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L'ASINO
Tempo già fu che le feroci belve
La pantera, il Leon, la Tigre e il Pardo,
E qualunque altro abitator di selve
Animale più intrepido e gagliardo,
Al dominio dell'uom soggetto fue;
Come in oggi il Caval, l'Asino e il Bue.
Ma di lor forze accortisi costoro,
E disdegnando un più lungo servaggio,
Di comun voto stabilir fra loro
Di dispiegar tutto il natio coraggio,
Onde sottrarsi a quell'indegno giogo,
Ed al desio di libertà dar sfogo.
E a qual fine, dicevano, a qual uso
Diecci dunque natura ardire e forza,
E d'unghia il piè ci armò, di zanna il muso,
Se la fronte a piegar ci obbliga e sforza
Moto di verga fral, qualor l'impone
Colui, che a suo piacer di noi dispone?
E in noi tutto il furor non si ralluma
Al sol rammemorare onte si fatte?
E in questo dir ciascuna sbuffa e spuma
E colla fiera zampa il suolo batte;
E l'una l'altra stimola ed incita
Al grand'onor di quell'impresa ardita.
E tutte a un tempo concordevolmente
Rupper le funi, le catene e i lacci,
Onde avvinte gemean miseramente,
E i duri pesi e i vergognosi impacci
Scossero dal lor dosso, e dalle spalle,
E dei padroni abbandonar le stalle.
Ai tremendi ruggiti, agli urli atroci
I tremanti custodi impallidiro;
Nè delle belve orribili e feroci
Alla terribil ira opporsi ardiro;
E la vita salvar fur ben contenti
Dalle lor unghie e dai rabbiosi denti.
Quelle ogni ostacol superato e vinto,
Scotendo i crini e le orgogliose teste,
E l'innato seguendo ardente istinto
Si sparser per Ie prossime foreste;
E dopo schiavitù si dura e fella,
La libertà loro apparia più bella.
E benedìr la sorte e il Cielo amico,
Che le avea tratte dagl'immondi e scuri,
Cui fur dannate dal padrone antico,
Antri, serragli, carceri, tuguri,
A respirar l'aria serena e pura,
Cui destinate fur dalla natura.
Dall'uom superbo, che sovr'esse un dritto
E piena potestà s'era arrogata,
La fuga lor qual capital delitto
Di lesa schiavitù fu riguardata;
E dichiarati fur Tigri e Leoni
Rubelli ai lor legittimi padroni.
Nè ancor, dicea l'altier, nè ancor s'intende
Da quelle inique e perfide rubelli,
Che per noi gli astri in cielo e il sol risplende
Per noi volan per l'aere gli uccelli,
Per noi produce il suol fior, frutti e fronde,
E il pesce sol per noi guizza nell'onde?
Che insomma in lungo e in largo ed in profondo
Noi pienamente, unicamente noi
Gli arbitri siamo ed i padron del mondo,
E di tutti i connessi e annessi suoi;
E che al sol voler nostro, al nostro cenno
Tutti gli enti animati obbedir denno?
E queste ingrate bestie, a cui ampiamente
La semola ogni dì, l'orzo e lo strame
Abbiam fornito, e che diversamente
Sarian forse di già morte di fame,
Osan sottrarsi con empio attentato
A quell'autorità che il Ciel ne ha dato?
Che più si tarda omai, che più si bada?
Quella malvagia indocile genia
Tosto a punir, e a sterminar si vada,
Come lo merta la lor fellonia;
Sol che noi ci mostriamo, al nostro piede
Verran prostrati a domandar mercede.
In questo dir patenti e circolari
D'ogni intorno spedir, dispacci, e pieghi
Contro i ribelli stolti e temerari,
In congresso a invitar tutti i colleghi,
Decretata la lor distruzione.
