella regione che chiamarono Gruyères, ma per lungo tempo non osarono superare un cumulo enorme di rupi che trovavasi in mezzo alla valle, e donde pareva che la Sarina avesse la sua sorgente.

Dicevasi che oltre quelle rupi fossero raccolti innumerevoli orsi, lupi ed altri animali malefici. Orribili serpenti impedivano pure il passaggio agli uomini, secondo la convinzione popolare, ed un fantasma dall'aspetto spaventevole rapiva il temerario che osasse sfidarli; di maniera che nessuno aveva il coraggio di superare il baluardo minaccioso, finchè un giovane cavaliere della nobil casa, appassionato cacciatore di camosci, essendo con frequenza andato lungo il corso della Sarina, avea provato desiderio vivissimo di superare l'ostacolo. Finalmente egli si decise ad andare incontro a quell'ignoto, e partì dal castello di Gruyères con molti uomini che portavano lance, scuri, scale e fortissime spade. Con indicibile coraggio tutti mossero all'assalto del baluardo e lo superarono, trovandosi in mezzo ad un ammasso di rupi mal ferme, di alberi enormi, di tronchi così vecchi che erano marciti in mezzo all'erba folta; e quando per circa una lega furono andati innanzi nel miglior modo, in mezzo a quel caos indescrivibile, videro una bella valle che non era custodita da serpenti, da fantasmi e sulla quale il cavaliere estese il suo benefico dominio284.

Non di rado nel tempo di lotte feroci fra popoli e popoli o di minacciose invasioni, vi fu altra gente che cercò rifugio fra le montagne, in mezzo alle foreste o fra le rupi quasi inaccessibili, per sottrarsi all'ira dei nemici. Spesso le leggende delle Alpi conservano memoria di coloro che scamparono in quel modo a morte sicura, e forse ebbero la pace fra le montagne, benchè fosse ardua cosa vivere nelle regioni alpine.

Gli antichissimi abitanti delle Alpi, baldi e coraggiosi, erano stati descritti dalla poetica parola dei latini; molti di essi quasi selvaggi ancora avevano lunghi capelli biondi, portavano collane d'oro, e tenevano in mano il largo scudo scintillante, mentre in guerra davano prova d'indomabile valore285, ma essi erano stati in gran parte travolti fra i nembi passati sulle Alpi. Costretti a servire i Romani, spesso furono decimati nelle guerre micidiali; e specialmente dopo le invasioni dei barbari molta parte delle Alpi parve in modo nuovo desolata. Vi erano però regioni quasi inaccessibili ove dimoravano gli antichi alpigiani, superbi e indipendenti, i quali non appartenevano per così dire a nessun regno ed erano rimasti come neutri fra gli urti di diversi popoli. Essi erano avvezzi a dar la caccia alle fiere ed ai camosci, fino ai colli ove si accumula la neve eterna286 e dovevano odiare la gente straniera, provando in cuore più invincibile e tenace quell'ira profonda, che nutrivano i popoli contro gente che apparteneva a diverse nazioni; e non potevano accogliere sempre con animo cortese gl'infelici fuggitivi, che forse dovettero con frequenza provare fra i predoni ed i selvaggi abitanti delle Alpi, dolori pari a quelli che li avrebbero colpiti, se fossero rimasti nelle valli più accessibili e nelle pianure.

Intorno agl'infelici che andavano incontro a pericoli ed a stenti inenarrabili, pur col desiderio di non cadere in mano di nemici spietati, va ricordata la leggenda della Tomba di Matolda in Valle di Viù, dove secondo una memoria quasi perduta interamente, morì, fra i terrori della montagna e pei disagi sofferti in una fuga precipitosa, una giovane sposa che più non doveva rivedere l'avito castello287.

Nel Biellese una Regina cercò rifugio, secondo una leggenda, vicino al Lago della Vecchia. Ma di questa credenza popolare sarà meglio discorrere quando tratterò delle leggende dei laghi alpini.

