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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Arsace a sollevar dalla mortale
Melancolia crudel, che sì l’afflisse,
Senza sapersen la cagion del male,
Che non si fece mai, che non si disse?
Tutta la facoltà medicinale
Pillole, droghe e farmachi prescrisse;
E tutti i venturieri e gl'impostori
Divenuti eran medici e dottori.
S'immaginar spettacoli novelli;
E piacer ricercati e pellegrini;
Ed uno fu dei lor pensier più belli
Di far venir d'Europa i burattini,
E da Napoli i cola e i polcinelli,
E da Bergamo i zanni e gli arlecchini;
E se altri sono in altre regioni
Più luminosi e celebri buffoni.
Ma tutti eran rimedii incerti e vaghi,
E vani espedienti e senza effetto;
Onde per ritrovar cosa che appaghi
Le speranze de' sudditi e l'affetto,
Fu convocata l'assemblea de' maghi,
A cui credeasi risedesse in petto
D'ignote cose la scienza arcana
Superiore a intelligenza umana.
Talor, ma raro assai, quell'adunanza
Soleasi unir con potestà plenaria
In casi di grandissima importanza,
O in qualche occasion straordinaria,
O grave perigliosa circostanza,
Che indispensabil renda e necessaria
Determinazion pronta, e pront'ordine
Per por riparo a qualche gran disordine.
Così i Greci in affar di conseguenza
Consultavan gli oracoli dei numi;
Così i Romani, giusta l'occorrenza,
Delle Sibille aprivano i volumi;
Così in casi talor di coscienza
Imploriamo anche noi consiglio e lumi
Da paffuti dottor, per lo più frati
Il grave esterior, le rase chiome
Dan lor d'opinion l'alto vantaggio,
Con barbe lunghe sino al basso addome
Venìano lenti lenti; e al lor passaggio
La man sul petto il popol ponsi, come
Par suole in segno di rispetto e omaggio;
Che color riveriti e riguardati
Eran come del Cielo i deputati.
Io dir non vi saprei per qual sventura,
Da noi credito ottien più l'impostura,
che la semplice e nuda verità;
Forse non se le bada e non si cura
Per quella stessa sua semplicità,
E il tren dell'impostor colpisce gli occhi,
Appaga i sensi e impon rispetto ai sciocchi.
In un ampio salon quei babbuassi
Siedonsi a corte, e custodisce e guarda
Truppa i passaggi attorno, e all'erta stassi
Brusca, e indietro a respingere non tarda
Chiunque colà volga incauto i passi,
A colpi di spuntone e d'alabarda.
Di soldatesca a duri modi avvezza
Son privilegi impertinenza e asprezza.
Quali oracoli allor aprir la bocca
Quei vasi di saper; ma non l'apriro
Che per dir cosa stravagante e sciocca.
D'ogni scempiezza e d'ogni lor deliro
Non vi farò noiosa filastrocca;
Dirovvi sol che a maraviglia uniro
A interesse, ad orgoglio, ad arroganza
La superstizion e l'ignoranza.
Chi disse, che il sultano una moschea
Della più ancor delle moschee più belle
Al gran profeta edificar dovea;
E chi doversi consultar le stelle,
E che al sultan trovarsi sol potea
Rimedio dalla inspezion di quelle;
Chi disse, acciò il sultan s'allegri e svaghi,
Il governo lasciar doversi ai maghi
Chi disse, ch'ire a visitar la Mecca
Dee lo stesso sultan, ma da suo pari,
Cioè non far visita magna e secca;
Ma seco aver cameli e dromedari
Carchi di doni, e che d'Ormus la zecca
Quanti occorran fornir debba danari;
E se alla Mecca al mal la medicina
Non troverà, la troverà a Medina.
Ma il venerando Abumelek già sorge,
Ed alto arcano espettorar già vuole.
Nell'adunanza al sorger suo si scorge
Muto rispetto, ed alle sue parole
Riverente ciascun l'orecchia porge.
Ormus, l'Eufrate, il Tigri, e le disperse
Nazion sulle sponde Arabe e Perse.
Il guardo pria solleva al ciel, poi dice
Solo indicar ciò che si cerca, io posso.
Al sultan ricovrar soltanto lice
La sua primiera ilarità, se indosso
La camicia si pon d'un uom felice.
Solo per modo tal da lui rimosso
Fia l'estremo languor che sì l'affanna.
Chi altri rimedii a lui propon, l'inganna.
Chi trovar tal camicia avrà la sorte
Gran premio s'abbia, ed il sultan l'ammetta
Fra li primari satrapi di corte.
Tal camicia si cerchi, a che s'aspetta?
Si trovi tosto ed al sultan si porte,
E calda calda indosso se gli metta;
E tosto che il sultan indosso avralla
Tornerà lieto: Abumelek non falla.
