Giovanni Battista Casti
Opere scelte di Giambattista Casti
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IL RE TEODORO IN VENEZIA DRAMMA EROI-COMICO PER MUSICA

ATTO PRIMO

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SCENA PRIMA (Gabinetto nella locanda di Taddeo.) TEODORO che in magnifica veste da camera, malinconico e pensoso, sta seduto presso un tavolino, e GAFFORIO sotto il nome di GARBOLINO, poi TADDEO con il conto; indi LISETTA col caffé.

SCENA II TEODORO, GAFFORIO.

SCENA III

SCENA IV (Sala nella locanda suddetta.) LISETTA, che stira la biancheria, e altre DONZELLE impiegate in diversi lavori, poi SANDRINO.

SCENA V ACMET in abito d'Armeno seguito da' suoi SERVITORI vestiti nella medesima maniera, e SANDRINO, che attentamente l'osserva nell'uscir in scena. Acmet ordina a' suoi servi che aspettino; essi fatta una profondissima riverenza si ritirano in dietro. Acmet passeggia pensoso, e fa di tratto in tratto atti di smania, di fierezza e di collera.

SCENA VI TADDEO, e poi GAFFORIO.

SCENA VII TADDEO, poi LISETTA.

SCENA VIII

SCENA IX BELISA con SANDRINO, LISETTA in disparte.

SCENA X BELISA, SANDRINO.

SCENA XI ACMET, BELISA, SANDRINO.

SCENA XII ACMET, SANDRINO.

SCENA XIII TEODORO, GAFFORIO.

SCENA XIV TADDEO, che conduce LISETTA, e Detti.

SCENA XV (Sala.) BELISA, che tira per un braccio ACMET.

SCENA XVI SANDRINO, poi TADDEO e LISETTA.

SCENA XVII TEODORO con GAFFORIO, e DETTI.

SCENA XVIII BELISA traendo per un braccio ACMET, e DETTI.

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ATTO PRIMO

 

<< <   > >>SCENA PRIMA

 

(Gabinetto nella locanda di Taddeo.)

 

TEODORO che in magnifica veste da camera, malinconico e pensoso, sta seduto presso un tavolino, e GAFFORIO sotto il nome di GARBOLINO, poi TADDEO con il conto; indi LISETTA col caffé.

 

GAFFORIO.

Scaccia il duol, mio re, chè degno

Quel tuo duol di te non è.

 

TEODORO.

(Senza soldi e senza regno

Brutta cosa è l'esser re.)

 

GAFFORIO.

Deh sovvengati di Dario!

Di Temistocle, di Mario;

E il destin di quegli eroi

Grandi anch'essi, e pari tuoi,

Ti dovrebbe consolar.

 

TEODORO.

Figliuol mio, coteste istorie,

Io le so, le ho lette anch'io;

Ma vorrei nel caso mio

Non istorie, ma danar.

 

TADDEO col conto.

Oh che splendida zimarra!

Se la cetra avesse al collo

Giurerei ch'ei fosse Apollo.

 

TEODORO.

Che domandi?

 

TADDEO.

Se non erro,

Voi richiesto avete il conto,

V'ho servito, eccolo pronto.

 

TEODORO.

Conti! oibò, perchè m'accusi

D'incivil, di diffidente!

Garbolin?...

 

GAFFORIO.

Non chiesi niente.

 

TEODORO.

Tu t'inganni.

 

TADDEO.

Ebben scusate;

Ma l'esigere i danari

Son legittime dimande;

E il pagar nelle locande,

Sono pratiche son usi

Troppo giusti e necessari

Fin dal tempo di Noè.

 

TEODORO.

quel foglio a Garbolino.

 

GAFFORIO, a Teodoro.

Ma, signor, non un quattrino.

 

TEODORO piano a Gafforio.

Ah, Gafforio, il so pur troppo.

Sempre siam su quest'intoppo.

 

GAFFORIO a Taddeo.

Parleremo fra me e te.

 

LISETTA col caffè.

Signor conte, son qua lesta

Collo zucchero e il caffè:

Ma perchè con faccia mesta?

Così torbido perchè?

 

TEODORO a Lisetta mentre versa il caffè.

Ah tu sol, Lisetta mia,

Col tuo brio, cogli occhi tuoi

Dissipar tu sola puoi

La crudel malinconia

Che nel cuor fissa mi sta.

 

LISETTA.

Signor mio, troppa bontà:

Ma per or chiedo licenza,

Chè domestica incombenza

Mi richiama ora di .

 

TADDEO.

Oh che figlia! oh che zitella!

 

TEODORO da prendendo il caffè.

Com'è savia!

 

GAFFORIO.

Com'è bella!

 

TEODORO, TADDEO, GAFFORIO, a tre.

È un portento d'onestà.

 

TEODORO a Lisetta dando la tazza.

M'abbandoni?

 

LISETTA a Teodoro prendendo la tazza.

Mi perdoni.

 

TEODORO.

Ah...

 

LISETTA a Teodoro.

Sospira?

 

TADDEO a Gafforio.

Che cos'ha?

 

GAFFORIO, TADDEO, LISETTA, a tre.

Eh via, state allegramente.

Dissipate il mal'umor.

 

TEODORO.

Vi ringrazio, buona gente,

Vi ringrazio del buon cor.

 

<< <   > >>SCENA II

 

TEODORO, GAFFORIO.

 

GAFFORIO.

Perdona, o sire: io da più giorni il grande

Magnanimo Teodoro

Non riconosco in te; quel Teodoro

Che a ragion per suo re Corsica elesse

Corsica, patria mia, che per te spera

Di racquistar la gloria sua primiera;

Perchè mesto e pensoso?...

 

TEODORO.