Ora dirò di altro racconto popolare del Trentino, il quale narra che nel sito chiamato Ort de la Regina, vicino ad una verde striscia d'erba coperta di fiori, che ora vedesi ancora fra le montagne, in mezzo a rocce nude e dirupate, si fermò col suo seguito in cerca di pace una bella regina. Essa era discesa passando pel valico di Campiglio, cogli abiti regali splendidi ma tutti laceri, cavalcando un focoso cavallo in mezzo ai suoi cavalieri ed ai valletti, vestiti anch'essi con abiti sfarzosi e nuovi; ma che vedevansi lacerati al pari di quelli della Regina, come se avessero sostenuto qualche terribile lotta, corpo a corpo con feroci nemici. La Regina ammaliata dalla bellezza del paesaggio alpino ed ammirando il gruppo di Brenta e la Cima Tosa, volle rimanere vicino alla striscia verde, che fu poi coltivata ed essa dimorò a lungo in quel sito col suo seguito288.

Altre volte ancora vi furono dei villaggi alpini in cui abitarono persone estranee a quelle valli, ove erano andate a nuova dimora, non solo costrette a questo dalle guerre e dalle invasioni; ma cercando metalli nelle miniere o per lavorare il ferro, quando se ne faceva gran commercio in certe regioni alpine. Non di rado avvenne pure che essendo una valle invasa da gente straniera, i discendenti dei suoi antichi abitanti si ritrassero in siti appena accessibili, e non volendo accettare le nuove leggi o la nuova religione, vissero quasi come banditi, fedeli sempre al passato.

In questi diversi casi l'odio, la paura, ed anche la diffidenza che generalmente provavasi per gente forestiera, diedero origine a nuove superstizioni o meglio a varie leggende; e quando si estese maggiormente il cieco terrore che le streghe e le arti della magìa cagionarono alla credula coscienza popolare, parecchi villaggi furono creduti abitati da streghe e da persone capaci d'ogni delitto.

Il Des Ambrois vuole indicare una delle ragioni di questo fatto, dicendo che spesso gli abitanti delle valli, i quali eransi ritirati innanzi ai conquistatori, avendo, come già notai, conservato a lungo e tenacemente il culto verso certe divinità pagane, e non sapendo smettere dal compiere certe pratiche delle antiche religioni, furono ritenuti come sudditi del demonio e maestri in tutte le arti così tenebrose della stregoneria.

Benchè in caso diverso, perchè trattasi di forestieri venuti a stabilirsi in una valle alpina, ho trovato ancora traccia di questa invincibile diffidenza fra gente di origine diversa, nella Valle di Viù; dove secondo una credenza generale che riguarda i villaggi di Lemie e di Forno di Lemie, in cui or sono parecchi secoli si stabilirono dei Bergamaschi venuti a lavorare il ferro, abitarono in tempi lontani, e trovansi ancora streghe le quali sono capaci d'ogni delitto. In quella parte della valle vedonsi, come già dissi, secondo la credenza popolare, i gatti neri che sono trasformazioni delle temute megere; ed anche ora si vanno creando laggiù nuove leggende, che riguardano le orride amiche del diavolo.

Le leggende che in maggior numero ricordino perfidi abitanti delle Alpi, parlano a lungo dei pagani, e pare che innanzi alla fantasia dei cristiani abbiano avuto costoro aspetto e possanza di diavoli. Già dissi della Rocca pagana che ha la sua leggenda nel Trentino, ma parmi che sulle Alpi della Svizzera si possano raccogliere in maggior quantità le leggende in cui trovasi traccia dei pagani; ed ora vedonsi in quelle regioni cappelle isolate sulle Alpi, che si dicono costrutte ove elevavasi un tempio pagano, ora trovansi torri ove, secondo la credenza popolare, si chiusero i pagani.

Nella Valle di Blenio si notano gli avanzi di certe abitazioni collocate in luoghi quasi inaccessibili. Nell'attraversare la campagna di Dongio vedonsi in mezzo ad una delle più alte pareti a picco del Satro, a circa 200 metri di altezza dal piano, gli avanzi di due abitazioni umane, e chi provasi a giungere lassù mette a rischio la vita. Per mezzo di tre alti e pericolosi gradini si entra in quelle dimore dai tetti rovinati, che l'uomo volle costrurre in posizione mirabilmente difesa da ogni parte contro assalti nemici.