D'Abumelek alla proposta strana
Ciascun s'acqueta e replicar non osa;
E del gran mago la dottrina arcana
Passò per certa anzi infallibil cosa;
E ciaschedun lodò la sovrumana
Virtù della camicia portentosa,
Ciascun chiose vi fa, ciascun ne parla.
Resta solo a saper, dove trovarla.
Prima in Ormus e in ogni suo contorno
Cercàr felici, e non trovàr niente;
Onde d'Asia spedir per ogni intorno
E satrapi e bascià, chi ad occidente,
E chi a settentrion, chi a mezzogiorno,
E chi all'ampie contrade d'oriente.
Color partiro e scorser quinci e quindi
Persi, Fenici, Armeni, Arabi ed Indi.
Vider d'orgoglio turgidi monarchi;
Ch'eterna ambizion rode e divora;
Viderli ognor del pubblico odio carchi,
Tremanti e mai sicuri in lor dimora,
E a cui dei veri ben gli Dei fur parchi.
Falso splendor, che i vani oggetti indora,
Sui mortali elevarli invan pretende,
E fra loro i più miseri li rende.
Vider chi profondea ricchezze immense,
ln lusso, in feste, in equipaggi, in mense;
Ma dell'oro i satelliti timori,
E d'ammassar l'avide voglie intense
Agitavano il cor dei possessori;
E la noia maggior d'ogn'altra pena
Lor la vita amareggia ed avvelena.
Un dervis poi trovàr, di quel turchesco
Di cui l'opposto fe' di san Francesco.
L'uno è di penitenza e di rigore,
L’altro è un ordin d'un genere burlesco.
Che qui ciascun secondo il proprio umore
Giudichi, in quanto a me son buon cattolico
Ma l'allegro amo più che il melancolico.
Or come aver colui la gioia in viso,
E negli atti lo scherzo ognor fu visto,
E sulle labbra la facezia e il riso,
Per lo sultano addolorato e tristo
I due bascià d'Ormus furon d'avviso
Della camicia sua di far acquisto;
Ma poi s'avvider ch'arte, e non natura
Quella ancor sostenea gaia impostura.
Chi vantava splendor di ceppo antico,
E le fumose immagini degli avi,
E profusi favor di prence amico,
E privilegi e onor, tracolle e chiavi;
Ma dell'invidia e dell'astuto intrico
E di lor vanità vittime e schiavi;
Sollievo certamente al mesto sire
Le lor camicie non potean fornire.
Chi fra vezzi lascivi e lusinghieri
Vita traea voluttuosa e molle;
Ma l'eccesso del vizio e dei piaceri,
Gli fiacca i sensi ed il vigor gli tolle,
E fra sospetti immaginati e veri
Per gelosia spregevol fassi e folle,
Nè le camicie loro al tristo tedio
D'Arsace offrir potranno alcun rimedio.
Altri col perspicace alto intelletto
L'opre e gli arcani di natura apprese,
E quanto in ogni età fu fatto e detto;
Onde fra i dotti celebre si rese
Pien di filosofia la lingua e il petto;
Ma intollerante zel di mira il prese,
La letteraria cabala, il livore,
La possente ignoranza e il vecchio errore.
Massa infelice è il resto de' viventi
Allo scherno, all'insulto ed all'oltraggio
Esposta ognor de' forti e de' potenti;
Onde nella fatica e nel servaggio
Mena dì mesti fra miserie e stenti;
E dal penoso lor lungo viaggio
Trar non avean potuto alcun profitto
I messaggieri del sultano afflitto.
O uomini felici, ove voi siete
fate soggiorno sulla terra ancora,
O noiati di noi sdegnato avete
Coi mortali comune aver dimora?
E cercaste spirar aure più liete?
E immersi in quel pensier torbido e tetro
Tornavan mesti e mal contenti indietro.
Dall'Egeo sino all'Indico oceano
Per borghi, per castella e per città
La camicia fatal cercata invano,
Che reca al possessor felicità,
A far fedel rapporto al lor sovrano
Ritornavano i satrapi e i bascià,
Che la camicia tanto ricercata
Del felice mortal non s'è trovata.
Così al can notator talun per spasso
Getta pietra sul fiume, e il can nell'onda
Per addentarla gettasi, ma il sasso
Sotto acqua rotolandosi s'affonda.
Indarno il can lo cerca, onde alfin lasso
Torna al padron che aspetta in sulla sponda;
E a lui par che confuso e sconsolato,
Dica, Caro padron, non l'ho trovato.Dunque, fra lor dicean cammin facendo
Abumelek, che ne' prestigi suoi
Fu infallibile ognor, grande e stupendo
Oracol di magia, ei stesso poi
Sì crudelmente or vassi divertendo
Con tai ciance a ingannar Arsace e noi,
Noi bracchi di chimerica camicia,
D'ambasciador col titolo invernicia?
