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Poichè impresi a narrar stupende cose
Della più oscura antichità rimota,
Che strane parran forse e favolose,
Vo' la vera sorgente a voi far nota
Ond'io le trassi; perché in mio pensiero
Non cadde mai di farvene mistero.
A pochi de' cronologi più esatti
Son noti d'un autor preadamita
I computi, ch'ei dice d'aver tratti
Da un poeta antichissimo ch'ei cita
E fu, giusta la sua cronologia,
Seicentomila e più secoli pria.
L'opre dell'antichissimo scrittore
In un incendio semi-generale,
Centomil'anni almen, salvo ogni errore,
Perir dopo sua morte naturale;
Nè fa mica stupor che ciò accadesse,
In tabelle di legno essendo impresse.
In quell'incendio orribil spaventoso
Ad una biblioteca il foco giunse
D'un letterato a quei tempi famoso,
E con molte opre, quelle ancor consunse
Del citato da noi poeta critico
Storiografo-cronologo-politico.
Che quel bruciato computo parlava
D'una rivoluzion della natura,
Che peraltro non ben specificava
Onde non si sapea se la produsse
O acqua, o fuoco, o cosa diavol fusse.
Si sapea sol tre cento mila e cento
Secoli pria la cosa esser successa,
E che in quel general sconvolgimento
Cangiò natura la natura stessa,
E tutti gli animai, che come noi
Parlavan pria, più non parlaron poi.
Ma invece di loquela altri il ruggito,Altri il ragghio, altri l'urlo, altri ebbe il fischio,
Chi latrato, chi strido, e chi muggito,
Chi il gracchiar, chi il soffiar, chi un suono mischio;
Ma ognuno istinto ed indole ritenne,
O gusto tal che da natura ottenne.
Pur bestie conosciam che ben sovente
Han poi ripreso il lor linguaggio antico;
Parlando offerse il tentator serpente
Vietato frutto, o mela fosse o fico,
Ad Eva che sedotta Adam sedusse,
Lo che produsse poi quel che produsse.
Ne mi si venga fuor con la Scrittura,
Che Satanasso per parlar con Eva
Di donna a un tempo e di serpente aveva
Diavolo, donna, e serpe a far parola
Furon tre specie, e una persona sola.
Qual incredulo è mai che oggi non creda
Che parlasse Nabuc cangiato in bove?
Con Europa parlò, parlò con Leda,
Quando in cigno, ed in bue cangiossi Giove;
E talor forse forse al par di loro
D'Apuleio parlò l'Asino d'oro.
Tutte quante parlar le bestie in cui
Incarnossi Visnù l'indico nume:
Di render vaticini arcani e bui
Deificate bestie ebber costume.
Nè annali mai rivolgo, antichi o nuovi
Che parlanti animali io non vi trovi.
Ne qui favellerò del Simorganca 2,
Quel parlator maraviglioso uccello,
Che tanto oprò col rostro e colla branca;
Quando il gran Tamurat montò su quello,
E i giganti sconfisse il Perso eroe,
Che fu il terror delle contrade eoe.
Nè il bue 3 di Livio rammentar qui voglio,
Nè il can parlante al tempo di Tarquinio,
Nè il corvo che applaudì nel Campidoglio
Del tiranno di Roma all'assassinio;
L'irco di Friso ed il caval d'Achille,
E mille ancor simili esempi e mille,
L'asina di Balaam s'udì parlare,
Allorché senza aver commesso fallo
La terza volta si sentì frustare;
Parla spesso la gazza e il pappagallo,
E spessissimo udiam, per terminarla,
Anche tra noi qualche animal che parla.
Chi non sa che Apollonio il Tianeo 4,
Di cui scrisse Filostrato la vita,
Onde Europa rimase e Asia stupita,
Se udía garrir gli augei, li comprendea,
E così ben, che nato augel parea.
Oh se d'allor che il mondo principio ebbe
Di tai rivoluzion storia esistesse,
Oh come maestosa ella sarebbe!
Qual nel lettor pensante alto interesse,
Qual stupor desteria, qual meraviglia!
Ma storico a ciò fatto ove si piglia?
Or quando dietro al mio cronologista
A stender questi Apologhi mi misi,
Non altr'epoca mai presi di vista
Che quell'anteriore a detta crisi
Ficcatevelo ben nella memoria,
Quel che apologo è in oggi, allor fu istoria.