Queste abitazioni hanno tale aspetto di antichità, che non si avvicinano neppure ad esse, nella foggia della costruzione, le case più antiche della Valle, ove pur se ne vedono ancora che sono del secolo XIV; e chi essendovi entrato si ferma innanzi alla porta voltandosi per ammirare il paesaggio che scorgesi da quel sito, prova un'impressione indimenticabile, non vedendo nulla del monte sul quale esse posano; ma sembrandogli di essere sospeso sull'abisso, senza che possa riuscire di discendere nella valle.

Molte costruzioni simili a quelle vedonsi nella Valle di Blenio: ve ne sono nel Sas-Pidana, nella montagna sopra Marogno e sopra Molto, ed in altri siti ancora; ma quelle di Dongio sono meglio delle altre conservate; tutte però sono in siti quasi inaccessibili o difesi da costruzioni mirabilmente disposte. Esse sono chiamate le case dei Croisch e diedero molto da pensare ad uomini eruditi, che vollero conoscere quali furono i loro padroni, e perchè vennero fabbricate in tanto numero; trovandosi in posizione che metteva di continuo in pericolo la vita dei loro abitanti, quando dovevano scendere verso la valle.

Si volle ritenere che fossero abitazioni di briganti, di predatori e d'assassini; ma non era possibile che pel desiderio di vivere segregati dagli uomini, essendo disposti solo a scendere nelle valli per far bottino, rimanessero i loro abitanti in quelle dimore fatte per le aquile, se queste non preferissero i nidi all'aria aperta; ed è forza cercare la rivelazione del mistero nelle tradizioni popolari, che chiamano quelle dimore le case dei pagani.

Assai tardi penetrò il cristianesimo nelle valli della Svizzera italiana, ed il paganesimo vi regnava ancora sovrano quando era quasi ovunque scomparso nel Nord dell'Europa. Dalle tradizioni, dai monumenti e perfino da certi usi attuali, si può intendere quali radici profonde avesse nella valle di Blenio, e come dovette essere ardua cosa pei predicatori della fede cristiana, il sostituire le nuove credenze alle antiche; dovendo i montanari difendere energicamente la religione ch'essi professavano da lunghi secoli. E forse in quella regione come in molte altre della catena delle Alpi, il cristianesimo trovando difficoltà maggiore al suo trionfo definitivo, dovette tollerare certe pratiche pagane negli usi e nelle feste, cercando però di dar loro un carattere cristiano.

Vi furono intanto coloro che si dichiararono apertamente ribelli al nuovo ordine di cose, e vollero conservare le antiche credenze; ma trovandosi in numero inferiore vicino ai nuovi cristiani ed essendo riguardati come nemici, si ritirarono in posizioni fortificate con infinito pericolo ed immensa fatica, rimanendo segregati dagli altri abitanti delle valli. Tristissima doveva essere la loro condizione, essendo obbligati ad arrischiare la vita quando uscivano dai nidi sospesi sugli abissi, onde aver mezzo a procurarsi quanto era indispensabile alla vita, e costretti dalla dura necessità divennero di certo predatori feroci. Di notte essi dovevano scendere per far bottino, e si può dire che erano padroni delle valli, poichè essendosi innanzi ai cristiani mutate in diavoli le loro divinità, essi erano ritenuti quali seguaci dello spirito maledetto, e non vi era coraggio umano che si potesse opporre alla loro diabolica potenza.

Doveva anche di giorno essere difficil cosa pei cristiani assalire le case dei pagani, poichè erano, come già vedemmo, difese mirabilmente, come pure dovevano guardarsi dal maltrattare uno di essi se per caso lo trovavano di giorno, poichè essendo numerosi, avrebbero di notte vendicato crudelmente l'offesa. Le tradizioni e le leggende nelle quali si può trovare ricordo di quei banditi, dicono che se una delle famiglie dei pagani non avea prole e minacciava di estinguersi, essi scendevano di notte per rubare i bambini dei cristiani, che allevavano con ogni cura.

Una leggenda narra che di notte una donna pagana discese nella valle per cambiare il proprio figlio con un altro più bello, o secondo una variante della stessa leggenda, perchè era ammalato, e sperava che i cristiani ne avrebbero cura. La madre del bambino rubato essendosi avveduta del cambiamento, fuggì piangendo lontano dal piccolo pagano che non volle toccare, e nessuno osava avvicinarsi al misero che piangeva. Ma sua madre che sentì quelle grida scese di nuovo; con pericolo della vita consegnò ai cristiani il fanciullo rubato e portò il suo nella triste dimora ove era nato289. Per un caso strano una delle leggende sui folletti, che già notai, si avvicina a questa.