Odi, Gafforio

Tu segretario mio, tu dello stato

Ministro principal, che per seguirmi

Vesti abito mentito, e di Gafforio

Il nonne in quel di Garbolin cangiasti;

Se amo i popoli miei, se cerco e bramo

La lor felicità tu ben lo sai.

De' miei nemici alle ricerche esposto,

Ramingo, vagabondo

Per sì bella cagion erro per mondo.

Per tutto soffrirei, ma esausto sono

Non sol gli erari pubblici del regno;

Ma delle borse nostre,

E questo è peggio assai,

Il privato tesoro è vòto omai

E intanto invan dalle potenze amiche

I promessi sussidii attendo ognora.

 

GAFFORIO.

Non disperiamo ancora: a noi fra breve

Il gratuito don giunger qui deve,

Che dai fedeli sudditi del regno

Mandasi a te, della lor fede in pegno.

Onde in ogni ordinario aspetto, o sire,

Una rimessa almen di mille lire.

 

TEODORO.

E frattanto però duro, indiscreto

L'oste chiede denari, e porta il conto;

E non vorrei che un improvviso affronto...

Tremo solo in pensarvi.

 

GAFFORIO.

Odi un pensiero

Che ora in mente mi vien: codesta veste,

Che magnificamente ti ricopre

Da capo a piè le membra,

Oggi inutil mi sembra.

 

TEODORO turbato.

E che pretendi

Dirmi perciò?

 

GAFFORIO.

Che in essa una risorsa

All'esausta tua borsa...

 

TEODORO.

Oh Dio, t'accheta!

Dunque tòr mi vorresti

Del mio regio splendor l'unico avanzo,

Che in mirarlo talor sul dosso mio

Mi risovvengo ancor che re son io?

 

GAFFORIO.

Ma dimmi, perché tanto

Resti in Venezia ancor?

 

TEODORO.

Sai che i sussidii

Attendo qui dell'alleate Corti.

Che qui i dispacci del mio regno attendo;

Che amo Lisetta inoltre sai: confesso

La debolezza mia,

Cara m'è sol per lei quest'osteria.

Ed ella, oh Dio! mi fugge, e par non veda

E non curi il mio amor.

 

GAFFORIO.

So che tu l'ami,

Ma non sdegnano amor l'anime grandi.

Lascia che al padre io parli,

E più discreto a domandar danari

Forse lo renderò: forse la figlia

Farò che a te si renda

Più docile e indulgente; e se felice

Alla fin non riesce il mio maneggio,

Sia quel che vuol, noi non starem mai peggio.

 

TEODORO.

Va, mi riposo in te: ma sopra tutto

Bada, osserva, domanda

Se Genovesi son nella locanda.

 

GAFFORIO.

Eh non temer; se cautele io prendo,

La pelle tua, la pelle mia difendo.

 

<< <   > >>SCENA III

 

TEODORO.

O miei tristi pensier, che vergognosi

Dentro il sen v'ascendete, or che siam soli

Uscite fuor dall'affannoso petto

Che mi giova, a dispetto

Delli natali miei, della mia sorte,

Aver saputo, collo scaltro ingegno,

Una corona, un regno,

E il titolo acquistar di Re de' Corsi,

Se timido e meschino

Son costretto a fuggir ed a celarmi?

E qual birbon della più vil canaglia

Genova pon sul capo mio la taglia!

In ciaschedun che incontro

Un assassin pavento,

A ogni passo un'insidia, un tradimento,

Un colpo d'archibuso o di pistola,

O un coltel nella gola

Se desino, se ceno,

Temo ch'ogni boccon non sia veleno

E in mezzo a tanti guai a tormentarmi,

Mancava l'ostessina,

Qella crudel che ognora

Quanto mi sprezza più, più m'innamora.

Io re sono, e sono amante;

Il mio amor è un brutto affanno;

II mio regno è un bel malanno;

Ma la taglia è peggio ancor.

Quando volgo il mio pensiero

Alla mia crudel Lisetta,

Par che irato ancor mi metta

Mille diavoli nel cor.

Ch'io son re poi mi rammento,

E dai stimoli di gloria

Cose a far degne d'istoria,

Infiammar mi sento allor.

Ma la solita paura

Smorza amor, la gloria oscura;

E aver parmi sulla groppa

Il sicario che m'accoppa;

E con qualche botta ria

Mi risana in sempiterno

Dall'eroica pazzia

Della gloria e dell'amor.

 

<< <   > >>SCENA IV

(Sala nella locanda suddetta.)

 

LISETTA, che stira la biancheria, e altre DONZELLE impiegate in diversi lavori, poi SANDRINO.

 

LISETTA.

O giovinette

Innamorate,

Deh mi spiegate

Che cos'è amor!

Se sia diletto,

Se sia martire,

Io ben capire

Non posso ancor.

 

CORO DI DONZELLE.

O giovinette

Innamorate,

Deh ci spiegate

Che cos'è amor!

 

LISETTA.

Il mio Sandrino

Quando non vedo,

Allora io credo,

Che sia dolor.

Se a me vicino

Spiega il suo affetto,

Gioia e diletto

Lo credo allor.

 

CORO.

O giovinette

Innamorate

Deh ci spiegate,

Che cos'è amor!

(Mentre canta Lisetta, giunge Sandrino, e si pone in disparte a udire, poi si fa avanti.)

 

SANDRINO.

Amor che sia

Se vuoi sapere,

Lisetta mia

Odil da me.

È un garzoncello

Che ama il piacere,

È dolce e bello,

Somiglia a te.

 

SANDRINO, LISETTA, a due.

Ai dolci palpiti

Ch'io provo in seno,

Or sento appieno

Amor cos'è.

 

CORO.

O giovinette

Innamorate,

Or imparate

Amor cos'è.

 

LISETTA.

Caro Sandrino mio, perchè cotanto

Ti fai desiderar?

 

SANDRINO.

