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LUISA MICHEL | «» |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
La prima volta che la incontrai fu durante una riunione internazionale dei proscritti politici, cui l'inverno del '94-95 – furioso di reazione e di freddo – avea divelti da ogni patria, mulinati a traverso l'Europa fattasi, per viltà, aguzzina, ed ammucchiati nella caligine di Londra.
Si trattava appunto di soccorrere quelli, tra i profughi, maggiormente privi di mezzi e di lavoro.
Quando entrai, in compagnia di Pietro Kropotkin e di altri amici inglesi – Luisa Michel parlava.
A torno al suo viso scarno, dalle linee d'una singolare durezza, alcune ciocche di capelli bianchi aveano bruschi dondolii, come seguissero il ritmo delle ardenti parole.
La voce aveva inflessioni che, a primo udito, pareano disarmoniche: un fiotto di amarezza ma senza rancore, di fierezza veemente ma senza acrimonia, di energia indomabile ma senza invettive – e la sua fronte; segnata da solchi di dolore e da devastazioni di tempesta, si ergeva anco una volta contro il nemico oscuro, pluriforme, che i suoi occhi, grigi e tersi come lame, assalivano chi sa in quali ombre misteriose della sala, e fugavano, al galoppo del suo gran sogno di ribellione, più là, oltre le pareti, più là, oltre le brumose riviere del Tamigi e della Manica, fino alla sua nobile terra di Francia, ove sua madre dormiva presso i massacrati fratelli d'arme; e più là ancora, oltre le frontiere delle patrie tuttora inimiche, e via più lunge degli oceani lontani, e più là delle patrie lontanissime, sempre e dovunque pugni o talloni di uomini premessero petti umani, sempre e dovunque violenza di leggi o di individui spremessero sudore, pianto o sangue da creature viventi; allora come sempre quei suoi occhi e quelle sue parole incalzavano il nemico, con lampo e crepitio di barricata.
Ma poi le irrequiete pupille e le irrequiete parole si posavano, come in una luce interiore di visione, in una carezza diffusa di sguardi e di accenti: ed allora erano le fronti stillanti di fatica, gli esili corpi tremanti di freddo e di fame, le pallide gote bagnate di lacrime – era tutto lo schiacciante peso del lavoro aggiogato al capitale, che parea ella volesse, con la tremula e curva personcina, sollevare; era tutta la vastità di carne umana mal coperta, che ella si accingeva a difendere dall'empio inverno, e tutta la piagatura delle spalle lacerate dal pondo della croce infame, che essa pretendeva lenire coi balsami della sua bontà.
Più tardi, anche quando ebbi stretto con lei quell'amicizia profonda, nella quale essa ponea per i giovani come un senso di maternità, non ho più dimenticato il suo atteggiamento di quella sera, nè quella apparente contradizione tra la sua fierezza di ribelle e la sua pietà di suora.
Contradizione apparente, dicevo, giacchè ogni scatto di rivolta in lei non era che una esacerbazione del suo spirito di carità universale, offeso da un'ingiustizia vista patire. Le calunnie, le sofferenze, le persecuzioni di cui la resero vittima i potenti, erano scivolate sul suo cuore leonino, come sopra una corazza di diaspro – ma quel suo stesso gran cuore avea sanguinato d'ogni più piccola ferita inferta su corpo altrui. Essa non odiava che per troppo amore. Il suo ardore rivoluzionario, per uno psicologo sperimentale, non poteva essere che il resultato d'una iperestesia del sentimento.
E qual delicatezza di sfumature nella sua affettività, sempre in armi ed in opera!...
Dalla tenerezza per sua madre, che era tutta una religione, alle premure ardenti e febbrili per qualunque infelice a lei si rivolgesse – sino alla benevolenza soccorritrice verso le bestie randagie, da lei reputate più delle altre in angustie per il pane – nessuna soluzione di continuità nei suoi atti.
Giustamente un giorno Pietro Kropotkin, parlando di lei, diceva: «Lo zelo di Luisa nel soccorrere le sofferenze altrui non si ferma all'umanità, ma tenta di abbracciare perfino l'animalità».
E mi raccontava certe sue ingenuità commoventi verso bestiole malate o fameliche, per le quali la casa ospitale della comunarda diventava prima un rifugio, e poi un condominio con tutti gli altri esseri colà sospinti dalla risacca sociale.