In vicinanza di Ueberlingen vi sono anche le case dei pagani, che nella costruzione si assomigliano assai a quelle di Blenio, e la loro posizione nella roccia è quasi inaccessibile. Sventuratamente sono state distrutte in gran parte per fare la strada di Ludwigshafen; ma vi è chi le dice antiche abitazioni celtiche in rapporto alle stazioni lacustri, e vuolsi pure che gli Svevi scacciassero di i Celti.

Nel cantone di Glaris si ritrova sopra Matt un'altra dimora di pagani detta Heidenloch. Narrasi pure che in quell'abitazione che non è stata costruita dalla mano dell'uomo, ma è una caverna adorna con molti stalattiti, un cane nero custodisce un tesoro chiuso in una cassa di ferro. Vuolsi pure che in altri tempi si faceva entrare qualche volta in quel sito una pecora bianca, la quale diveniva rossa quando si lasciava vedere di nuovo ad una lega di distanza.

Anche nella Valle di Gruyères si trova una caverna immensa chiamata Heidenloch.

Nelle vicinanze di Giswil, sulle Alpi svizzere, vedesi ancora una torre chiamata la Torre dei pagani. Dicesi che fu eretta dagli antichi pagani e le sue mura sono fortissime. Nelle sue vicinanze si scorgono parecchie grosse pietre, sulle quali gli alpigiani credono che siano impresse orme di piedi umani e di zampe di animali; e narrasi di un pastore il quale vicino a quella torre ebbe una tremenda apparizione, perchè si vide allato un vecchio pagano vestito con pelli di bestie.

Raccontasi pure che intorno alla torre leggendaria appariscono i pagani, i quali per una delle solite stranezze della fantasia popolare, vengono confusi cogli uomini selvaggi dei boschi.

Intorno al Tagliaferro, famoso in Valsesia per le leggende in cui vien nominato, narra la tradizione che in altri tempi si aggirasse una strada, non alla base ma sotto la vetta, ed essa chiamasi ancora Heiden Weg o strada dei pagani; ma non è altro che uno strato di roccia che spicca alquanto colla tinta più chiara sul monte, e visto da lontano ha aspetto di sentiero. Raccontavasi ancora che verso la vetta del monte si vedevano conficcati nella rupe grossi anelli di ferro, ai quali era forse rimasta attaccata l'arca di Noè. Per un caso strano, il quale deve però avere relazione con un fatto reale, anche nella valle di Viù fra Lemie ed Usseglio, udii parlare di certi anelli leggendarii di ferro conficcati nei fianchi di una montagna. Egual cosa narrasi pure nel Trentino, e la fantasia popolare va ideando strane cose intorno all'uso di quegli anelli; ma pare che secondo certi riti pagani, gli anelli conficcati nelle pareti delle montagne dinotavano la consacrazione di esse a qualche possente divinità, e forse il loro ricordo è rimasto nelle tradizioni di parecchie regioni alpine, benchè non se ne trovi più traccia fra le roccie.

Le prime lotte fra il paganesimo ed il cristianesimo, non diedero solo origine alle tradizioni sulle dimore degli ultimi pagani; ma devesi ad esse la creazione di molte leggende, che hanno origine storica in gran parte, e si possono trovare raccolte nelle vite dei primi Santi che portarono fin sulle Alpi il benefico lume della fede; ma è impossibile parlarne ora diffusamente e mi limiterò a dirne solo alcune.

Sulle Alpi del Delfinato, San Marcellino, venuto dall'Africa, secondo la leggenda, portò la conoscenza del cristianesimo; egli convertì la città di Embrun e dovendo lottare contro l'arianesimo, andò da valle in valle nell'alto Delfinato. Quando i Vandali assediarono nel 433 Embrun, che era capitale della provincia detta delle Alpi marittime, nella divisione che Onorio avea fatta della Gallia, i suoi abitanti si difesero gagliardamente; e quando furono i barbari costretti ad allontanarsi, il popolo andò a prostrarsi intorno alla tomba di San Marcellino, dicendo di averlo visto a difesa della città, mentre teneva in mano la spada sfavillante ed inseguiva i nemici290.