Onde per adempire il gran decreto
Tolti ai mestieri, o al lavorar la terra,
Servi, operai, villan col birro dreto
Spinsero a forza in quella strana guerra,
Cui di pubblico ben, di ben di stato
E di causa comun titol fu dato.
Costor di lance armati e d'alabarde,
Di spuntoni, di freccie e di zagaglie,
Le feroci assalir belve gagliarde
Nei lor rifugi e nelle lor boscaglie;
E in guisa tal per gl'interessi altrui,
Una parte pugnò, l'altra pe' sui.
Ma ciò che fe' di lor più gran sterminio
Non l'armi fur, ma un tal famoso astuto
Ricco amministrator d'ampio dominio,
D'attorno formidabile e temuto
Pei perigliosi suoi furbi artifici
Dai possessor rivali, e dagli amici.
Nata non era ancora alma più nera;
Di sangue, di violenze e di rapina
Pasceasi solo, e suo piacer sol era
L'altrui calamità, l'altrui ruina;
Pel suo interesse, o immaginato o vero,
Posto a soqquadro avrebbe il mondo intero.
Lusingava i lontani ed i vicini
E con speranze e con promesse accorte;
Ma posciachè gli avea tratti a' suoi fini
Gli abbandonava alla lor cruda sorte:
E per tai modi avea sparsa per tutto
La disperazione, il pianto e il lutto.
Costui contro le belve a forza d'oro
Fe' tante costruir macchine e ordigni,
Tante trappole tese contro loro, E tanti inganni usò scaltri e maligni,
Che per l'insidie sue restano estinte
Molte di lor, più che dall'armi vinte.
Si fe' di quelle inferocite fiere,
Si fe' d'umane vittime un carnaio;
Ma siccome Leon, Tigri e Pantere
Non fan distinzion tra Tizio e Caio,
In quell'eccidio atroce e sanguinario;
Fu ancor involto un possessor primario.
Ma l'ardir delle fiere, e la possanza,
Il forte sito e l'inacesso calle
Alfin tolse al nemico ogni speranza,
E lo costrinse a volgere le spalle;
E van riconosciuto il suo disegno,
Abbandonaro il mal tentato impegno.
E gli antichi padroni, il primo foco
Rallentatosi alquanto al tristo saggio,
Persero a lungo andare appoco appoco
Fin la memoria del preteso oltraggio,
E a lor piacer le belve lasciand'ire,
Cessò d'assoggettarle anche il desìre.
E in guisa tal le valorose fere
Venute al fin di quella grande impresa,
Tranquille cominciarono a godere,
Senza timor d'insulto o di sorpresa,
Le valli, le foreste e la montagna.
Indi in riguardo di ciascuna spezie
Certe leggi fissàr, statuti e patti,
Che quantunque parer poteano inezie
A chi non conoscea le cose e i fatti,
Pur erano opportuni e necessarii
Ai caratteri loro e istinti varii.
Fra questi annoverar si dee quell'uso
D'unirsi insieme in certi dì dell'anno,
Senza che alcun di maggior forza abuso
Facendo, altrui recasse offesa o danno,
Dell'acquistata libertà in memoria,
Ove concorser tutte alla vittoria.
Perciò Tigre, Leone, Orso e Pantera,
Sendosi insieme affratellati un giorno,
Per digerir, discorrerla e far sera,
Lentamente pel bosco ivano attorno,
Sicché quei ferocissimi animali
Divenuti parean fratei carnali.
Più non dobbiam, dicean, come una volta
Dei guardian la volontà seguire;
Liberamente a questa o a quella volta
Ovunque più ci aggrada, or possiam'ire;
E faceano un confronto ragionato
Fra lo stato presente ed il passato.
Ben rammento, il Leon dicea talora,
I giorni in cui schiavi vivemmo e servi,
E giovi a noi di rammentarlo ognora,
Quando ossequio ai padron vani e protervi
Di vil custode a un fischio, a un guardo, a un segno
Prestar dovemmo obbrobrioso indegno.