Una volta – era stata gravemente malata di bronchite quell'inverno – tornò a casa, dopo una conferenza; si sentiva affaticata, sfinita. La buona Carlotta, la fida compagna di lei, aveva preparato del latte caldo. Esso fumava lì presso, sulla tavola. Ma intanto che Luisa parlava con alcuni amici, che l'avevano accompagnata, una gatta malaticcia, salita sulla tavola, aveva tranquillamente vuotato la tazza.
Quando Carlotta se ne accorse, non fu a tempo che a regalare un solenne scapaccione alla bestiola, la quale chissà per quali complicazioni tra la bevuta furtiva e lo scappellotto giustiziero nella notte morì.
Fu tutto un piccolo dramma domestico di rimpianti per il quadrupede defunto in seguito a quell'atto di tirannide padronale, ed anche una sequela di rimbrotti verso Carlotta, che se ne era resa colpevole. Si dovettero immischiare nella faccenda parecchi amici; e la pacificazione degli animi non riuscì completa, se non dopo che fu convenuto che là in quella casa, nessun atto di violenza sarebbe stato più commesso da inquilini o da ospiti verso gli animali inferiori.
Da quel giorno anch'io, a cui molto Luisa perdonava per la mia giovanile impetuosità, dovetti tenere a me le mani ed i piedi – giacchè una sera che un cane, insopportabile per petulanza, eppur cittadino libero sotto quel tetto ideale, provocò il mio piede ad assestargli un rapido correttivo, dovetti ascoltare dalla cara vecchia tutta una calda allocuzione in difesa degli esseri inferiori.
« – Ah, gli esseri inferiori, ecco il pretesto d'ogni dominazione!... Inferiori perchè? Perchè altri più violenti, o più astuti, riuscirono ad assoggettarli o ad ucciderli?...
«O non sono invece inferiori di senso morale quelli che formano la felicità propria sulla infelicità altrui divorando, sfruttando, asservendo?... Voi mi risponderete con la dura legge di selezione, col trionfo del più adatto, con l'impero del più forte. Ma io conosco un'altra legge, che non è di oppressione nè di morte – ma di libertà e di vita: quella della solidarietà... Voi vi deliziate degli uccellini allo spiedo, ed io preferisco il trillo del cardellino, che canta là, su quell'albero, a tutte le orazioni di voi avvocati... Diversi sì, inferiori no...»
« – Ma tra l'umanità, e le altre specie zoologiche...» azzardai io.
« – Ebbene – incalzò l'ardente vegliarda – è appunto perchè l'umanità volle calpestare gli altri esseri, che voi chiamate inferiori, che essa si trovò esercitata ad inferocire e a dilaniar sè stessa. Le razze inferiori, le classi inferiori, il sesso inferiore, che per dileggio chiamate gentile – ecco la stessa classificazione trasportata dal campo animale a quello umano... Ma la lotta, direte, fu la condizione d'ogni progresso... Sì, ma io non amo la lotta per la lotta; la voglio solo perchè da essa scaturisca invece dell'antagonismo la fratellanza di tutti gli esseri...»
E le labbra della vergine dolorosa tremolavano ancora, nell'improvviso silenzio – come se avessero proseguito il filo mentale di quella sua corruscante visione di ardimenti e di tenerezze...
Guardando la sua fronte vasta ed eretta di donna, su cui balenavano le più virili energie, il mio pensiero ricostruiva i profili, dalla leggenda ammorbiditi, di quei singolari panteisti del cristianesimo, che da Francesco d'Assisi agli uomini semplicisti della epopea messianica, imbrandivan la croce – tra l'infuriar del fanatismo chiesastico, che stava facendosi dominazione cruenta sui corpi, e cilizio truce sulle anime – e la agitavano con furente amore, nella ingenua illusione di far cadere gli artigli alle tigri, per la tranquillità degli agnelli.
Solo che in cotesta vestale del dolore e della speranza, la magnanima chimera era fede operosa, e ribellione indomabile.
Essa non agitava nè croce, nè fiaccola. Tutto il suo combattimento era stata una croce – tutta la sua persona, tutta la sua parola, l'opera sua tutta erano una face ardente, sempre in cammino.
Nel processo di beatificazione di San Martino uno dei titoli, che più gli valse la laurea di beatissimo, fu l'aver donato, una volta in sua vita, metà del proprio mantello ad un mendico.
Luisa, centinaia e centinaia di volte (Carlotta ormai aveva perduto ogni lena a riprenderla) aveva dato via l'ultima camicia al primo indigente che bussava alla porta. E tutta la pena degli amici era sempre di trovare una maniera delicata, onde sostituire, almeno l'indispensabile, al gettito, ch'ella faceva di ogni suo avere.