Bella Lisetta,

Se teco esser vorrei continuamente

Il Ciel lo sa: ma il padre tuo... la gente...

 

LISETTA.

La gente che può dir? Quanto a mio padre,

Egli sa che ci amiamo, ed è contento

Che tu sii sposo mio.

 

SANDRINO.

Sì; ma quel conte.

Che non si sa chi sia.

Ti guarda con certi occhi... e non vorrei...

 

LISETTA.

Non lo posso soffrir.

 

SANDRINO.

Bada, Lisetta,

Bada..., non gli dar retta,

Che costor che girando van pel mondo

Son furbi, sopraffini, e fan mestiere

D'ingannar le fanciulle.

 

LISETTA.

Eh! non temere.

semplice non son...

 

SANDRINO.

Nella locanda

Son giunti ancor degli altri forestieri?

 

LISETTA.

Giunto è un Armen l'altr'ieri

Di cui non vidi mai

Uom più fiero e superbo.

Quegli occhi, quella burbera figura,

Quei brutti baffi suoi mi fan paura.

 

SANDRINO.

Odi...

 

LISETTA.

Sandrin, m'incresce assai che altrove

Mi richiamino omai le mie faccende,

Ritiriamoci, amiche;

Ci rivedrem di poi, Sandrino mio,

Con maggior libertà.

 

SANDRINO.

Lisetta, addio.

 

LISETTA, SANDRINO, a due.

Ai dolci palpiti

Ch'io provo in seno,

Or sento appieno

Amor cos'è.

 

CORO.

O giovinette

Innamorate

Or imparate

Amor cos'è.

(Le donzelle cantando il suddetto coro pongono nei panieri le biancherie e le loro stoviglie, poi partono appresso a Lisetta.)

 

<< <   > >>SCENA V

 

ACMET in abito d'Armeno seguito da' suoi SERVITORI vestiti nella medesima maniera, e SANDRINO, che attentamente l'osserva nell'uscir in scena. Acmet ordina a' suoi servi che aspettino; essi fatta una profondissima riverenza si ritirano in dietro. Acmet passeggia pensoso, e fa di tratto in tratto atti di smania, di fierezza e di collera.

 

ACMET.

Se al mio fato terribile e fiero

Fisso il torbido e tetro pensiero,

Mille serpi mi mordono il sen.

 

SANDRINO in disparte vedendo venir Acmet.

Chi è colui che con burbera faccia

Fra stesso parlando sen vien.

 

ACMET.

Onta, rabbia, dispetto e furore

M'arroventano l'anima e il core,

E v'infondono il loro velen.

 

SANDRINO.

(Seco adirasi, freme e minaccia

Ah potessi comprenderlo almen!

È certo quegli lo stranier, di cui

Ragionava Lisetta.)

 

ACMET.

Io dunque Acmet?...

 

SANDRINO osservando come sopra.

(Veramente costui

Ha una faccia assai brusca.)

 

ACMET.

Io dunque quello...

 

SANDRINO.

(Nuova affatto non m'è quella sembianza.)

 

ACMET.

Che coll'istesso onnipotente...

 

SANDRINO.

(Al certo

Altrove il vidi.)

 

ACMET.

Il suo poter spartia;

E or balzato dal trono...

 

SANDRINO.

(Al volto... ai moti...)

 

ACMET.

(Fuggitivo, inseguito...)

 

SANDRINO.

(Eh, possibil non è...)

 

ACMET.

(Fra gl’inimici

Del nome musulmano e di Maometto

Vita e ricovro a mendicar costretto!)

(Fa cenno ai servi, che fatta profondissima rivererenZa partono.)

 

SANDRINO.

(No, non m'inganno, è desso;

È quegli Acmet istesso,

Il deposto sultan.

 

ACMET.

(V'è chi m'osserva.

Se non erro, altre volte

Vidi colui.)

 

SANDRINO.

(Mi guarda; io giurerei

Che anch'ei mi riconosce.)

 

ACMET con aria fiera.

O chi sei

Tu che lo sguardo osi fissarmi in volto?

 

SANDRINO.

Signor, io son mercante,

E mi chiamo Sandrino: io vi guardava,

Perchè credea d'avervi visto altrove.

 

ACMET con sorpresa.

Tu mi vedesti? e dove?

 

SANDRINO.

Parmi in Costantinopoli.

 

ACMET.

Tu dunque

Fosti in Costantinopoli?

 

SANDRINO.

Vi fui

Col nostro ambasciator, ed all'udienza

Fui del sultano Acmet, che in guisa tale

Rassomigliava a voi, che si diria

Che siete Acmet istesso.

 

ACMET.

(Util costui

Esser mi può: voglio scoprirmi a lui.)

Odi, e di ciò che ti dirò, parola

Bada ben di non far con uomo vivente,

O che la testa tua...

 

SANDRINO.

(D'un gran sultano

Questo pur è lo stil.) Signor, parlate

Tacer prometto.

 

ACMET.

Io quell'Acmet istesso,

Sì quell'Acmet io sono, a cui tu dici

Ch'io somiglio cotanto.

 

SANDRINO con meraviglia.

Come! tu dunque Acmet?...

 

ACMET.

Ascolta, e taci.

Maomet nipote mio, come saprai,

Dal trono mi balzò: prigion mi chiuse

Dentro il vecchio serraglio, e già risolto

Avea di farmi strangolar. Lo seppi;

E a tempo del cordon la cerimonia

Colla fuga prevenni, e tolto meco

Oro e gioie in gran copia,

Mi condussi in Venezia, e qui mi faccio

Nicéforo chiamar.

 

SANDRINO.

Se l'opra mia

Util credete, io l'offro a voi.

 

ACMET.

L'accetto.

D'aLtro poi parlerem: per or vo' dirti

Che quinci spesso trapassar vid'io

Donna giovine e bella...