Par che la valle di Rendena al tempo dei Romani fosse coperta di foltissime boscaglie, le quali si estendevano fin quasi alla regione dei ghiacciai, che forse coprivano anche in tempi lontanissimi le vallette laterali. Essa, popolatasi più tardi, fu l'ultima parte della diocesi di Trento che rimanesse pagana, e San Vigilio, nel 400, essendovi andato, secondo la leggenda, per predicare il Vangelo, fu accolto assai male da quella gente quasi selvaggia, che finì col fargli soffrire il martirio. Dicesi che essendo egli arrivato a Spiazzo un giorno, mentre si celebravano i riti di Saturno, si accese di tanto sdegno, che rovesciò il simulacro del dio pagano. Poi salì sul piedestallo ove trovavasi prima la statua e predicò la nuova legge in mezzo alla gente meravigliata, che finalmente si riscosse e lapidò il santo vescovo di Trento, gittando poi il suo cadavere nel Sarca. Portato dalla corrente a Tione, fu raccolto ed il suo corpo venne con molta pompa trasportato a Trento, mentre i Bresciani si opponevano, reclamando la venerata salma per la loro città291.

Nelle vicinanze di Lucerna, non solo si raccontano molte leggende intorno a San Gottardo, ma si trova pur memoria di San Francesco d'Assisi, che è tenuto come un grande benefattore292. Dicesi che egli era in Isvizzera dalla pia contessa Gulta, sopra Schanensee, presso Brienz, quando un violento temporale fece ingrossare in tal maniera il Krienbach, che avvenne una inondazione, la quale cagionò immensa rovina; ma nulla sofferse il sito ove era ospitato il Santo. Quando fu cessata la furia dell'acqua, San Francesco volle visitare il corso del torrente e studiò il modo di farlo deviare in altra direzione, pregando la contessa di provvedere all'esecuzione di un lavoro importante, che avrebbe preservato la valle verso Lucerna; e la contessa con molta spesa fece quanto il Santo desiderava.

Molte leggende vennero pure create mentre fervevano lotte religiose fra genti cristiane, ed a cagione di guerre civili si copriva di rovine e di sangue tanta parte di Europa.

Secondo alcuni scrittori le congreghe segrete dei Valdesi o di altri eretici, diedero origine alla credenza così generale nelle notturne ridde delle streghe e nei delittuosi convegni del sabato, in cui si crede ancora su gran parte della catena delle Alpi; di maniera che è facile farsi indicare dagli alpigiani in quali parti delle valli avevano luogo le riunioni delle fate, delle streghe e dei demoni. Altri vogliono che la credenza suddetta, stata sempre nella coscienza popolare posteriore al primo sorgere del cristianesimo, abbia avuto per origine la continuazione di qualche sacrilega cerimonia derivata dalle Sabasie antiche, in cui adoravasi Bacco Sabasio293. A questa divinità era consacrato il caprone, e si finì coll'immaginare che sotto quella forma il diavolo stesso prendesse parte alle ridde delle streghe; e veramente sulle Alpi ha dovuto essere assai esteso in altri tempi, dopo le prime invasioni dei Romani, il culto di Bacco, che fu specialmente onorato nella valle di Blenio, rimasta, come già notai, così a lungo pagana, ed anche sulle Alpi del Delfinato, ove nel 1834 si usava, e forse ancora adesso, si usa una danza in onore di Bacco chiamata Bacchu-Ber. I ballerini tenevano colla mano destra l'elsa di una grossa spada e colla sinistra la punta di quella portata da un loro vicino294. Forse in memoria di queste danze antiche, usano in val di Susa; gli spadonieri di San Giorio di portare in processione certe spade enormi ereditate dai loro avi, e può anche darsi che lo strano costume che ritrovasi oggi ancora in Bannio, nella Valle Anzasca, di fare i soldati, si riannodi ad antichissime danze sacre eseguite da uomini armati.

In ogni modo, la leggenda si formò e si estese anche sulle Alpi, intorno alle figure di eretici o di difensori della fede cattolica. Nel Biellese e specialmente nella Valle Mosso, si ritrova come figura leggendaria fra Dolcino, che già vedemmo nei racconti intorno ai fantasmi, quando si aggira coi suoi compagni sulle Alpi, essendo dannato ad eterno martirio.