Un inverno, ch'essa aveva molto sofferto di petto, i suoi antichi compagni di deportazione alla Nuova Caledonia, allora residenti in Londra, pensarono di donarle un pesante e ricco mantello, per l'anniversario della Comune parigina, tanto più, ch'ella doveva recarsi appunto la sera del 18 marzo, al Mass-Meeting commemorativo, che si teneva nel centro della metropoli, a sì grande distanza dal sobborgo, ove essa e Carlotta abitavano.
Quando Luisa entrò nella sala gremita, i compagni, che avevano fatto il dono, stupirono nel vederla ravvolta in un meschino scialletto, e Charles Malato ebbe l'incarico di fare le dovute rimostranze.
«– Voi venite a sgridarmi, Carlo – si affrettò a dir Luisa al veniente – però avete torto. Il pensiero fu gentile, ma quel ricco mantello sarebbe stato un rimorso per me...»
E Carlotta spiegò, come non le fosse stato possibile impedire che Luisa regalasse il mantello (non la metà come S. Martino, ma tutto intero) ad una povera vedova del vicinato, sovraccarica di cinque piccini, la quale tremando era venuta a chieder la carità, in memoria dei poveri assassinati della Comune di Parigi.
La mendicità, e talvolta le escroquerie, delle grandi metropoli ha di queste meditate astuzie, delle quali più volte Luisa era rimasta vittima, come una di quelle pellegrine sull'erta di un santuario, alla cui fede lo storpio estorce fin gli ultimi piccioli, per amore della madonna o del santo.
Naturalmente ben altri erano i santi e le madonne della comunarda.
Parecchi anni or sono, a Parigi si costituì un Comitato di soccorso in pro' dei profughi russi – in seguito ad uno dei periodici deliri acuti della reazione autocratica – e del comitato facevano parte le personalità culminanti della scienza, dell'arte, della politica. Ne erano presidente Victor Hugo e cassiera Luisa Michel.
Ebbene: alla casa di lei era un continuo pellegrinaggio di sollecitatori, che si qualificavano profughi russi, per quanto essi non avessero oltrepassato i boulevards di Montmartre, e le buvettes del quartiere Latino.
E nessuno tornava indietro, per quanto poco russo egli fosse, con le mani vuote.
Victor Hugo, che grandemente amava e stimava la Michel, credè opportuno esortarla a qualche cautela nella erogazione dei soccorsi, onde i veri proscritti russi non ne fossero defraudati da codesti russi... d'occasione.
Luisa, dopo avere ascoltato con deferenza l'autore dei Miserabili, gli chiese con quel suo fervore traboccante di ingenua pietà:
«– Posso io domandare alla miseria che invoca aiuto, la carta di nazionalità?»
Il poeta sorrise, e la sua fronte radiosa si chinò perplessa. Da quel giorno però non si parlò più di controllare la nazionalità degli indigenti – anche a costo che qualche mariuolo sfruttasse il fondo raccolto per la Russia fuggiasca e martire.
Quando Sarah Bernhardt si recò sullo scorcio del '96 in Inghilterra – e fu allora che avvenne il mirabile duello d'arte, senza sfida ingaggiato tra Eleonora Duse e la grande attrice francese – Luisa Michel che era stata presentata da Ottavio Mirbeau a Sarah, si affrettò a sollecitare da lei una rappresentazione a profitto dei rifugiati politici d'Europa in Londra, per i quali ella sognava di fondare un asilo fraterno sulle sponde del Tamigi.
La celebre tragica, che è profondamente buona, ricevette con grande cordialità la comunarda, ma dovette significarle, che le condizioni di scrittura e la rigidità dell'impresario le impedivano di organizzare serate di beneficenza, non previste già dal contratto.
Ma Luisa non si diè per vinta; e descrisse con sì strazianti particolari le condizioni dei rifugiati politici in Londra – che i begli occhi di Sarah versarono lacrime copiose – e le due donne, pur sì contrastanti d'aspetto e di costumi, furono per un momento sorelle in un amplesso bizzarro di magrezza e d'intenerimento.
Il colloquio ebbe termine con una cospicua offerta che Sarah consegnò alla Michel, come contributo personale all'istituendo asilo. La somma doveva essere poi aggiunta al fondo ricavato da una grande tournée di propaganda, che gli amici residenti negli Stati Uniti durante il mio precedente pellegrinaggio laggiù, mi avevano proposto di fare lungo il territorio dell'Unione, in compagnia di Luisa Michel, Charles Mowbray, Emma Goldmann e Sebastien Faure; quattro idiomi: l'indispensabile per farsi capire dalle folle cosmopolite della repubblica stellata; cinque persone, tali e quali in Italia avrebbero, in quell'anno di grazia e di reazione, potuto agevolmente rispondere agli estremi dell'articolo 248 del suo codice penale.