Ma son discreto, e non mi ostino a dire
Che tutto vero sia quello che dico;
Perché so ben ciò che suole avvenire
Se si parla di tempo troppo antico
E alfin avreste voi forse in pensiero
Tutto esser ver ciò che si tien per vero?
Sovente i più comuni avvenimenti,
Che sott'occhi veggiam, tocchiam con mano,
In modi raccontar sì differenti
S'odon, che il ver se ne ricerca in vano;
E quando appien tu credi esserne istrutto,
Circostanza scopriam che altera il tutto.
Itali, galli, ispani, angli, tedeschi,
Ove con fedeltà trovar credete
Esposti i fatti più sicuri e freschi
Eppure infedeltà sol vi si vede,
E contraddizione e mala fede.
Questi l'error per ignoranza ammette,
Quei mente per passion; quei per paura;
Chi per malizia tace, altera, omette,
Chi per adulazion tutto sfigura
E il falso adorna, e appena il vero accenna,
Chi alfine a prezzo vil vende la penna.
E perché poi si spoglia e si dispensa
D'ogni indulgenza quei che legge o ascolta
Cosa accaduta in lontananza immensa,
E fra profonda antichitade involta?
Perciò piuttosto che trarne profitto,
Cercar di farne allo scrittor delitto?
Meglio non è, se cosa v'è che spiace,
Una tranquilla indifferenza tacita
Usar, che fiele e critica mordace?
E se cosa v'è poi che vi capacita,
Perché non l'adottar? ben si consiglia
Chi cauto il mal rigetta e al ben s'appiglia.
V’è qualche storia in ver che a prima vista
Può mendace parer ed illusoria,
Come quella del mio cronologista;
Ma quella stessa animalesca istoria
Spesso al racconto util riflesso intreccia,
Sotto quella simbolica corteccia.
Io per lo vostro onor suppor non voglio
(E gli apologhi miei sian pure inezie)
Che sdegniate ascoltar per vano orgoglio
Dalle parlanti animalesche spezie
Per non dir: Le apprendiam dagli animali.
Men val dei fatti il letteral racconto,
Che la moralità ch'indi dee trarsi
Men di minuzie istoriche fo conto,
Che de' riflessi a tempo e loco sparsi
San leggere e ascoltare i meno istrutti;
Rifletter, profittar non è da tutti.
Ma d'opere e d'autor preadamitici
Giammai notizia non avendo intesa,
Stupiran forse i cacadubbi stitici;
E la cosa sarà da talun presa,
Se il vero ben addentro non adocchia,
Per una solennissima pastocchia.
Io pertanto che sono in certi punti
Scrupoloso all'eccesso e delicato,
E che amo dalli miei più astrusi assunti
Uscir felice, o almen giustificato;
Ciò che dissi lo replico, e son pronto
Di quanto hovvi asserito a render conto.
Son settant'anni e più che un ricco Inglese
Giunto del Gange alla famosa sponda,
Scorse il Bengala e l'Indico paese,
E i regni del Carnate e di Golgonda,
E del Coromandel la costa tutta
Dal capo Comorin fino a Calcutta.
Su i governi di quelle nazioni
Nuove acquistò notizie e nuovi lumi;
L'origine indagonne e le ragioni,
Linguaggio, indole, riti, usi, costumi;
E de' bramini il venerato occulto
E colà del bramino principale
(Per quai mezzi non so, nè per qual via)
Tale stima acquistossi e affezion tale.
Che l'effetto parea d'una malia;
Nè del giovane Inglese il vecchio Brama
Contrariar sapea capriccio o brama.
Forse a talun potria venir sospetto,
Che del bramin l'Inglese a forza d'oro
Saputo avesse comperar l'affetto,
Di che sappiam che avidi son coloro;
Ma intaccarne non vo' la probità,
E lascio al luogo suo la verità.
Dal gran bramino stesso ei fu introdutto
Nella primaria delle lor pagode,
E appieno fu da quel gran prete istrutto
Di ciò ch'altri non vede, altri non ode;
Vide gl'impenetrabili recessi,
Ove a nessun son liberi gli accessi.
Vide de' tempi più remoti e bui
I monumenti di mister profondo,
E il Zendavesta ed il Vedam, di cui
Tanto parlò, sì poco seppe il mondo;
E gli alti arcani donde i dogmi suoi
Trasse l'Egitto pria, la Grecia poi.
Indi in un de’ più intimi sacrari,
Ove inoltrarsi anche al bramin si vieta,
Geroglifici vide e emblemi vari,
Impressi in certe tavole di creta
Che dal tempo pareano in parte rose,
Gelosamente a mortal occhio ascose.