Nella Svizzera, in quei cantoni che opposero resistenza alle dottrine di Lutero, si ritrova la sua figura in parecchie leggende. Anche il Lesdiguières è divenuto un eroe leggendario sulle Alpi. Egli era chiamato il re delle montagne: notavasi che un incendio era avvenuto a Saint Bonnet nel giorno della sua nascita, e che vi fu pure altro incendio nel giorno della sua morte, come se quella vita burrascosa durata 84 anni, dovesse cominciare e finire mentre avveniva un triste caso. Nel 1585 prese la città di Embrun, ed i fanatici mostravano la traccia dei ferri del cavallo ch'egli montava quando entrò nella cattedrale.

Nella regione detta la Lombarda, trovansi tracce di antichissime mura e di abitazioni e si può credere che elevavasi in quel sito un borgo o una città. Non molto lontano da quelle rovine e dal comune di San Secondo, verso le Alpi Cozie italiane, vedesi un buco chiamato Pertusio della Mena. Dicesi che fosse l'apertura di un tunnel, il quale penetrava nelle viscere del monte, nelle vicinanze di San Bartolomeo di Prarostino, ed in quelle di San Lorenzo di Angrogna in Val di Luserna; e da quel sotterraneo che era solo conosciuto dai Valdesi, essi andavano, colle loro compagnie volanti, rapidamente dal monte al piano e risalivano con uguale facilità; ma sembra che non fosse praticabile quel sotterraneo. Dicesi pure che era in origine l'apertura di una miniera, e sembra che le leggende narrate intorno ai passaggi sotterranei dei Valdesi sulle Alpi Cozie, in grazia dei quali essi potevano in un attimo passar dalle creste dei monti alla pianura, furono inventate dai loro avversari; che non sapevano rendersi ragione delle rapidissime movenze di quei figli delle montagne, che ne conoscevano ogni sentiero.

Altro eroe leggendario della Valle di Susa fu un certo La Cazette, nemico degli Ugonotti. Innanzi alla fantasia popolare egli è un vero tipo di Paladino medioevale. Coperto da una pesante armatura era forte come Ercole, e pare che si dilettasse solo nei combattimenti, mentre era terribile di fronte ai nemici. Chiamavasi realmente Luigi Bonet, ed era nato in Oulx. Finchè visse tenne in alto il nome dei cattolici, ed impedì agli Ugonotti d'impossessarsi di Briançon e della valle d'Oulx; finì coll'essere ucciso da loro dopo una eroica resistenza295.

Spesso le leggende delle Alpi ricordano pure aspre contese fra comune e comune, che la storia non ha notate, ma che hanno lasciato traccia profonda nelle tradizioni popolari. Uno dei motivi principali di contese si trova nelle quistioni per la proprietà dei pascoli; o risalendo fino ai tempi lontani, si vedono alpigiani prepotenti, che vanno a muover guerra per futili motivi, o colla speranza di derubarli, ad altri alpigiani appartenenti a nazioni diverse.

Una leggenda della bellissima valle di Antrona narra che molti abitanti del Vallese essendo discesi dal passo d'Andola, si erano nascosti per assalire di notte Antronapiana. Una povera vecchia che si trovò per caso a passare accanto ad essi, fu fatta prigioniera e per tema che potesse dare l'allarme, i nemici di Antronapiana volevano ucciderla: ma ella promise con giuramento di non rivelare quanto avea veduto e finalmente fu lasciata in libertà. Quando ritornò fra i suoi, aveva un tremendo affanno in cuore, perchè voleva salvare Antronapiana senza mancare al giuramento fatto; ed essendo giorno di festa la popolazione era raccolta in Chiesa all'ora di Vespro, quando essa prese il fuso e la rocca e mentre la gente usciva dalla Chiesa, si mise a filare cantando una specie di nenia nel dialetto del suo paese, che significava in italiano:

Rôcca e fuso
I sassi d'Andola son tutta luce;
Fuso e rôcca
Non può dir altro la mia bocca.