Con pompa allor ridicolosa e sciocca
Ricco drappo talor copriaci il dorso,
Talor al collo a noi poneasi, e in bocca
Gemmata la catena, aurato il morso;
Marche di servitù, ma non mai lice
Per umilianti fregi esser felice.
Mentre così sen givano a sollazzo,
Vider da un lato alzarsi un polverio,
E uno strepito udiro, uno schiamazzo,
Uno scoppiar di fruste, un calpestio,
Ragli asinini e voci sgangherate,
Urli, fischi, batoste e bastonate.
S'avvicinâr donde il romor venia,
E di dietro alle piante una gran schiera
Vider d'Asini carchi in sulla via,
La qual radea l'estremità del bosco,
Ove già divenia men spesso e fosco.
Al sole ardente, sull'adusta arena
Sotto gli enormi pesi a orecchi bassi,
Grondanti di sudor, traendo appena
Il fiato, sen venano a lenti passi;
I condottieri, a colpi risonanti,
E bestemmiando li spingeano avanti.
Su quelle bestie affaticate e stanche,
E se ogni colpo non le atterra e ammazza,
Le natiche fa lor torcere e l'anche,
Ed è miracol se non crepan tutte
Dalla fatica e dal baston distrutte.
All'ingrato spettacolo di quelli
Trattamenti durissimi inumani,
Che facevano ai docili Asinelli
I condottieri lor aspri e villani,
Pietà mista di sdegno infin le fiere
Provar, quantunque alla pietà straniere.
E la Tigre propose, e fu d'avviso
Di doversi protegger quelle bestie,
E assaltando i custodi all'improvviso
Sottrarle a sì crudeli aspre molestie;
E che dovean dell'altre bestie al pari
Liberi dichiararsi anche i Somari.
E acciò vie più s'accresca e si dilati
Di libertà l'imperscrittibil regno,
Ognor con nuovi amici ed alleati,
Progetto util propongo e di noi degno,
Che debbano con pubblico decreto
Gli Asini riunirsi al nostro ceto.
Ma la parola allor prese il Leone,
E dichiarassi di tutt'altra idea;
Egli era delle bestie, e possedea
Un certo filosofico talento,
Venne fuor con un bel ragionamento.
E incominciò: Della preopinante
La nobile ferocia io lodo e approvo;
Suo vigor, suo coraggio e di sue tante
Prodezze il vanto a niun di noi è nuovo;
Badar che, se si fa, si faccia bene.
Non tutti gli animali, o amici cari,
Per apprezzar la libertà son fatti;
Vuolci energia nell'animo, e i Somari
Fin dall'origin loro assuefatti
Basto e soma a portar vili e codardi,
Non son, come siam noi, strenui e gagliardi.
Alla fatica ed al bastone avvezzo
Sotto la schiavitù che oppresso il tiene,
Di libertà l'Asino ignora il prezzo,
Perocché non distingue il mal dal bene.
Invecchiata abitudine i più esperti,
Non che i Somar stupidi rende e inerti.
E aggiungo altro politico riflesso,
Che, per costume e per natura ignavo,
Nè capace a difendere sè stesso,
Come suol animal valente e bravo,
L'Asin da noi dovendo esser difeso,
Non d'util ci sarebbe, ma di peso.
Di quel forte animal nessuno ardio,
Ai savii detti contraddir. Ma intanto,
Per bastonar qualche Asino restio,
Scorsi eran gli asinai più avanti; e alquanto
Indietro, e separato un po' dal branco
Un'Asino seguía spossato e stanco.
All'Orso, che buffone per natura
Era il pagliaccio della compagnia,
O per far burla o per mostrar bravura,
Venne in capo una strana fantasia:
D'improvviso quell'Asino pel collo
Chiappò, e dentro il bosco trascinollo.