Onde disse, rivolto al sacerdote
Deh quali strane cifre sconosciute,
Quai caratteri veggio e strane note
In tanta qui venerazion tenute?
A cui il bramin: Cosa hai veduto omai,
Che altri non vide e non vedrà giammai.
Sacro al gran Brama e prezioso è questo
Monumento di secoli a migliaia,
Ignorato dal mondo unico resto.
Ciò basti, e quanto udisti assai ti paia;
Fissi i confin sono al saper umano,
Più non cercar chè cercheresti invano.
Così disse il bramin, e con quel dire
Nel curioso viaggiatore inglese
L'impaziente di saper desire
Più stimolò, più vivamente accese
Chied'egli instantemente, insiste e prega,
E di persuasione ogni arte impiega.
Vinto da tante istanze alfin, Tu chiedi,
II bramin disse, un'impossibil cosa:
Sacri arcani caratteri qui vedi
Di lingua a ogni mortal vietata e ascosa;
Solo l'intelligenza a poche elette
Alme fuor del comun se ne permette.
La sacra lingua sol d'intender lice
Alla sacerdotal suprema casta,
Dell'umano destin regolatrice.
Virtù, merto, talento a quei non basta
Cui dentro la comune ignobil massa
Di minor casta il destin getta e ammassa.
Ma quanto a' detti suoi colui volea
Dar aria d'importanza e di segreto,
Tanto più l'inquieta ansia crescea
Nell'insistente giovane indiscreto;
Che allora orgoglio e vanità s'aggiunse
Alla curiosità che pria lo punse.
Poichè se dell'arcano unico testo,
Tra sè dicea, trar copia io posso, oh come
Tra i miei dotti Britanni e in tutto il resto
D'Europa io mi farei famoso nome!
Onde di quel bramin lanciossi al collo,
Baciollo, supplicollo, scongiurollo.
Acciò da alcun bramin perito e dotto
Dell'inintelligibile linguaggio, In qualche lingua europea tradotto
Ottener di quell'opra ei possa un saggio;
Ma quei lo sguardo in lui torbido fisse,
Di santo orror raccapricciossi, e disse:
Che dici mai? Di tua colpevol brama
Complice io farmi! io quello di cui femmi
Custode il Cielo ed il favor di Brama,
Tradir sacro deposito!... Bestemmi!...
Ah! pria che profanar la santa lingua,
L'ira del Ciel vendicator mi estingua!
A quel sacerdotal slancio di zelo
L'Inglese applaude; ma promette, e giura,
Per quanto v'ha di sacro in terra, in cielo,
Che se di quella mistica scrittura
Terralla ascosa a ogni anima vivente.
Se l'ottengo, dicea, che perderesti?
Il testo qui dessi onorar? si onori;
L'original qui dee restar? vi resti;
Il linguaggio ignorar sen dee? s'ignori.
Se ottengo io version che non paleso,
L'onor di Brama e il tuo rimane illeso.
Mentre ei così ragiona, e per si fatte
Guise di quel bramin la resistenza
Con armi dialettiche combatte;
Un barlume di docile indulgenza
Vedergli parve a quello in volto, e un raggio
Di speranza che accrebbegli coraggio.
E l'ascendente alfin straordinario
Ch'egli avea su colui, qualunque ei fosse,
O fisico, o morale, o pecuniario,
Appoco appoco lo ammollì, lo scosse;
E maniere inspirò più mansuete
Al rigorista inesorabil prete.
Quale influsso, dicea, sent'io? la mia
Costanza cede a ignota forza omai;
A te l'alto favor concesso sia
Me traduttore e me scrittore avrai
Io delle sacre tavole in colonne
Corrispondente version faronne.
E acciò che a ognun resti ignorato il fatto,
Tu il giurato silenzio osserva ognora.
L'Anglo lieto oltremodo e sodisfatto
Di cangiamento tal, di nuovo ancora Gettando al gran bramin le braccia al collo,
Dell'insigne favore ringraziollo.
Quegli ogni dì portossi alla pagoda,
Ed essendo colà la lingua inglese,
Dacchè l'Anglo vi domina, alla moda,
La versione in quella lingua imprese;
In men di trenta dì la stese sopra
Gran pergamena, e fu compita l'opra.
Consegnolla all'Inglese, e in consegnarla
Gli ripete gli stessi avvertimenti
Che di tenerla occulta, e di non farla
Nè mai veder nè legger mai rammenti
Dir come, quando, dove e da chi l'ebbe,
L'ira di Brama provocar potrebbe.