Molti dovettero crederla matta nel primo momento in cui osservarono il suo contegno strano, ma essa avea fama di essere astuta e vi fu chi seppe cercare il significato delle sue parole, e capì che se i sassi d'Andola erano tutta luce, questo poteva dipendere dall'avere accanto nemici colle armi scintillanti; ed essendosi dato l'allarme nel paese, gli uomini si armarono e andarono incontro ai nemici vicino ad un alp detto dei Cavalli, aspettando nel silenzio della notte che passassero, la qual cosa avvenne, ed i Vallesani furono battuti296.

Una delle più belle leggende dall'origine storica da me udite, parmi sia quella che riguarda la celebre reggente di Savoia e del Piemonte, chiamata generalmente Madama Cristina. A dir vero io non la raccolsi fra gli alpigiani, ma nel comune di Pianezza, sulla pianura piemontese a piè delle Alpi, non lungi dall'imboccatura della Valle di Susa; ed ove pur sembra a certe buone donne di vedere di sera le fiammelle erranti, che segnano il passaggio della processione dei morti sul maestoso gruppo formato dai vicini colossi delle Alpi.

Mentre gli storici sono andati narrando i casi diversi della bella ed irrequieta vedova di Vittorio Amedeo I, o scusando le sue colpe, o dicendola vana e corrotta; la tradizione popolare non le si mostra di certo favorevole, e dicesi di lei, nella leggenda nota in Pianezza, che ella commise innumerevoli delitti, finchè i sudditi stanchi di tanta malvagità decisero di farla morire. Per alcuni giorni nelle scuderie del palazzo ducale non si diede da bere ai cavalli che venivano di solito attaccati alla sua carrozza, finchè di notte, essendo essa uscita, questi partirono a gran carriera, imbizzarriti, pazzi, a cagione del tormento che provavano. Il cocchiere ed i servi che sapevano in quale corsa infernale sarebbe trascinata la Duchessa, balzarono a terra appena furono usciti dal palazzo, ed ella rimase sola in balìa dei cavalli furiosi, che dovevano far la vendetta di tanti poveri uccisi.

Essi continuarono ad andare sempre innanzi nella corsa sfrenata; non seguivano più le strade, ma correvano sui prati e sui campi o passavano colla rapidità del fulmine tra le siepi ed i vigneti, trascinando sempre la carrozza e Madama Cristina. La leggenda non dice quale fu la commozione tremenda della Duchessa nella corsa vertiginosa; non sappiamo neppure quale fu la via percorsa dai cavalli, in quella terribile notte; ma dicesi che finalmente la carrozza ducale passò in Pianezza, discese sulla ripida china della strada che porta il nome di Maria Bricca, l'eroina così popolare ed amata in quel comune, poi discese verso la Dora che viene da Val di Susa. Ma non fu sotto Pianezza che i cavalli, giunti finalmente vicino all'acqua tanto desiderata, precipitarono con la carrozza e la Duchessa nella Dora. La catastrofe avvenne invece in altro sito che non è chiaramente indicato dalla leggenda.

Ma il fantastico racconto non finisce come si potrebbe credere colla morte della Duchessa, e narrasi che adesso ancora, a notte avanzata ripetesi la vertiginosa corsa; ma la carrozza è fatta di fuoco e lascia un vivo splendore ove passa, mentre volge nell'ombra paurosa verso la Dora. Nell'udire la descrizione di quella strana apparizione nella notte, innanzi ai giganti alpini che alzano verso il cielo scuro le teste minacciose, è forza pensare ad altre visioni apparse agli alpigiani, che vedono la corsa delle fate scintillanti; e parmi che sia difficile intendere per quale lavorìo della coscienza popolare si trovi nella leggenda di Madama Cristina, che è pur di creazione non molto lontana, la traccia dell'antichissima credenza dei montanari, i quali vedono gli spiriti notturni, ad eccezione delle anime dei morti, come vestiti di luce fra i terrori della montagna.

Una leggenda di molto anteriore a questa trovasi anche sulle nostre Alpi, e mentre Pilato è l'eroe del monte leggendario vicino Lucerna e di altri racconti, noti agli alpigiani, Erode appare alla fantasia popolare fra l'incanto della Valle di Susa. Un enorme masso nero dall'aspetto imponente vedesi fra Vayes e Sant'Antonino, e dicesi che egli passi lassù di notte nella sua carrozza fiammeggiante, mentre si compiace nell'aggirarsi intorno alla rupe. Al pari dei cacciatori selvaggi, preferisce apparire come una visione spaventevole nelle notti più oscure e tempestose.