 

SANDRINO.

Una straniera è quella allegra e franca,

Che Belisa si chiama: ella a te forse

Piace, o signor?

 

ACMET.

Sì l'amo.

 

SANDRINO.

In quest'istessa

Locanda alloggia anch'essa: a lei potete

Spiegar il vostro amor: fra noi permessa

È una gentil dichiarazion d'affetto

Ma l'altura e l'orgoglio

Sorte fra noi non fa: fra noi l'uom colto

Con cortese linguaggio

Presta alle belle omaggio

Piace il cor dolce e la gentil maniera;

S'odia il tuon minaccioso e l'alma fiera.

Se stride irato il vento,

Se il mar minaccia e freme,

Il passaggier lo tenue,

Lo teme il marinar.

Ma se la lieve auretta

Scherzando increspa l'onda,

Dall'arenosa sponda

A riguardarlo alletta;

E van le ninfe belle

Sulla barchette snelle

Per lo tranquillo mar.

(Parte.)

 

ACMET.

Che nuovo stil di mendicar affetto!

Pur m'è forza obbliar chi son, chi fui;

Ed adottar le stravaganze altrui.

 

<< <   > >>SCENA VI

 

TADDEO, e poi GAFFORIO.

 

TADDEO.

Da un bucolin segreto

Che risponde alla camera del conte,

Udii che Garbolin gli dava il titolo

Di Maestà, di Sire,

Che diavolo vuol dire?

Sarebbe mai un re che viaggi incognito?

Perchè no? Grazie al Ciel, non è più il tempo,

Che viaggiavano i re colle migliaia

D'incomodi compagni.

Un dubbio sol... se è re, perchè non paga?

Il perché vi sarà: ho inteso dire,

Che i re hanno sempre un qualchelorperché,

Che non possiam saper noi gente bassa

E poi s'ei non è re, io non comprendo

Perché mai Garbolin da re lo tratti.

O Alberto è re, oppur costor son matti.

Che ne dici tu, Taddeo?

È un birbante, è un conte, è un re?

Qual Berlich, qual Asmodeo

Mi dirà che diavol è:

Egli è un re: se re non è

Perché mai chiamarlo re?

Qui v'è certo il suo perché.

Ma l'entrate non so troppe...

Re di picche, o re di coppe?

Ma l'entrate non son ricche...

Re di coppe, o re di picche?

Qual Berlich, qual Asmodeo

Mi dirà che diavol è?

Ma Garbolino è qua.

 

GAFFORIO.

Taddeo, t'abbraccio,

Tu sei un brav'uom.

 

TADDEO.

(Con quella

Sua gravità patetica costui

Mi vuol pagar di complimenti.) E il conto?

 

GAFFORIO.

Amico, il conto tuo più discreto,

più giusto esser può, e perchè appunto

onesto sei, vo' darti un buon consiglio.

 

TADDEO.

Dunque tu vieni a. darmi

Consiglio, e non danar?

 

GAFFORIO.

Sì, ma un consiglio

Che val più che i danar: il mio padrone

Se generosamente alcun lo tratta

Di generosità più allor si picca;

E perciò ti consiglio

Di non dargli mai conti, e alfin vedrai

Che dieci volte più del conto avrai.

 

TADDEO.

Ma dimmi un po' di grazia

Cotesto tuo padrone

Chi è egli?

 

GAFFORIO.

È il conte Alberto,

Tu lo sai pur.

 

TADDEO.

Conte, e non più?

 

GAFFORIO turbato.

No certo:

Qual dubbio? qual domanda?

Lo conosce qualcun nella locanda?

 

TADDEO.

No, ma in passar poc'anzi

Presso al vostro quartier, udii che tu

Re lo chiamavi.

 

GAFFORIO come sopra.

O Dio! caro Taddeo

Che non ti senta alcun: ciò che ascoltasti

Per carità non t'esca mai di bocca.

 

TADDEO.

Dunque è un re veramente? e perché tanto

Teme di palesarsi?

 

GAFFORIO.

Perché vuole

Evitar gli spettacoli e le feste

Che vorria dargli la Città e il Senato.

 

TADDEO.

Ma mi potresti dir che re egli sia?

 

GAFFORIO si cava il cappello, e Taddeo fa lo stesso.

Egli è il gran Teodoro, il re de' Corsi.

 

TADDEO.

Come! egli è Teodoro? Ho udito tanto

Parlar di lui...

 

GAFFORIO.

Grand'uom, amico mio,

Grande, caro Taddeo, te lo dich'io

E se sai profittarne, una gran sorte

Si prepara per te.

 

TADDEO.

Che sorte?

 

GAFFORIO.

Egli ama

La figlia tua.

 

TADDEO.

Mia figlia! ah che tu scherzi!

 

GAFFORIO.

Fidati a me, io non t'inganno.

 

TADDEO.

E poi...

Non può mia figlia esser sua sposa; il mondo,

Tu vedi ben... l'onor... già mi capisci.

 

GAFFORIO.

Capisco ben: Taddeo, tu t'hai ragione,

E perciò il mio padrone

Pensa seco contrarre

Matrimonio segreto, il qual col tempo

Potrebbe pubblicarsi, e la tua figlia

Montar sul trono e diventar regina.

 

TADDEO.

(Gran sorte in ver questa saria per noi.)

Ma come assicurarmi

Poss'io che vero sia quanto asserisci?

 

GAFFORIO.

Vuoi prove? eccole qua: guarda, e stupisci.

(Gafforio cava di tasca un fascio di carte.)

Queste son lettere

Scritte in inglese;

Questi capitoli

Stesi in francese;

Patti, prammatiche,

Trattati autentici,

Editti ed ordini;

E atti di regia

Autorità.