A quel tratto di spirito dell'Orso
Molto il Leon non parve applauso fare;
Ma quegli tenne a lui questo discorso
Tra noi lasciando, ci potrà spassare
Colla musica sua; ardito e destro
Diverrà tosto; io gli farò il maestro;
Cangiar farogli istinto, indole e voglia:
Non io per dir, ma tutti san, tu il sai,
Per fisica e moral, per qualsivoglia
Pubblica istruzion son forte assai.
Mentre l'Orso vantavasi in tal guisa
L'altre belve crepavan dalle risa.
La Pantera, che far la spiritosa
Amava spesso, e la motteggiatrice,
Sì alle bestie, che all'uom natural cosa,
Si volge all'Orso sorridendo, e dice
Permetti pur che d'amicizia un sfogo
Io faccia de' Somari al pedagogo;
Da te, so ben, che tutto attender devo
Dell'Asino col tuo vasto talento
Farai, lo so, maraviglioso allievo;
Ma dagli Orsi educati io non rammento
Asini aver mai visti a tempo mio
E ghignando il Leon: Ben gli ho vist'io,
Ma il povero Asinel, che si vedea
Da quell'orrende fiere attorniato,
Dovere a ogni momento esser sbranato
E l'Orso allor, che protettor sen rese,
Amicamente a confortarlo prese.
Non paventar, diceva, o Somarello,
Non paventar, tu qui fra noi potrai
Viver liberamente e da fratello.
Mangerai, beverai, passeggerai
Allegro dunque stattene e tranquillo,
E facci udire un qualche tuo bel trillo.
Signori, disse il timido giumento,
Che al tuon franco e deciso, e alle maniere,
Ai sguardi, ai moti, agli atti, al portamento,
Alle nappute code, alle criniere,
E al pel lungo e dipinto a più colori,
Li credea fra le bestie gran signori;
Signori, io sono un povero Somaro
Senza spirito alcun, senza talenti,
Nè buono egual sarei, nè buon scolaro;
Troppo le nostre idee son differenti;
Lasciate per pietà, lasciate ch'io
A far l'Asino torni al branco mio.
Per parentesi far riflessione
Qui deggio, che, benchè con tal modestia
L'Asin parlasse in quella occasione,
Anch'egli è in fondo una superba bestia;
Ma ognor coi più potenti e coi più forti
A bassezze e viltadi avvien si porti.
Dunque, la Tigre allor disse sdegnosa,
Dunque alla libertà preferir puoi
La schiavitù più dura e vergognosa,
E, che dagli asinai padroni tuoi
Irremissibilmente ti sian date
Mattina e sera un carco di legnate?
Scusa, madama, l'Asino ripiglia,
Quei che son, che saranno, e che son stati
Di tutta quanta l'asinil famiglia,
Furon, sono, e saranno bastonati
E vuoi fra tutti della stirpe mia,
Ch'io solo bastonato, io sol non sia?
Un buon pasto, interruppe, la Pantera,
Voi troverete preparato almeno
Al vostro albergo in ritornar la sera.
Cui l'Asin: Nostro pasto e un po' di fieno,
O strame, o paglia putrefatta e guasta,
E alcuna volta un po' di crusca, e basta.
Vero è che l'asinaio e beve e mangia
Frutta, erbe, vin, che noi portiamo a casa,
E spesso il cibo e le bevande cangia;
Ma se talun di noi soltanto annasa
Piatto alcun destinato alla sua cena,
Del temerario ardir paga la pena.
Il grande onor d'assistergli alla mensa
Qualche gatto buffon, qualche can grosso
Gode soltanto, a cui il padron dispensa
Talor tozzo di pane, ovver qualche osso;
Ma tal distinzion, onor sì belli
Non sono per li poveri Asinelli.
E la Pantera: Oh che animal melenso!
Torpore tal non te lo passo liscio.
Hai tu vita? hai tu moto? hai sangue? hai senso?
O nelle vene hai tu per sangue piscio?