269 Nell'Archivio centrale di Stato in Torino, fra le carte della Real Casa, si trovano parecchie stranissime predizioni astrologiche del secolo XVII.



270 Maltzan, Wallfahrt nach Mekka. Leipzig, 1865.



271 Histoire de la guerre des Alpes, ou campagne de MDCCXLIV. Amsterdam, MDCCLXX. Biblioteca di S. M. in Torino. Nella Historia di Torino del Thesauro si trovano anche bizzarre dissertazioni sul passaggio di Annibale.



272 Altra tradizione l'attribuisce invece al delfino Andrea che possedeva il marchesato di Saluzzo nel 1228. Ma Luigi I marchese di Saluzzo menò vanto di averlo fatto scavare ed aprire nel 1480, col ferro e col fuoco. Dicesi però che lo fece solo riparare e che in origine fu scavato dai Saraceni, che a quanto pare, dopo i Romani, sfruttarono le miniere di quella regione alpina.



273 Durandi, Op. cit.



274 Amédée Thierry, Légendes d'Attila. Revue des deux mondes, 1852, pag. 881.



275 Annuario degli alpinisti tridentini.



276 Il rev. Coolidge, redattore dell'Alpine Journal, ha scritto parecchi articoli interessanti intorno alla dimora dei Saraceni sulle Alpi, ed altro lavoro è stato fatto dal Duby, sui Saraceni e gli Ungheresi sulle Alpi.



277 Questo poema venne pubblicato nel 1780 dal Fischer che si avvalse di un manoscritto del secolo XIII.



278 Muratori stima che i monaci della Novalesa invidiando a quei di Monte Cassino alcuni fatti attribuiti a Carlomanno abbiano inventato il loro Valtario più ammirevole ancora. Il Jonekbloet nel suo dotto lavoro sulle canzoni di gesta dei secoli XI e XII, dice che vi è poca somiglianza fra la leggenda del Monte Cassino e quella della Novalesa. Invece non esita nel dire che il cronista italiano dovette il suo racconto alle canzoni popolari francesi, che potevano essere note nella Novalesa, poichè fin dai tempi di Carlomagno molti nobili francesi vestivano l'abito dei frati nel celebre convento. Egli prova l'anzianità della canzone francese – Le Moniage Guillaume, – sulla cronaca che tratta di Valtario, e vuole che la tradizione francese risalga ai primi anni dell'undecimo secolo, nel tempo in cui la rinomanza di Guglielmo d'Orange era giunta all'apice.



279 Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italienne, pag, 366.



280 Quest'opinione è espressa in uno studio di Henri Carrard, Le combat de Chillon a-t-il eu lieu et à quelle date? Lausanne.



281 Gestez et chroniques de la Mayson de Savoye par Jehan Servion, publiées par le baron Bollati de Saint Pierre. Turin, 1879.



282 Alfred Rambeau, La Russie épique. – Revue des deux mondes, 1874.



283 Louis Étienne, La Suisse et ses ballades. – Revue des deux mondes, août, 1868.



284 Mémoires et documents publiés par la Société d'Histoire de la Suisse Romande. Tome VIII.



285 Ladoucette, Op. cit.



286 Sabre d'Olivet, Les montagnes des Alpes, Paris, 1837.



287 Narro a lungo questa leggenda nel volume sulle Valli di Lanzo.



288 Annuario degli alpinisti tridentini.



289 Bollettino storico della Svizzera italiana, Anno V, N.° 9. – Mosè Bertoni, Le abitazioni dei Croisch o il paganesimo nella Valle di Blenio.



290 Ladoucette, Op. cit.



291 Annuario degli alpinisti tridentini.



292 Lutolf, Op. cit.



293 Vaira, Op. cit.



294 Il Ladoucette in una nota alla sua Histoire des Hautes Alpes descrive lungamente questa danza fatta in onore di Bacco.



295 Des Ambrois, Op. cit.



296 Cap. G. Barretta, La Valle di Antrona e la formazione di Antronapiana. Domodossola, 1880.



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