Mira di Corsica

L'armi e il sigillo;

(Cava di tasca un gran sigillo.)

Osserva, esamina

Per tutto scorgonsi

Le marche e i titoli

Di Maestà.

(Parte.)

 

<< <   > >>SCENA VII

TADDEO, poi LISETTA.

 

TADDEO, attonito, da .

Gli editti... gli ordini...

L'armi... il sigillo...

Le marche... e i titoli

Di Maestà.

Io son fuori di me! corpo del diavolo!

Qui non si tratta già di bagattelle;

Di divenir si tratta

Il suocero d'un re. Cosa può fare

Il merito d'aver sì bella figlia!

Che importa a me se Savio del Consiglio,

Se patrizio non son, senatore;

Se tu, Lisetta mia, tu dolce frutto

Di mia paternità, compensi il tutto!

Impaziente io sono... eccola. Ah vieni,

(Va incontro a Lisetta che vede venire, e l'abbraccia.)

Vieni fra le mie braccia, o cara figlia,

Tu lo splendor sarai di mia famiglia.

Le favole e l'istoria

Parleranno di te.

 

LISETTA.

Che dite mai?

Padre mio, non comprendo...

 

TADDEO.

Ah! tu sarai

Sposa d'un re.

 

LISETTA.

D'un re! (Sogno o deliro?)

 

TADDEO.

Conosci il conte Alberto?

 

LISETTA.

È quei che alloggia

Nella nostra locanda?

 

TADDEO.

Quello appunto.

Egli conte non è.

LISETTA.

Chi è dunque?

 

TADDEO.

È un re,

Un re che viaggia incognito.

 

LISETTA.

E che specie

Di re credete voi che sia costui?

 

TADDEO.

Egli... ma zitto: egli è de' Corsi il re;

Il gran Teodoro, e non il conte Alberto.

 

LISETTA.

Ma non potreste equivocar?

 

TADDEO.

No certo.

Ogni sospetto è vano

Vidi cogli occhi miei, toccai con mano

Gli editti, gli ordini,

L'armi, il sigillo,

Le marche e i titoli

Di Maestà.

Ei t'ama, e per isposa a me poc'anzi

Dal segretario suo chieder ti fece.

 

LISETTA.

O voi siete impazzato, o mi volete

Far impazzar; e poi non vi sovviene

Che in isposa a Sandrin mi prometteste?

 

TADDEO.

Altri tempi, altre cure: or occuparsi

Di sì bassi pensier più non conviene.

 

LISETTA.

Ed io dovrei...

 

TADDEO.

Non dubitar, carina

Sarai, Lisetta mia, sarai regina.

Figlia, il Cielo ti destina

Per isposa ad un sovrano.

Ti vedrò lo scettro in mano,

Ed invece della cresta

La regal corona in testa

E d'eredi una dozzina

Usciran dal sen fecondo

Della gravida regina,

Che saran stupor del mondo,

E dei sudditi l'amor.

E scherzando i nepotini

Tutti intorno a me verranno:

O che cari pargoletti!

Che graziosi principini!

Ed i popoli soggetti,

Tutti omaggio presteranno

Alla figlia e al genitor.

(Parte.)

 

<< <   > >>SCENA VIII

 

LISETTA.

Che novità, che stravaganza è questa!

Di quale confusion m'empì la testa

Di mio padre, il linguaggio oscuro e strano,

Il conte Alberto è re!... vuole sposarmi!

Non vi sarebbe sotto qualche trappola

Per ingannare me e mio padre?... E poi

Come potrei Sandrino mio tradire?...

Tradirlo! ah no... mi sentirei morire!

Come obbliar potrei

il mio primiero amor

Ah ch'io ne morirei

Di pena e di dolor.

Il caro amato oggetto

Sveller non so dal cor,

E al mio primiero affetto

Sarò costante ognor.

Ma che rimiro? ei stesso

Con Belisa vien qua: molto occupati

In familiar discorsi, e allegri molto

Mi paiono ambedue: cos'egli mai

Ha da far con colei? sono inquieta

Se non giungo a saper di che si parli

Mi porrò qui in disparte ad ascoltarli.

 

<< <   > >>SCENA IX

 

BELISA con SANDRINO, LISETTA in disparte.

 

BELISA.

Mio caro Sandrino,

Quel cor dunque m'ama?

 

SANDRINO.

Ti cerca, ti brama,

Per te tutto è ardor.

 

LISETTA.

(Suo caro lo chiama,

Si parla d'amor!)

 

BELISA.

Il vago mio volto

Conquiste fa ognor.

(Prende per mano Sandrino.)

 

LISETTA.

(Che vedo! che ascolto!

M'insultano ancor!)

 

SANDRINO.

Non far la tiranna

Col nuovo amator.

 

LISETTA.

(L'infido m'inganna,

E finse finor.)

 

INSIEME.

BELISA, SANDRINO.

La gioia, il diletto,

 

LISETTA.

(La rabbia, il dispetto.)

 

A TRE.

Da questo momento

Mi sento nel cor.

 

<< <   > >>SCENA X

BELISA, SANDRINO.

 

SANDRINO.

Dunque come dicea, gentil Belisa,

Quello stranier che t'ama,

Il deposto sultano, Acmet è quello

In abito d'Armen.

 

BELISA.

Che bella gloria

Di veder a' miei piedi

Un deposto sultan! prendermi spasso

Con quel Turco vogl'io. Vo' che conosca

Qual differenza passa

Fra una schiava circassa

E una donna europea,

E di questo cervel vo' dargli idea.

 

SANDRINO.

Felice te, che sei

Sempre lieta a dispetto

Delle vicende tue!

 

BELISA.

Le mie vicende,

Che altri pianger farian, rider mi fanno.

 

SANDRINO.

Sarei ben curioso

D'udir le tue avventure.

 

BELISA.