Nulla sente quell'anima di stoppa
Per Dio, cotanta stupidezza è troppa!
Inver rider mi fai colla tua furia,
Pantera mia, disse il Leon, deh cessa
Dallo stupirti! benefizio o ingiuria
È per gli Asini ognor la cosa stessa.
Ma intanto, non badando a chicchessia,
L'Asin lasciava dire, e proseguía.
Accordo che il padron spesso un pochetto
Partecipar dell'asino anch'ei pare,
Ma gli Asin di più credito e rispetto
Sostengon che un padron non può sbagliare:
Ond'io docil rinunzio ai dubbi miei.
E l'Orso: In vero un gran buffon tu sei.
Vero è che talor parmi tristo e brutto
Di schiavitù lo stato, in cui rimango;
Ma noi siam nulla, ed il padrone è tutto;
Essi son oro, e noi siam feccia e fango:
Onde venero anch'io la schiavitù.
E l'Orso: In vero un gran buffon sei tu,
Ma per compenso in certi dì di festa,
E pennacchi in gran pompa, e campanelli
Ci si appiccano al collo, e in sulla testa,
E fiocchi, e nappe, e ciondoli, e bindelli,
Che lusingan la nostra ambizione:
E l'Orso: E sempre sei un gran buffone.
Più de' discorsi tuoi stimo i tuoi ragli;
Tu dunque per un po' di fieno o strame,
E per quei fiocchi, ciondoli e sonagli
Tranquillo ognor soffri il baston, la fame:
Ti compiango non già schiavo in vederti;
Ma ti compiango sol, perché lo merti.
L'Asin che in mezzo a quei ragionamenti
Vedeasi ancor fra quei signori illeso,
Calmati alquanto i primi suoi spaventi,
Un po' più di coraggio aveva preso,
Di tutta in general l'Asineria.
Poiché con quei dialoghi e discorsi
Credea d’aver convinti e persuasi
Le Pantere, i Leon, le Tigri e gli Orsi;
Onde, come accadere in tali casi
Suol fra gli uomini ancor, sè sovra ogni altra
Credea saputo, spiritoso e scaltro.
E a mente richiamatosi parecchi
Lochi topici, e termin ripetuti
Dai compagni, e dagli Asini più vecchi,
Rizzò l'orecchia, e in atti sostenuti
Si pose in gravità per farsi onore,
E darsi l'aria d'Asino oratore.
E incominciò: A che far tanto chiasso
Perché l'Asino all'uom vive sommesso,
Se ovunque il guardo, ovunque volgo il passo
Tanti e tanti vegg'io che fan lo stesso?
Perchè solo rimproveri sì amari
Si scarican su i poveri Somari?
Non veggiam'il Camel grande e gropputo,
Non veggiamo il magnanimo Cavallo,
La Pecora, la Capra, il Bue cornuto,
Che al collo sotto il giogo ha fatto il callo,
E tanti altri animai ch'or io non nomo,
Al dispotismo soggiacer dell'uomo?
Noi sappiam che a ogni specie d'animali
Dal destino assegnossi il proprio stato
Restin tranquilli, e se non restan tali,
Son reluttanti agli ordini del fato;
Se avvien che nel suo stato ognun guai trovi,
Perchè cangiando, in traccia andar di nuovi?
Dunque il meglio in cercar mai non si dee
La pubblica turbar tranquillità.
E l'Orso allor: Giusta codeste idee
Sempre il pubblico tuo soffrir dovrà
L'arbitrario baston; ma pur non veggio,
Meglio in cercar, che può temer di peggio.
Non debbon no perturbator protervi
La tranquillità pubblica turbare;
Ma se il duro asinaio a cui tu servi,
A capiccio e perché così a lui pare,
Mena il baston sull'asinina turba,
La lor tranquillità egli è che turba.
Piano un tantino, interrompendo l'Orso,
L'Asino esclama allor, piano un tantino;
Diretto è a traviar cotal discorso
L'opinion del pubblico asinino,
E puzza alquanto un simil argomento
Di rivoluzionario istigamento.