La costa occidental di Natolia,
E dell'Eussin le region rimote,
E d'entrambe le Armenie, e di Soría
Le città scorse più famose e note
Un paio di quei satrapi venia,
Andar vedendo le speranze vòte,
Per imbarcarsi a Bassora, e per mare
Alla reggia d'Ormus di là passare.
Dell'Eufrate perciò varcàr le rive,
E nella terra entrar che la Scrittura
Nel libro della Genesi descrive,
Ov'aura allor spirò nitida e pura,
E far delizie d'amarezza prive,
La prima madre e il primo genitore
Visser felici almen ventiquattr'ore.
Anzi un arabo autor perito e dottoIn ciò che ha di più raro il tempo antico(Che però ciecamente io non adotto),
Marca il sito preciso, ov'era il fico
Che fra noi tanto mal poscia ha prodotto.
Io non vo' garantirvelo; ma dico
Che quella terra oltre ogni dir feconda
Di bellissimi fichi anch'oggi abbonda.
Progredendo incontràr valletta amena,
D'onde esalava odor di Paradiso,
Di campestri vaghezze adorna e piena.
Ivi un pastor sopra l'erbetta assiso
Gía modulando boscareccia avena.
Due villanelle leggiadrette in viso
Presso lui canestrin con mano industre
Fean di giunco e di vimine palustre.
Il fido can giace al pastore accanto,
E svelto, agil di membra e vigoroso
Contadinotto e danza e canta intanto
Avanti a lor sul praticello erboso,
E coro fan le villanelle al canto
Con gaio intercalar melodioso,
E di letizia il bosco e i colli attorno
E tutto empian quel pastoral soggiorno.
Soffermansi i due messi in sul sentiero
Del silvestre spettacolo all'aspetto.
La pura gioia ed il contento vero
Di quella gente avventurosa in petto
Trasfonde ai due messaggi un lusinghiero
Non conosciuto pria dolce diletto,
E ad osservar quel boscareccio crocchio
Stansi senza aprir bocca e batter'occhio.
Stati alcun tempo taciti ed attenti,
Al compagno un di lor fe' manifesta
L'emozion che prova in cor: Non senti
Tenero senso, gli dicea, che desta
La gioconda armonia di quei concenti
A veder tanta gioia e tanta festa,
Caro satrapo mio, di', che ne dici?
Color non si diria, che son felici?
Ma come in gente mai povera e sbricia
Possibil fia che un giubilo si veggia,
Che non si suol fra nobiltà patricia,
E in gran città trovar e in alta reggia?
Possibil fìa che la fatal camicia
Cercar fra alberghi pastoral si deggia,
Che in van finor fra le mollezze e gli agi
Trovar sperossi e in splendidi palagi?
Amico, quei risponde, io tel confesso,
Sorpreso a primo colpo anch'io restai;
Di cotal gente l'esultanza io stesso
Con maraviglia e con piacer mirai;
Ma più maturo poi fatto riflesso,
Vidi e compresi ben, che non può mai
Gente d'ogni agio priva e altrui soggetta
Aver felicità solida e schietta.
Di rozzi abitator di boschi e valli
Quelle le usate son rustiche ferie;
Ma non già di color i canti e i balli
Son vere gioie e contentezze serie;
Ma rapiti momenti ed intervalli,
Che frappongono ai stenti e alle miserie,
E dopo quel brevissimo solazzo
Tornano alla fatica e allo strappazzo.
Così se asino ancor la fune snoda,
A cui legato lo lasciò il villano;
Con ritte orecchie e con arcata coda
Saltar lo vedi sull'erboso piano;
E ragghia e scherza, e ti parrà che goda
Ma dopo il breve ruzzo e il gaudio vano
Di nuovo il vettural lo sottopone
Alla fune, alla soma ed al bastone.
Troppo, satrapo mio, l'altro ripiglia,
Fitte in capo ti stan l'idee di corte,
Troppo quel tuono al cortigian somiglia,
Qualunque stato abbia destino o sorte
Assegnato a ciascun che si consiglia
Colla ragion, sa ben come sopporte
Privazion di ciò ch'agi tu appelli,
Nè sua felicità ripone in quelli.
Poich'ei fatti ebbe questi e altri riflessi,
D'interrogar per ischiarir le cose
Sul loro stato quei pastori istessi
Al cortigiano satrapo propose;
Onde mezzi non sieno e modi omessi
Di pervenire al ver; e quei rispose
Giacché così filosofar t'aggrada,
Disinganniam le astratte idee: si vada.