Ah, cotesto meeting tour andato in fumo in seguito a quella plumbea nevrastenia, che m'incatenò in Londra al punto di partire, e che scombussolò anche il piano degli altri, che non partirono più, malgrado il meeting of far well; ah, quella progettata corsa di avventura e di battaglia, sfumata come tanti sogni lieti nella caligine dell'esaurimento nervoso e dell'autunno londinese, quante volte tornò nei nostri discorsi – mentre Luisa, maternamente soave, vegliava presso il mio letto!...
Fu allora, nello spasimo inafferrabile della malattia tutta dolore, ch'io la conobbi interamente nella sua duplice personalità eccelsa di combattente e di consolatrice.
Difficilmente aveva udito dalla sua bocca qualche narrazione delle avventure terribili e gloriose, che l'avevan travolta dalle barricate di maggio alla deportazione – a traverso i suoi eroismi di carità tra i feriti della settimana sanguinosa e le sue fierezze di ribelle innanzi ai briganti decorati della Corte Marziale, intenti a colmar della macellata Parigi plebea la fossa infame di Satory.
L'eroina che aveva ruggito in faccia ai carnefici l'ormai storico: «Si vous n'êtes pas des laches tuez moi!» non amava affatto parlare delle gesta di cui era stata parte viva. Preferiva narrare quelle storie di rivolta e di sacrificio, come cose udite, passando, da viandanti sconosciuti.
Tutto quel soffio di bufera, che fu la Comune del '71, fremeva nella sua voce, talora stridente come il crepitio lontano di vecchie foreste in fiamme, tal'altra tremula come per lunghi singulti repressi nel forte cuore solitario, tal'altra ancora dolcissima, quasi riflesso di aurore miti intravedute, presentite dopo il temporale notturno: ed io guardavo, dal fondo dell'animo conturbato dalla malattia e dalle suscitate visioni, quella donna e quel vasto cielo di incendio e d'ideale, su cui ella pareva giganteggiare, nella sua umiltà infantile, come una sacerdotessa inesorabile e pia della morte e della vita: e vedevo tutto, anche nei dettagli, il grande quadro della tragedia proletaria; ne comprendevo (come sotto la luce di lampi solcanti la tenebra) la essenza profonda e la soluzione fatale; sentivo, anche più che nei canori versi degli Chatiments e dell'Année terrible, le voci solenni della storia e dell'irrevocabile, le grida argentine degli eroici bimbi, col petto aperto contro i cannoni tuttora fangosi di Sédan, comandare essi stessi il fuoco, nel delirio sublime, e con l'occhio smarrito, associavo i profili enormi di quegli uomini e di quegli avvenimenti, convergenti alle finalità supreme che in essi vagirono.
E in quella figura adusta di vergine che ignorò, e volle ignorare, le gioie dell'amplesso sessuale, e che pur si fece la sposa casta di tutti i forti, che scotessero catene, e si avviticchiò al corpo e si fuse nell'anima del popolo sudante al lavoro, come una innamorata dalla passione inestinguibile – in quella evanescenza di donna quasi incorporea, che non seppe le dolcezze ed i pianti soavi della maternità, ma lacrimò ansiosa ad ogni vagito di infante, ad ogni grido d'aìta di adolescente, e reclinò piamente la testa, già fiera nei tumulti, su tutte le cune e su tutte le bare, in cui si avvicendarono i figli dell'uomo – in quella superstite mai vinta, pur nella sconfitta e nella captività, io riconobbi – allora – l'incarnamento vivo della rivoluzione, il simbolo della misteriosa forza, che travolge i mondi e le società, la forza inesorabile e benefica che fin dalla morte e dallo sfacelo fa germogliare la vita.
Ed ora che nel turbinìo della materia e della forza infinite quella tua forma vitale d'eroismo e di gentilezza ritorna, o Luisa – sulla mia fronte, che oggi arde di febbre, sento ancora passare la carezza asciugante il sudor gelido di quelle veglie, la carezza che, mia madre lontana allora, invidiò alla tua mano, sottile e pronta al bene, come la sua... Ahi più lontane, ora tutte due – se ben fisse nell'anima – tutte due immote nel gran sogno di pace, dopo tanto aspra giornata, o Luisa, nostra buona sorella maggiore!...
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