Ma tolga il Ciel, che mai di noi si dica
Che ribelli ai legittimo padrone
Siam divenuti per scansar fatica,
O per timor di frusta e di bastone.
Noi sian di buona fe, fidi e sicuri,
In somma Asini veri, Asini puri.
Mentre con grand'impegno e gran calore,
Avanti la salvatica assemblea,
la disputa fra l'Asino oratore
Alle grida di quei disputatori
Accorser altre fiere, altri uditori.
L'Asino settator parve agli astanti
Di dottrine dannevoli e non sane
Troppo l'idee di lui, troppo distanti
Parvero dall'idee repubblicane;
E domandato fu altamente attorno
Di rappellarlo all'ordine del giorno.
Ma la Tigre crede che inteso a fare
Controrivoluzion l'Asino fosse:
Con nari enfiate incominciò a soffiare;
E con pupille come brace rosse,
E più soffrire il temerario e folle
Perorar di quell'Asino non volle.
Con i fremiti suoi pria l'interruppe:
E fino a quando resterà impunita,
In tuon tronco e confuso alfin proruppe,
Di cotestui l'impertinenza ardita?
No, ch'io non soffrirolla, onde i Somari
Non osin più insultar le nostre pari
In questo dir la formidabil fiera,
Che terribil nell'ira estremamente
E sanguinaria e terrorista ell'era,
L'unghia spiegando ed arruotando il dente,
Sul tremante Asinel lanciossi a un tratto,
Impetuosa di sbranarlo in atto.
L'Asin perduto allor quel po' di pria
Efimero ed apocrifo ardimento,
Torna alla natural vigliaccheria
Tremava tutto come foglia al vento,
Col muso a terra e colle orecchie basse.
E la fera attendea, che lo sbranasse.
E se non era che opportuno venne
Il Leon generoso in suo sussidio,
Ed abbrancò la Tigre, e la ritenne
Dal commetter quel brutto asinicidio,
L'Asin periva, e in lui l'Asineria
Il suo grand'orator perduto avria.
E non tel diss'io già, quel fier dicea,
Che non per libertà gli Asin son fatti?
Requisiti non n'han, non n'hanno idea,
Ma non fia mai però, che tinga e imbratti,
O amica Tigre, una par tua vilmente,
Nell'asinino sangue, e l'ugna e il dente.
Non è de' sdegni tuoi degno un Somaro;
Colui, giusta il comun stile asinesco,
Ciò che ode sol ripete, affatto ignaro
Della storia e del jus animalesco;
E debbe un animal sì sciocco e vile
Più in noi destar compassion che bile.
A cui la Tigre: E non udisti?... Ho inteso,
Riprese quei, ma ogniqualvolta ho udito,
Ch'Asino schiavo abbia talor preteso
Di filosofeggiar, m'ha divertito;
Perché quel detto antico io so, tu il sai,
Raglio d'Asino al ciel non giunse mai.
Si rimandi quell'Asino frai suoi,
Senza recargli altra molestia o noia;
Affratellarsi non può mai con noi
Vil schiavo: Asino visse, Asino muoia:
Chè un Asino non può cangiar mai tempre,
Ed è in qualunque stato Asino sempre.
La Tigre allor, frenata un po' la rabbia,
Sempre alle conseguenze, onde non abbia
Alla pubblica causa un dì cotesto
Moderantismo a divenir funesto.
E poiché fra le fere un fanatismo
V'era allor tra due celebri partiti,
La Pantera, inclinata al terrorismo,
Applaudì della Tigre ai detti arditi;
E col grugnito e il mormorio disposto
L'Orso mostrossi pel partito opposto.
E sollevossi un tal bisbiglio sordo,
E nella parte destra e nella manca,
Che color non mostrava esser d'accordo
E il dente digrignar, scuoter la branca,
E un mal sopito tacito fermento
Scorgeasi in tutto quel feroce armento.