Le promesse ei rinnova, ed indi ratto
Sen va a veder cosa contien lo scritto,
E restò ben sorpreso e stupefatto
Quando del mondo vide ivi descritto
Lo stato a tempi sì da noi distanti,
Con una storia di animai parlanti.
Or comprend'io, diceva, or comprend'io
Perchè il divin Visnù siasi incarnato
In vacca ed in uccel: quel loro Dio
In vacca e uccel non si saria cangiato,
Se avuto non avesser gli animali
Facoltà, come noi, intellettuali.
E siccome sapeva essere in rada
Nave che in breve verso Europa gía,
Abbandonando l'indica contrada,
Tornar risolse all'Anglia sua natia,
Ed imbarcarsi in quella nave, in cui
Luogo pel suo bagaglio era e per lui.
La versione in un cannon di latta
Mise, ch'ei fece costruire apposta,
E v'unì pergamena, in cui l'esatta
Storia del fatto è fedelmente esposta;
E dove e quando e da chi l'ebbe e come,
Della pagoda e del bramino il nome.
Esternamente intonacar con cera
Il tubo intorno fe' con somma cura,
Che preservar lo scritto in tal maniera
Da ruggine e dall'umido procura:
E sopra tutto da tignuola o tarlo,
Che roderlo potria, potria bucarlo.
La nave omai del bisognevol carca,
Sua gente e suo bagaglio in diligenza
Imbarcar fece, e poscia anch'ei s'imbarca.
E tutto essendo pronto alla partenza,
La nave alfin le vele al vento sciolse,
E dalla rada di Madras si tolse.
Poscia Madagascar indietro lassa;
II fausto ai marinar Capo Affricano,
Capo Verde, e Canarie indi trapassa,
Quindi trascorre l'ocean che bagna
La terra ibera, e la minor Brettagna.
Corsa felicemente al termin giunta,
E già scopre il nocchier d'in su la prua,
E lieto annunzia di Lezard la punta,
Quando la sorte infin allor amica
Tutt'ad un tratto lor si fe' nemica,
Tra nere nubi il sol s'involge e asconde,
Il mar si gonfia orribilmente e bolle,
Ed or s'apre in voragini profonde,
Or minaccioso insino al ciel s'estolle
E forza è pur che segua il bastimento
L'impulso irresistibile del vento.
Salta questi ora a greco, or a levante,
Or a scilocco ognora più veemente,
E non tien mai direzion costante;
E verso Borea impetuosamente
Alla ventura il lacero naviglio
Senza guida correa, senza consiglio.
Sei giorni per quei mari errò e sei notti,
Spinto or dall'una, ed or dall'altra banda,
Finch'alberi e timon perduti e rotti,
Franse in un scoglio alfin presso l'Islanda;
E assorto fu dal tempestoso flutto
E tutto il carco e l'equipaggio tutto.
Salute a noi, parmi d'udir; che giova
Narrarci tutta questa storietta,
Se dello scritto non saprem più nuova?
Ma di grazia bel bel, non tanta fretta,
Non dissi tutto ancor; se udir vorrete,
A tempo e luogo suo tutto saprete.
Era in quei tempi un galantuom maltese
Che nome avea Bartolommeo Gianfichi;
Grande e bel di persona, e in quel paese
Suo casato anche in oggi è de' più antichi
In un piccol villaggio da plebeo.
Di fisica amator, tenea compasso,
Barometri e termometri parecchi,
E grande si credea dal popol basso
Operator d'esperimenti vecchi;
Acre poi protettor dell'aria fissa,
Per cui con quei villan sempre avea rissa.
In tutt'altro però non si potea
Perito dirsi estremamente e scaltro,
Qualche termine tecnico sapea,
Nomi d'autor; del resto poi non altro;
E in ver pretender non si può che in tutto
Esser debba ciascun perito e istrutto.
Necessario saria, per farmi un nome,
Diceva, e per vedere ed esser visto,
Scorrer l'Europa. E dicea ben: ma come?
Di contanti non era assai provvisto;
Ma si volle tassar tutto il villaggio,
E danaro gli dier per quel viaggio.
Bartolommeo seguir ne' viaggi suoi
Impegno mio non è, non è mio scopo;
Quello però che me interessa e voi
Dirò soltanto, che alcun tempo dopo
Visitar volle il Nord, e a render paghe
Le brame sue, portossi a Copenaghe.
