Louise Michel
La comune
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APPENDICE

II. Lettera di un detenuto di Brest.

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II.
Lettera di un detenuto di Brest.

«Dopo la presa di Chatillon, ci fecero mettere in cerchio sullo spalto, scegliendo dalle nostre file i soldati che ci fossero stati. Li fecero inginocchiare nel fango, e, dietro ordine del generai Pellè, si fucilarono senza pietà, sotto ai nostri occhi, quei poveri giovanotti, in mezzo ai lazzi degli ufficiali, che insultavano la nostra sconfitta con ogni sorta d'improperi atroci e stupidi.

«Infine, dopo una buona ora impiegata in questo macello, ci mettiamo in fila e prendiamo il cammino di Versailles, fra due cordoni di cacciatori a cavallo.

«Lungo la via incontrammo il capitolardo Vinoy, col suo stato maggiore. Dietro suo ordine, e malgrado la promessa fatta dal generai Pellè, che noi avremmo tutti la vita salva, i nostri ufficiali che camminavano in testa alla colonna ed ai quali erano state tolte violentemente le insegne del loro grado, stavano per essere fucilati, quando un colonnello fece presente a Vinoy la promessa fatta dal suo generale. Il complice del 2 dicembre risparmiò i nostri ufficiali, ma ordinò che fosse subito passato per le armi il generale Duval, il suo colonnello di stato maggiore e il comandante dei volontari di Mont-rouge.

«Questi tre bravi morirono al grido di Viva la Repubblica! Viva la Comune!

«Un soldato strappò le scarpe del nostro disgraziato generale, e le calzò come un trofeo trionfale.

«Quindi il feroce Vinoy si allontanò e noi riprendemmo la nostra marcia dolorosa ed umiliante, ora al passo ora di corsa, come piaceva ai nostri conduttori, coperti di contumelie fino al nostro arrivo a Versailles.

«Qui la penna mi cade dalle mani. È impossibile difatti descrivere l'accoglienza che noi avemmo nella città; sorpassa in scelleratezza tutto ciò che possiamo pensare. Spinti avanti a pugni ed a calci, in mezzo agli urli ed alle imprecazioni, ci fecero fare due volte il giro della città, calcolando le fermate fatte apposta per meglio esporci alle atrocità d'una popolazione di ruffiani e di poliziotti allineati lungo le vie da dove dovevamo passare. Ci condussero dapprima davanti al deposito di cavalleria, dove sostammo venti minuti. La folla ci strappava le nostre coperte, i nostri kepì, le nostre borracce. Nulla sfuggiva alla rabbia di quegli energumeni, ebbri d'odio e di vendetta. Ci trattavano come ladri, briganti, assassini, canaglie, ecc.

«Di passammo alla caserma delle guardie di Parigi.

«Ci fecero entrare nel cortile, dove trovammo quei signori che ci ricevettero scaraventandoci addosso un fiume d'ingiurie infami, e che, dietro l'ordine dei loro capi, armarono i loro fucili, ghignando che ci avrebbero uccisi come cani. In mezzo alla scorta di questi vigliacchi ci dirigemmo a Satory, dove restammo chiusi in 1685, in un fienile, stremati dalla fatica e dalla fame, nell'impossibilità di coricarci, tanto eravamo serrati gli uni contro gli altri; passammo due notti e due giorni in piedi, coricandoci un po' per ciascuno, per turno, sopra una manata di paglia umida, non avendo per sostentamento che pane ed acqua sporca, che i guardiani andavano ad attingere ad una cisterna, nella quale soddisfacevano comodamente i loro bisogni!

«È spaventoso, ma vero!

«Dopo averci spogliati di tutto, ci avviarono alla Ferrovia dell'Ovest. In quaranta ci ammucchiarono in carri bestiame ermeticamente chiusi, privi di luce, fornendoci di un po' di biscotto e di qualche borraccia d'acqua. Restammo così fino alle quattro di mattina del sabato, in cui sbarcammo a Brest in circa 600: gli altri prigionieri erano strati mandati in differenti prigioni. Invano supplicammo durante il viaggio dai nostri guardiani un po' d'acqua, un po' d'aria: rimasero sordi alle nostre preghiere, minacciandoci col revolver alla mano al minimo tentativo di rivolta. Parecchi di noi impazzirono. Pensate! trent'un'ora di ferrovia in tali condizioni! Nulla quindi di strano in questi casi di follìa; è piuttosto sorprendente che non sia successo nulla di più grave per un numero maggiore di noi.

«Discesi dal treno, ci imbarcarono subito per il forte di Kelern, dove siamo a tutt'oggi internati, privi di qualsiasi comunicazione col di fuori, e quasi senza notizia delle nostre famiglie, le cui lettere non ci pervengono che aperte, come del resto le nostre vengono spedite dopo essere passate per la censura. Confinati in alcune casematte umide, sopra uno sporco pagliericcio, manchiamo persino di cibo, e molti di noi soffrono, addirittura il martirio della fame. Non abbiamo neppure due gamelle piene di zuppa, e appena una libbra e mezza di pane al giorno.

«In fatto di bevanda, acqua e null'altro.

«Il cittadino Eliseo Reclus, conosciutissimo nel mondo scientifico, che è qui con noi, contribuisce potentemente a renderci più sopportabile il nostro triste soggiorno, con delle conferenze quotidiane istruttive ed interessanti e sempre improntate alla più alta idea di diritto e giustizia. Conforta la nostra fede repubblicana, e molti di noi dovranno a lui se usciranno di prigione migliori di quando ne entrarono. Riceva qui l'espressione della nostra gratitudine per i suoi nobili sforzi e della stima profonda che noi abbiamo per lui.»

Bruxelles, aprile 1871. - La Liberté.


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