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PARTE PRIMA
L'agonia dell'Impero
I.
Il risveglio
L'empire
s'achevait, il tuait à son aise.
Dans sa chambre, où le seuil avait l'odeur du sang,
Il régnait; mai dans l'air soufflait la Marseillaise,
Nella notte di spavento che dopo il dicembre copriva il terzo impero, la Francia pareva morta; ma proprio quando le nazioni s'assopiscono come dentro a sepolcri, la vita in silenzio ingigantisce e si espande; gli avvenimenti si chiaman tra loro, rispondendo l'uno all'altro come eco a eco, nello stesso modo che una corda vibrando ne fa vibrare un'altra.
Grandiosi risvegli allora succedono a queste morti apparenti, ed irrompono le trasformazioni compiutesi nelle lente evoluzioni.
Allora come un turbine trascina gli uomini, li unisce, li trasporta con tal rapidità, che l'azione par voglia precedere la volontà: gli avvenimenti precipitano: è il momento nel quale si temprano i cuori, come alla vampa si tempra l'acciaio delle spade.
Laggiù, in mezzo al turbinio, quando il cielo e la terra sono immersi in una medesima tenebra, nella quale le onde, come irrompenti da umani petti lanciano furiosamente sulle scogliere i loro artigli bianchi di schiuma, sotto il mugghiar dei venti, allora ci si sente rivivere come quasi nei lontanissimi tempi, in mezzo agli elementi scatenati.
Ma nelle tormente rivoluzionarie invece la marcia è in avanti.
L'epigrafe di questo capitolo rende l'impressione che dovevano provare, sul finir dell'impero, quanti si lanciavano nella lotta per la libertà.
La libertà passava sopra il mondo, l'Internazionale era come la sua voce, che gridava di frontiera in frontiera le rivendicazioni dei reietti.
I complotti polizieschi mostravano le loro trame ordite presso il Bonaparte: la repubblica romana soffocata e sgozzata, e le spedizioni della China e del Messico svelanti i loro loschi dietroscena; il ricordo dei caduti durante il colpo di stato, tutto quanta formava un ben tristo corteo a colui che Vittor Hugo chiamava Napoleone il piccolo; egli aveva del sangue fin sul ventre del proprio cavallo.
D'ogni parte, come grossa marea, la miseria si affacciava minacciosa, e non erano certo i sacerdoti della società del principe imperiale coloro che potevano porvi rimedio. Parigi, era Parigi, che pagava per questa società pesanti tasse, e per la quale deve forse ancora due milioni.
Il terrore che circondava l'Eliseo in festa, la leggenda del primo impero, i famosi sette milioni di voti strappati con la paura e la corruzione, formavano intorno a Napoleone III una fortezza stimata inaccessibile. L'uomo dagli occhi loschi sperava di durar per tutta la sua vita; ma la fortezza si copriva di breccie, ma per quelle di Sèdan finalmente entrò la rivoluzione. Nessuno di noi allora avrebbe immaginato che i delitti dell'impero avrebbero potuto esser uguagliati. Quel tempo e il nostro, si rassomigliano, secondo l'espressione di Rochefort, come due goccie di sangue. In quell'inferno, come oggi, i poeti cantavano la epopea che si andava a vivere ed a morire, gli uni nelle strofe ardenti, gli altri nell'amaro ghigno del sarcasmo.
Quante delle nostre canzoni d'allora, sarebbero oggi d'attualità!
Non si sceglievano le parole che servissero a buttar in faccia al potere le sue ignominie.
La canzone della Badinguette fece fremere di furore le turbe imperiali.
In mezzo ai gai ricordi delle nostre prigioni resta la canzone della Badinguette, cantata una sera, a tutta voce, dalla folla dei prigionieri, quanti erravano nei sotterranei e nei cantieri di Versailles, tra le due lampade che rischiaravano i nostri corpi stesi a terra contro ai muri.
I soldati che ci custodivano, per i quali l'Impero esisteva ancora, ebbero insieme spavento e furore.
– Noi avremmo avuto, ci gridavano essi, una punizione esemplare per offesa a S. M. l'Imperatore!
Un altro ritornello, gridato dalla folla, mentre si movevano al vento i cenci dai colori imperiali, aveva parimenti la potenza di fare stizzire i nostri vincitori
La convinzione che l'impero avesse da sopravvivere era così radicata nell'armata di Versailles, e certamente anche in altri corpi d'armata, ch'io potei trovarne cenno nell'ordine di processo, che mi fu letto nelle carceri correzionali di Versailles.
«Visto il rapporto e il consiglio del Relatore, e sentite le conclusioni di S. E. il Commissario Imperiale, che tende rinviarvi davanti al 6.° Consiglio di guerra, ecc.».
Il governo non aveva neppur pensato che valesse la pena di mutar la formula.
La rassegnazione della folla a sopportare, a soffrire, ci riempì di sdegno, durante gli ultimi anni fortunosi di Napoleone III. Noi, entusiasti della sognata liberazione, noi la vedemmo tanto tempo prima questa liberazione, quanto più grande era la nostra impazienza. Qualche frammento di poesia, ancor mi resta di quell'epoca.
Oh, da quanto tempo avremmo voluto strapparci dal petto il cuore sanguinante per gettarlo in faccia al mostro imperiale
Da quanto tempo si ripetevano, con fredda risoluzione, questi versi dei Châtiments:
Harmodius, c'est l'heure,
Tu peux frapper cet homme avee tranquillité.
Così si fosse fatto, come da un binario si getta lontano una pietra ingombrante.
La tirannide allora non aveva che una sola testa; il sogno dell'avvenire ci pervadeva; l'Uomo di Dicembre ci sembrava il solo ostacolo alla libertà.