Sovr'essi, poiché viderli appressare,
Fissár gli sguardi, e li stimàr coloro
Ai gran turbanti, all'abito talare
E al satrapesco esterïor decoro
Personaggi di rango e d'alto affare,
E interrupper la danza e i canti loro,
Non sapendo qual fin, qual interesse
Satrapi e cortigian colà traesse.
Perchè, o pastor, diceano i messaggieri,
Perchè per noi cessar? noi gl'innocenti
A turbar non veniam, vostri piaceri;
Ditene sol quai fausti avvenimenti
Qual ragion (poiché qui noi siam stranieri)
Sì lieti oggi vi rende e sì contenti?
E da quei che la danza avea sospesa
Franca risposta ai messagier fu resa.
Chiunque siate voi, non già vedeste
Rare cose fra noi straordinarie.
Pastorali abitudini son queste,
E costumanze solite ordinarie;
Onde non dure sembranci e moleste
Le cure nostre giornaliere e varie.
E quai cure elle son? chi ve le impose?
Richieser quelli, e il villanel rispose
Stranier, noi grazie al Ciel, di gran signori
Al dominio il destin non sottopone.
Siam poveri, ma liberi pastori.
Non qui d'avaro burbero padrone
Denno il lusso nudrir gli altrui sudori,
Nè qui gli ordini altieri alcun c'impone.
Non ci turbano il cor avide voglie,
E quel poco che abbiam, nessun cel toglie.
L'industrioso provvido cultore
Dolce compenso della sua fatica
Gode, quando al benefico favore
E di pioggia feconda e d'aura amica
Dal suol vede spuntar l'erbetta e il fiore,
Crescer le piante e biondeggiar la spica,
E in copia il nudrimento uscir dal seno
Dell'ubertoso fertile terreno.
Guidiamo ai paschi or sull'aprico colle
Le pecorelle, or nell'ombrosa valle;
Poscia del sole al tramontar satolle
In rozze le chiudiamo umili stalle,
E fornisconci il latte e il cacio molle,
E lane e pelli, onde coprir le spalle.
Talor proviam, se a noi di trar riesce
Nelle reti gli augelli, all'amo il pesce.
Sol queste son nostre ricchezze. Figlio
Di quel pastor che là vedete, io sono.
Fresco e robusto è ancor: al suo consiglio,
Poiché sempre il trovai sensato e buono,
E con profitto e con piacer m'appiglio.
Allorché Mostanser era sul trono
Fu in Bagdad giovinetto, e ad anni venti,
Era già guardian dei regii armenti.
Ma de' ministri l'alterigia stolta
Sdegnando, del sultan dopo la morte
Qua venne; e delle iniquità talvolta
Della città parlando e della corte,
Coll'esempio la voglia a noi ne ha tolta,
E contenti viviam di nostra sorte.
Le due che assise son su quell'erbosa
Piaggia, una è suora mia, l'altra è mia sposa.
Il colto suol ci nutre e ci sostenta,
L'opra di nostre man di che abbisogna
Fornisce ognun di noi, nè il più ci tenta;
Nè di ammassar e primeggiar s'agogna,
Desir, che tanto mal tra voi fomenta.
La danza, il canto, il suon della zampogna
Dopo l'usato giornalier lavoro
A noi son di sollievo e di ristoro.
Stupiti i due bascià davangli ascolto,
Domandàr poscia: E nulla brami o speri
E quegli: Ho l'uopo mio, nè cerco il molto.
Restar mutoli alquanto, e fra pensieri
Fiso un l'altro guardandosi sul volto;
Al pastor poi rivolti i messaggieri
Dissergli alfin: Dunque tu sei felice?
E il pastor rispondeva: Il cor mel dice.
Ambo allor se gli stringono alla vita,
E di dosso il saion traggongli intanto.
Agli assassin, grid'ei, correte, aita!
E alte grida si levano e gran pianto
In tutta la famiglia sbigottita.
E i bascià: Non temer, cedi soltanto
La tua camicia e guiderdon ne avrai.
Ed ei: camicia a me? non l'ebbi mai.
In fatti il ricercarono, ma delusi
Trovàr ch'ei non avea camicia indosso;
Onde mesti partivansi e confusi,
E ch'esister potesse un grande e grosso
Garzon senza camicia contro gli usi
Comuni, parea lor un paradosso;
E credendo ottenuto aver l'intento
Vider svanire ogni speranza al vento.
Tornati dunque a Ormus con tristi auspici
Sparser della camicia i cercatori,
Che gli astri ai voti lor non furo amici,
E che delle camicie i possessori.
Come all'esterno appar, non son felici,
Sebben gli dicon tai gli adulatori,
E il volgo come tai li cole e officia.
Quei che felici son, non han camicia.