Ivi la pesca a far delle balene
Nave trovò ch'iva in Islanda, e tosto
D'ire in Islanda fantasia gli viene,
Sapendo che se un fisico a ogni costo
D'esser si ostina a grand'onor promosso,
Dee la pesca imparar del pesce grosso.
Vuol di più non fidandosi ai racconti
Fare oculare osservazione e seria,
Se l'Ecla è un monte come gli altri monti;
E se son di medesima materia
Le coste di quell'isola composte,
Con cui son fatte tutte l'altre coste.
Dunque i lidi lasciò di Danimarca,
Ed essendo da Islanda ancor discosta
Due miglia almen la peschereccia barca,
Osservò l'Ecla e l'islandese costa
L’aria, l'acqua, le piante, il fuoco, i scogli
Analizzò da lungi, e ciò bastògli.
Facean la pesca i marinari intanto,
Mentre ei faceva esperimenti tali;
E balena chiappar grossa cotanto
Che poche a quella eransi viste eguali
E con fune e con ganci indi fu tratta
In sul naviglio, e poscia in pezzi fatta.
E i metodi osservàr ond'olio trarne,
Secondo porta l'uso e l'arte; e mentre
Quella massa volgean d'ossa e di carne,
Tubo trovaro in quell'immenso ventre
Di cera e di marina alga coperto;
Onde fu tosto avidamente aperto,
Perché credean monete o verghe d'oro
Poter trovarsi in corpo alle balene
Che solo vi trovar due pergamene:
E per farvela corta, eran l'istesse
Che dal naufrago Inglese ivi fur messe.
Ciò incredibil parrà, perchè sappiamo
Che il gorgozzul della balena è stretto;
La balena però di cui parliamo
E che il tubo ingoiò, come s'è detto,
Per linea retta discendea da quella
Ch'ebbe Giona tre dì nelle budella.
Ciò dico sol per dimostrar che quandoUn fatto io narro, frottole non spargo,
E in prova del mio detto io vi domando
Qual de' due pesci ha il gorgozzul più largo,
Quei che un tubo di latta ingoia, ovvero
Ch'ingoia un uomo, anzi un profeta intero?
Sebben Bartolommeo non avea fatto
Mai studio in lingue, e non sapea l'inglese,
Per vanità, per rarità del fatto,
Cannone e cartapecora richiese,
Ottenne tutto per pochi danari.
Di colà ritornando in sul cammino
Nave trovò che vela fea per Malta;
Maltese era il padrone e suo cugino,
Onde improvvisa in capo idea gli salta,
A Malta d'inviar per quel naviglio
Il tubo in una lettera a suo figlio.
La lettera dicea: «Figlio, buon giorno,
«T'invio questo cannon, tu custodito
«Tienlo, e ben chiuso fino al mio ritorno,
«Che non sarà di molto differito
«Figlio, l'onor della genia Gianfica
«Ti raccomando, e il Ciel ti benedica!»
Il figlio si nomò ser Ciondolone
Riceve il tubo e custodito il tenne,
Nè d'aprirlo ebbe mai tentazione
Il padre sol parola non mantenne
Ch'indi a poco messer Bartolommeo
Morì in Polonia in casa d'un Ebreo.
Era ser Ciondolone uom grasso e grosso,
Torpido, pigro, e pien d'ozio e di noia,
Sdraiato o assiso e' non sariasi mosso
Suo padre stesso per salvar dal boia;
Non solea mai nè leggere, nè scrivere,
E or son venti anni che cessò di vivere.
Vive oggi il figlio suo messer Valerio,
Giovin di garbo veramente e bravo,
Studia, sa molte lingue, ha del criterio,
E un giorno il nome eclisserà dell'avo;
Quando anni son viaggiando in Malta fui,
Sovente il vidi e conversai con lui.
Le pergamene ed il cannon di latta
In confidenza m'ha mostrato ei stesso;
E in Toscan la lettura me ne ha fatta,
Facendovi riflessi e note spesso
Mi pregò a non parlarne, e non ne parlo,
E voi prego puranche di non farlo.
Favellando del suo casato antico
M'assicurai ch'egli era un discendente
Di quel mio famosissimo Gianfico,
Di cui mi udiste ragionar sovente:
Se apologhi, novelle, od altro ho fatto,
Ai Gianfichi lo deggio, e questo è un fatto.
Dunque all'Anglo il bramin la pergamena
Consegnò de' tradotti emblemi antichi;
Da quei passò nel ventre alla balena,
L'acquistò poi Bartolommeo Gianfichi;
Ciondolon l'ebbe, indi Valerio, ei poi
La fe' a me nota, io la fo nota a voi.