Io di narrarle

Non ho difficoltà. Nacqui in Vestfalia;

Un mio fratel, che solo

Restat'era di tutta la famiglia,

Inquieto, impaziente,

Ardito, intraprendente,

D'indole romanzesca

Sparve improvviso; e nell'età più fresca

Soletta mi lasciò.

 

SANDRINO.

Crudel sventura!

 

BELISA.

Il mal non fu sì grande: uno straniero

Mi si offre per isposo, a lui mi fido:

Lo credo amante, e seco

Abbandono la patria: indi a non molto

Lo sposo m'abbandona.

 

SANDRINO.

E allor...

 

BELISA.

Per varii casi,

Or altri abbandonando

Ed or abbandonata,

Qua giunsi; e così appresi

Degli uomini a conoscer l'incostanza;

Della moneta istessa

A pagarli però m'accostumai;

A chi mi chiede amore

Non dono il cor, il niego

Ascolto tutti e con nessun mi lego.

 

SANDRINO.

Il tuo bizzarro umor, Belisa, ammiro.

Ma Acmet colà rimiro...

 

<< <   > >>SCENA XI

ACMET, BELISA, SANDRINO.

 

ACMET.

Sandrin, colei ch'è teco, è quella appunto

Che piace agli occhi miei.

 

SANDRINO.

Belisa è questa.

 

BELISA.

La vostra serva umil.

 

ACMET, prendendola per un braccio.

Dunque vien meco.

 

BELISA, distaccandosi sdegnosamente.

Olà, signor, che impertinenza! abbiate

Più rispetto per me.

 

ACMET.

Tu non dicesti

Che sei la serva mia?

 

BELISA.

Turca è l'idea.

 

ACMET.

Dunque non m'ami?

 

BELISA.

Acciò ch'io v'ami, a voi

Tocca a inspirarmi amor.

 

ACMET.

Il favor mio

Sopra di te discese,

Come rugiada del mattin, che cade

Ad innaffiar le rose e i tulipani.

 

BELISA a Sandrino.

Che diavol dice?

 

SANDRINO a Belisa.

È stil de' gran sultani.

 

BELISA a Sandrino.

Eh ch'io non ho bisogno

Che rugiada m'innaffi.

(Ad Acmet.)

Grazie, Acmet, io ti rendo...

 

ACMET.

Come! tu sai chi sono! oimé! che intendo!

Sandrin, tu mi tradisti.

 

SANDRINO.

È ver, gliel dissi

È troppo giusto che la donna amata

Sappia chi è quei che l'ama;

Chè a sconosciuto oggetto

Raro s'accorda affetto.

 

BELISA.

Non temete, signor, ch'io tacerò;

E se amabil sarete io v'amerò.

 

ACMET, presentando con aria autorevole un anello a Belisa.

Prendi questo gioiello: amami, e taci.

 

BELISA.

Che rozzo modo è quello

D'offrir doni a una giovine che s'ama?

 

ACMET.

Che far dunque dovrei?

 

BELISA.

Di buona grazia

Gentilmente convien pregarla pria

E d'accettarlo, e di scusar l'ardire:

E femmine talora

Di sì buon cuor vi sono

Che fan l'onor fin d'accettar il dono.

 

SANDRINO.

Che bizzarro cervel!

 

BELISA l'accarezzando.

Via, caro Turco,

Questa prima lezion mettete in pratica;

Fate l'offerta vostra.

 

SANDRINO.

(Questa è una cosa da morir di risa.)

 

ACMET.

Questo gioiello d'accettar, Belisa,

Ti prego, e dell'ardir chiedo perdono.

 

BELISA.

Scuso l'ardire, Acmet, e accetto il dono.

(Facendo un grand'inchino, prende il gioiello.)

Bravo davver! da un Turco

Tanto non attendea: se seguirete

A profittar così, farete in breve

Sotto la scuola mia

Un onore immortale alla Turchia.

Se voi bramate

Il nostro amore,

L'arte imparate

Di farvi amar.

I vezzi teneri,

I dolci modi,

Il tratto amabile

Sono quei nodi

Che il cor ci possono

Incatenar.

Col ruvido impero,

Coll'aspra favella,

Col ciglio severo,

Di giovine bella

Invan pretendete

L'affetto acquistar.

(A Sandrino in disparte.)

Se ancor non l'intende,

Tu meglio, o Sandrino,

A quel babbuino

La scuola puoi far.

 

<< <   > >>SCENA XII

 

ACMET, SANDRINO.

 

ACMET.

Sandrin, questa ragazza

È impertinente e pazza: eppur l'istessa

Impertinenza sua, la sua pazzia

Ha una segreta incognita magia

Che irrita il mio desir, punge il mio core:

La vo' seguir...

(Parte.)

 

SANDRINO.

Seguitela, signore.

Va, stai concio: hai trovato un umor bello,

Che a buon partito ti porrà il cervello.

 

<< <   > >>SCENA XIII

 

TEODORO, GAFFORIO.

 

GAFFORIO.

Signor, tutto è compito:

Ritorno a te negoziator felice.

Al locandier parlai, qualche sospetto

Vidi che avea dell'esser tuo; ma seppi

Trarne vantaggio a tuo favor: gli dissi

Chi sei.

 

TEODORO, turbato.

Che mai facesti!

 

GAFFORIO.

Non ti turbar, è un galantuom: promise

Il grand'arcano custodir, lo resi

Fanatico di te: scoprii l'affetto

Che hai per la figlia sua, lo lusingai

D'un matrimonio che, per or segreto,

Dal regno un saria riconosciuto.

 

TEODORO.

Ma la mia dignità tu comprometti.

 

GAFFORIO.

Perché, signor? con isposar Lisetta

Appaghi il genio tuo: solo il padre

Non più danar ci chiederà; ma forse

Negli urgenti bisogni

Ci porgerà qualche soccorso ancora.