Pur del Leone al detto ognun si tacque,
E tutti il rispettar come un comando.
L'Asin lasciaron ire ove a lui piacque,
Che saltando, ragghiando e spetezzando,
Allegro, a orecchie ritte e coda arcata,
Corse de' suoi compagni alla brigata.
Poiché il fiero ringhiar, gli urli, il ruggito,
L'unghie, le zanne, il fremito, i clamori
L'avean per cotal guisa impaurito,
Che sua sorte credea d'esserne fuori
Misero! e non sapea che incontro gia
Alla sventura sua più cruda e ria.
Chè l'asinaio, il qual cercato invano
lnfin allor l'avea per ogni intorno,
Sì baldanzosamente far ritorno,
Stringe a due man la mazza, ed arrabbiato
Vagli incontro, per dargli il ben tornato;
E sì solenni, e sì spietate e tante
Sul muso e sul groppon busse gli dette,
Che non Asino mai n'ebbe altrettante,
Nè dal menar mazzate si ristette;
Finchè con una in testa non lo prese,
Che immobil, semivivo al suol lo stese.
Al condottier l'acerbo caso increbbe
Per lo profitto che n'avvia perduto
Se quei peria, non per pietà che n'ebbe;
Onde tosto si mise a dargli aiuto,
Traendol per la coda a tutta forza,
E in pie' levarlo il più che può si sforza;
Ma poichè vano alfine, e senza effetto
Riuscir vide ogni suo sforzo, ogni opra,
Calci gli avventa, e con brutal dispetto
La cruda mazza pur di nuovo adopra
Sul misero Asinel, che si moria,
E spirante lo lascia in sulla via.
Delle fere lo stuol fermato s'era
A riguardar la scena da lontano,
Rabbiosa allor la Tigre e la Pantera,
A vista del crudele atto villano,
Volean contro quel vil correr veloci,
Barbarie per punir cotanto atroci.
Ma anche allor ritenendole il Leone;
Frenate, disse, il generoso ardire,
Non diamo agl'intriganti occasione,
Nè pretesto ai malevoli di dire
Che c'ingeriamo ne' governi altrui,
Come l'uom dice, e dir potriasi a lui.
Col frequente accader di tali casi,
Forse ancora per gli Asini verranno
Del loro ben, dell'util lor saranno,
Lasciam che più sicuro e più perfetto
Da sè la medicina opri l'effetto.
E l'asinaio essendo già partito,
S'appressàr dove l'Asino giacea,
Per far sull'accaduto alcun quesito;
Ma l'Asino parlar più non potea.
E l'Orso, allor di consolarlo in vece,
Agro, e dolce rimprovero gli fece:
Assai, disse, rincrescemi il tuo stato;
Ma ciò avvien perché sei troppo cocciuto:
Se, com'io proponea, fra noi restato
Tu fossi, ciò non ti saria accaduto.
Ma quei, raccolto un tenue fiato, fisse
In lui le luci moribonde, e disse:
Lasciami, fratel caro, il luminoso
Onore di morir sotto il bastone;
Come i nostri avi, il Ciel gli abbia in riposo;
Un Asino fedele al suo padrone
Di baston dee morire... E in dir così,
Tirò l'ultimo peto, e poi morì.
Scorsi un paio di giorni erano appena
Che di là ripassò l'asinicida,
E l'Asino vedendo in sull'arena
Morto giacer: Se inutil fosti, ei grida,
In vita tua consumator di paglia,
Tua morte alcun profitto almen mi vaglia.
Così colui dicendo, uffizio infame:
Si pone a scorticar la bestia morta;
E in preda ai corvi poi lascia il carname,
E la pelle in trofeo seco si porta.
Nè mai dall'asinaio altro conforto
Attenda Asino schiavo, o vivo o morto.