Degli apologhi miei la storia è questa
E solo come quell'antico testo
Ai bramini passasse saper resta:
Ma irreparabil v'è laguna in questo
Tratto d'istoria letteraria critica,
E di cronologia preadamitica.
Consta per altro dalle addotte prove,
Che le cose seguir di cui parliamo
Da nove cento mila ottanta nove
Secoli pria del tempo in cui viviamo;
Se computo sì vasto errore porta
D'alcuni mila secoli, che importa?
Fu nell'antica Memfi assai famoso
Prima di Trismegisto e di Beroso,
E fe' computi molti, e molto scrisse,
Ma sopra tutto del soggetto stesso
Trattò di cui trattar vogliamo adesso.
Quell'autor sostenea che qualor sia
Un milione di secoli compiuto,
Le cose torneran come eran pria,
E tutti gli animai l'uso perduto
Di favellar ricovreranno allora
Ma l'epoca è per noi lontana ancora.
L’opre di quell'autor io non ho viste;
Ma un manoscritto antico e mezzo muffo
In un convento di Calabria esiste
Se pur il General Cardinal Ruffo
Stoppacci non ne fe' per l'archibuso;
Caso non ne abbia fatto un qualche altro uso.
Posto quant'io dissi fin qui, che forse
Indispensabil era in verso o in prosa
Dei miei lettori avanti gli occhi porse,
Per schiarir meglio e accreditar la cosa;
Perchè così l'obbiezion prevengo,
E maggior fe presso i lettori ottengo.
Cose narrai che non fur dette pria
Riti, mitologie straordinarie,
E di bestie la guerra atroce e ria,
Che specie ne distrusse e molte e varie,
Ed altre ne cacciò sino in Siberia,
Ove perir di freddo e di miseria.
Che se di quell'esotico bestiame
L'Ostraco ed il Calmucco e il Samoiedo
Di sotterra talora il vasto ossame
Stupido estrae, di che stupir non vedo;
E la cosa non è contradittoria
Per quei che san l'animalesca istoria.
Di giganti o d'eroi famose lotte,
O di bestie o di Dei (s'io vo' le ignote
Origini indagar) trovo di tutte
Ne risuona Oriente; e appo la fredda
Zona polar canta battaglie l'Edda 5.
E da ciò forse immaginàr gli Achei
La gran battaglia e la famosa guerra,
Quando in Flegra pugnàr contro gli Dei
E vinti dagli eroi cadder Centauri,
Cerberi, Idre, Pitoni e Minotauri.
Ciò forse ai vati d'Oriente offerse
L'idea delle terribili tenzoni,
Come raccontan le memorie Perse,
Dei Dives mali contro i Peris buoni,
Gente che mai fra lor non ebber pace
Chi d'Ariman, chi d'Oromas seguace 6.
Fin gli spirti immortali ed impassibili
Fervida fantasia cangiò in guerrieri,
E assurdità sì strane e sì incredibili
Si riguardan quai dogmi e quai misteri
Son di guerra gli onor dunque sì sacri,
Che fin religion par li consacri?
E ogni qual volta vinti e debellati 7
Restaro i mali; fur da' buoni ognora
In più aspri climi ad aquilon cacciati,
Ove fissar la fredda lor dimora;
Quindi dice il proverbio, e dice bene,
Che tutto il mal dall'Aquilon proviene 8.
Aggiungo sol per prevenir le critiche
Che qualche umor sofistico far suole,
Che in quell'antiche età preadamitiche
Costumi, usi, pensieri, idee, parole
Eran troppo diverse e differenti
Da tutto ciò che si usa ai dì presenti.
Quelle parole e quei pensieri stessi,
Ch'erano in uso allor, se in questi miei
Apologhi per tanto usato avessi,
Strano linguaggio e strano adoprerei
Stile inintelligibile ed astratto,
E forse forse passerei per matto.
Se ascoltaste però fra i miei campioni
Nominar Generali e Colonnelli,
Altezze, Maestà, Conti, Baroni,
Usar moderni titoli, non quelli
Ch'erano in uso in quell'antica età,
Che oggi neppure il diavolo li sà.
E perciò la gentil vostra indulgenza
Spero m'accorderà che lo stil mio
S'adatti alla comune intelligenza;
E di scusar vi prego in oltre, s'io
Non posi pria, come pur era d'uopo,
I ghiribizzi miei che ho posti dopo.