 

TEODORO.

E credi tu che con serene ciglia

D'un locandier la figlia

Corsica mirerà sul trono assisa?

 

GAFFORIO.

Un espediente, o sire, atto alle tue

Presenti circostanze io sol propongo.

È sempre savio e giusto

Quand'utile è un negozio,

Come c'insegna il Puffendorff e il Grozio.

Se in avvenir non converrà, si sciolga.

Pel volgo, o sire, indissolubil nodo

Forma solo Imeneo:

Ma per disciorre i pari tuoi d'impegno

grande sforzo vi vuol mai, studio:

Un divorzio, un ripudio...

Legge o ragion che il matrimonio annulli...

 

TEODORO.

Ma che diranno i posteri?

 

GAFFORIO.

Eh, mio sire,

Sempre i viventi a modo lor faranno,

E i posteri diran quel che vorranno.

 

<< <   > >>SCENA XIV

TADDEO, che conduce LISETTA, e Detti.

 

TADDEO.

Vieni, o figlia, a un re che t'ama

E a regnar seco ti chiama.

Permettete, Maestà,

Ch'io mi prostri!

(S'inginocchia.)

A' piedi vostri...

 

TEODORO a Taddeo, porgendogli la mano.

Sorgi, amico: orsù favella.

 

TADDEO a Gafforio.

Anche amico egli m'appella

Oh clemenza, oh gran bontà!

 

GAFFORIO a Taddeo.

Ah! conoscer tu non puoi

Tutti ancor i pregi suoi,

Le sue grandi qualità.

 

LISETTA.

Io non so cosa mi dire

A sì strana novità.

 

TADDEO.

La mia figlia, eccelso sire,

L'amorosa vostra sposa

Si fa gloria d'obbedire

Alla vostra volontà.

 

TEODORO.

Ma Lisetta non risponde.

 

GAFFORIO.

Bassa gli occhi, e si confonde.

 

TADDEO a Lisetta.

Via, fatti animo, Lisetta...

(A Teodoro.)

Ell'è un po' vergognosetta.

 

TEODORO.

Ti ringrazio, caro amico,

Del buon cor ch'io scorgo in te.

 

LISETTA.

Padre mio, ciò ch'io non dico

Dillo tu, dillo per me.

 

TEODORO, TADDEO, GAFFORIO a tre.

Come attonita l'ha resa

La sorpresa e lo stupor!

 

LISETTA.

(Di Sandrin che mi ha delusa

Io non so scordarmi ancor.)

(Al suo padre, a Teodoro, e Gafforio.)

Chiedo a voi perdono e scusa

Del silenzio e dei timor.

 

TEODORO, TADDEO, GAFFORIO a tre.

Merta ben perdono e scusa

Quel silenzio e quel timor.

 

<< <   > >>SCENA XV

 

(Sala.)

BELISA, che tira per un braccio ACMET.

BELISA.

Venite, via, movetevi,

Non siate sì selvatico.

Andiamo a passeggiar.

 

ACMET.

E dove mai mi strascichi?

Ah che le braccia e gli omeri

Tu mi potrai slogar.

 

BELISA.

Perchè star sempre in camera

Solo, pensoso e tacito?

Vo' farvi socïabile,

A ciaschedun che incontrasi

Vi voglio presentar.

 

ACMET.

Con te, ragazza indocile,

Mi vengon le vertigini.

Già mi vacilla il cerebro,

E temo d'impazzar.

 

BELISA.

Chi amante mio vuol essere,

A modo mio dee far.

 

ACMET.

Con te, ragazza indocile,

Io temo d'impazzar.

 

A DUE.

Vedete(or veggo) che le femmine,

Se daddover s'impegnano,

A modo lor degli uomini

San l'indole cangiar.

(Belisa prende di nuovo Acmet per il braccio, e lo conduce via.)

 

<< <   > >>SCENA XVI

SANDRINO, poi TADDEO e LISETTA.

 

SANDRINO.

OvLisetta

Il mio bel foco?

In ogni loco

La cerco ognor.

 

TADDEO.

(Gli editti e gli ordini,

Le marche e i titoli,

Fissi nel capo

Mi stanno ancor.)

 

SANDRINO.

Quando, o Taddeo,

Me con tua figlia

Dolce imeneo accoppierà?

 

TADDEO.

Temo che retta

Ad uom plebeo

La mia Lisetta

Più non darà.

 

SANDRINO.

(Che tuono insolito!

Che stravaganze!)

E le speranze?

E le promesse?

 

TADDEO.

Le circostanze

Non son le istesse.

 

TADDEO, SANDRINO, a due.

Lo rende

stupido

Mi rende

Tal novità.

 

SANDRINO.

Ma qua viene Lisetta il mio bene.

 

LISETTA uscendo.

È qui il perfido, è qui il traditore.

 

SANDRINO.

Vieni, o cara, l'affanno e il dolore

Deh consola d'un'anima amante,

Che t'adora costante e fedel.

 

LISETTA.

E osi ancora parlarmi d'amore?

E osi il guardo fissarmi nel volto?

Fuggi, ingrato, che più non ascolto

Le menzogne d'un'alma infedel.

 

TADDEO.

Brava figlia! quel nobile orgoglio

Degno è d'anima grande che al soglio

Con ragion destinata è dal Ciel.

 

SANDRINO.

Ma che avvenne? che sento? ove sono?

Perchè meco sei tanto crudel?

 

LISETTA.

Vanne pur, mentitor, t'abbandono;

Vanne perfido, vanne crudel.

 

TADDEO.

D'uno scettro l'acquisto e d'un trono

Val la pena di far la crudel.

 

<< <   > >>SCENA XVII

 

TEODORO con GAFFORIO, e DETTI.

 

TEODORO.

Alfin, mia diletta,

Mia bella Lisetta,

Scacciasti dal core

Il vano timore,

Il tristo pensier?

 

TADDEO.

Va figlia, t'affretta,

Va incontro al tuo sposo.

 

GAFFORIO.

( È assai premuroso...)

 

LISETTA.

Vo' far la vendetta

Di quel menzogner.

Accetto, signore,

L'offerta d'amore.

Amor v'offro anch'io,

Sarà voler mio

Il vostro voler.

 

SANDRINO.

Che veggio, che sento!

 

TADDEO.

Che bel complimento!

 

TEODORO.

Oh voci d'affetto

Che m'empiono il petto

Di gioia e piacer.

 

INSIEME

 

LISETTA, SANDRINO, a due.

Il perfido

omai

L'origine

 

TEODORO, TADDEO, GAFFORIO, a tre.

Con giubbilo omai

 

LISETTA, SANDRINO, a due.

Il mio

cangiamento

Di quel

 

TEODORO, TADDEO, GAFFORIO, a tre.

Quel suo cangiamento

 

TUTTI.

Da questo momento

Comincio

a veder.

Comincia

 

<< <   > >>SCENA XVIII

BELISA traendo per un braccio ACMET, e DETTI.

 

BELISA.

Vi presento, miei padroni,

Il gentil signor Niceforo,

 (Ad Acmet.)

Riveriteli, inchinatevi.

 

ACMET fa bruscamente un saluto.

Miei signori, vi saluto.

 

TUTTI.

Ben venuto, ben venuto.

 

TEODORO vedendo Belisa.

Ma che veggo! che rimiro!

Mia sorella al certo è quella.

 

BELISA.

Che vegg'io? sogno o deliro?

Certo quello è mio fratello.

 

GAFFORIO a Teodoro, accennando Acmet.

Ah, signor, mira colui

Io ravviso Acmet in lui,

Che vedemmo già sul soglio.

 

TEODORO a Gafforio.

Hai ragion, sì certo è desso.

(Cos'è mai codesto imbroglio!)

 

ACMET a Belisa.

Vedi tu quegli stranieri?

In Bisanzio gli ho veduti.

 

BELISA.

Li conosci?

 

ACMET.

Uno di quelli

E de' Corsi il re posticcio.

 

BELISA.

Oh che diavolo d'impiccio!

 

TADDEO, LISETTA, SANDRINO, a tre.

Ma che avvenne? che cos'è?

 

BELISA a Sandrino, accennando Teodoro.

Chi è colui?

 

TEODORO a Lisetta, accennando Belisa.

Chi è colei?

 

GAFFORIO a Taddeo, accennando Acmet.

Chi è costui?

 

ACMET a Belisa, accennando Gafforio.

Colui chi è?

 

GAFFORIO a Lisetta, accennando Acmet.

Chi è colui?

 

TEODORO a Taddeo, accennando Belisa.

Chi è costei?

 

ACMET a Sandrino, accennando Teodoro.

Chi è costui?

 

SANDRINO, TADDEO, LISETTA, attoniti, a tre.

Si riguardano, stupiscono,

Ne capir posso il perchè.

 

BELISA a Teodoro.

Sei, o non sei fratello mio?

 

TEODORO a Belisa.

Taci, taci, io... son io.

 

GAFFORIO a Belisa.

Non è quegli il turco sire?

 

BELISA a Gafforio.

Taci, taci, non lo dire.

 

ACMET a Gafforio.

Non è quegli il re de' Corsi?

 

GAFFORIO ad Acmet.

Taci, taci, oh che discorsi!

 

TADDEO ad Acmet.Dunque Acmet deggio chiamarti?

 

ACMET a Taddeo.

Taci, taci, o fo strozzarti.

 

SANDRINO a Lisetta.

Dunque quei de' Corsi è il re?

 

LISETTA a Sandrino.

Taci, taci, e bada a te.

 

TEODORO a Sandrino.

Non è quegli il gran sultano?

 

SANDRINO a Teodoro.

Taci, taci, egli è un arcano.

 

LISETTA a Taddeo.

Ma costor che diamin hanno?

 

TADDEO a Lisetta.

Taci, taci, essi lo sanno.

 

TUTTI.

Che susurro! che bisbiglio

Or mi ronza nell'orecchia!

Non rimiro ovunque volgomi

Che disordine e scompiglio.

Parmi in testa aver due mantici

Che mi soffiano nel cerebro,

E lo fan come una macina

Rotolandolo girar.

Ne sapendone l'origine

Resto

stupida ed estatica

stupido ed estatico

Resto come un sasso immobile...

E non so cosa mi far!

 

TUTTI DA SE’.

 

TEODORO.

Già Belisa.

Mi ravvisa:

La donnesca indiscretezza

È saviezza

D'evitar.

(Parte.)

 

GAFFORIO.

Pel mio sire

A vero dire

De' pericoli preveggio.

Non lo deggioAbbandonar.

(Parte.)

 

BELISA.

S'egli è quello

Mio fratello,

Qui v'è sotto qualche imbroglio

Me ne voglio

Assicurar.

(Parte.)

 

ACMET.

Quivi al certo

Io son scoperto.

È savissimo consiglio

Il periglio

Di schivar.

(Parte.)

 

SANDRINO.

Io già vidi

I tratti infidi

Di Lisetta, e so l'arcano

Or è vano

Altro indagar.

(Parte.)

 

LISETTA.

Sospettoso,.

Timoroso

Ognun fugge: il caso è brutto:

Meglio il tutto

Io vo' appurar.

(Parte.)

 

TADDEO.

Tutti sono andati al diavolo,

M'han piantato come un cavolo;

E Taddeo cosa farà?

E Taddeo se n'anderà.

 

FINE DELL’ATTO PRIMO

 



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