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PARTE PRIMA L'agonia dell'Impero II. La letteratura alla fine dell'Impero. Manifestazioni della Pace. |
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II.
La letteratura alla fine dell'Impero.
Manifestazioni della Pace.
Venez,
corbeaux. Venez sans nombre,
Vous serez tous rassasiés.
La collera accumulata, che fermentava nel silenzio da vent'anni, erompeva d'ogni parte: il pensiero si disvincolava, e i libri che di solito non penetravano in Francia che clandestinamente, cominciavano a stamparsi anche a Parigi. L'Impero atterrito, metteva la maschera e si faceva chiamar liberale: nessuno però lo credeva sul serio, ed ogni qualvolta egli evocava l'89, si pensava al 52.
L'Echéance de 69 di Rogeart riassumeva l'opinione generale.
«La disfatta del 69, scriveva, è una data fatidica non c'è che una voce per la caduta dell'impero nel 69. Si aspetta la libertà, come i millenari aspettavano il Messia. La si conosce, come l'astronomo conosce la legge di un eclissi: non si tratta che di consultare l'orologio, e di osservare il fenomeno, contando i minuti «che separano la Francia dalla luce».
«Le cause profonde – aggiungeva ancora Rogeart – stanno nell'opposizione costante ed irrimediabile fra le opinioni del governo e quelle della società: la violazione continua degli interessi dei sudditi, la contraddizione fra quel che dice e quel che fa il governo.
«Stavano di contro l'ostentazione dei principii dell'89 e l'applicazione di quelli del 52; la necessità da parte dei governanti, della guerra e sopratutto della guerra di conquista, principio vitale di una monarchia militare, e l'impopolarità della guerra di conquista, di annessione, di saccheggio, d'invasione, in un secolo lavoratore, industriale, istruito, e molto più riflessivo dei propri antenati.
«La necessità di una polizia politica e della magistratura politica, in un paese dove il governo è in lotta con la nazione, è una necessità che disonora la magistratura e la polizia, aizza i malfattori, disanima gli onesti.» (Rogeart, Echéance de 69).
Rogeart aggiunge nella stessa opera: «Una immensa esuberanza dei sentimenti popolari va di pari passo con una recrudescenza di repressione da parte dell'impero: ora se la compressione aumenta da una parte mentre dall'altra aumenta la forza d'espansione, non v'ha dubbio che la macchina deve scoppiare.
«Io la vedo questa lenta agonia, e non voglio aspettare di più.
«L'opinione s'allarga, è vero, rapidamente, irresistibilmente; ma perchè imporre al flutto di non andar più in fretta?
«L'impero agonizza, l'impero è morto: si dice, e con ciò lo si lascia vivacchiare: bisogna soffocarla, non ascoltarne i rantoli; non toccargli i polsi, ma suonargli l'ultima carica e tagliargli le vene».
Antonio Dubost, guardasigilli, poi Ministro per la Giustizia nella terza Repubblica, relatore della legge infame, scriveva allora nel Les Suspects (i Sospetti), opera che tendeva a rivelare i delitti dell'impero:
«Nello scrivere i loro nomi, ci sembrava di vedere le loro teste cadere ad una ad una sotto la scure del carnefice. Nell'abbandonarci ad un simile atto di rivendicazione, noi abbiamo voluto placare la memoria dei morti.
«Era alfin scoccata l'ora, nella quale, senza motivi, senza processo, senza giudizio essi sarebbero stati gettati nelle galere e trasportati a Cayenne o in Africa».
I finanzieri in mano ai quali Napoleone III aveva dato il Messico, speravano in una nuova guerra di conquista di trovar nuove prede alla loro voracità. La guerra diede invece il colpo di grazia all'impero. Vi furono arruolamenti d'uomini, come si fa dei cani in tempo di caccia; ma nè fanfare squillanti, nè promesse di bottino potevano risvegliare le masse: allora l'impero intuonò la Marsigliese. E le masse si mossero, incoscienti, e cantarono, credendo di trovare al canto della Marsigliese anche la libertà. Spie e imbecilli gridavano: «A Berlino! a Berlino!» – A Berlino! ripetevano gli ingenui, illudendosi di poter andarvi cantando il «Rhin Allemand»; ma questa volta il vino del Reno non spumeggiò nei nostri calici; col nostro sangue invece i cavalli segnarono l'orme delle loro zampe.
I finanzieri rientrarono in scena: d'essi il più noto era Jecker. Nelle «Avventure della mia vita» Rochefort così parla di lui:
«Si sa, o forse non lo si ricorda più, che questo finanziere, bacato, come del resto tutti i finanzieri, aveva prestato con un interesse tre o quattrocento volte usurario, circa centocinquanta mila franchi al governo del generale Miramon, il quale gli si era a sua volta ritenuto debitore di settantacinque milioni.
«Quando il presidente della Repubblica messicana – Juarez – salì al potere, rifiutò naturalmente di pagare le cambiali, di cui le firme erano state sfacciatamente estorte.
«Jecker, munito de' suoi 75 milioni in carta, andò a trovare il duca di Morny, al quale promise il 30 per cento, se fosse riuscito a persuadere l'Imperatore ad esigere da Juarez l'estinzione del prestito fatto a Miramon.
«Nel 1870, incaricato di far lo spoglio delle carte trovate alle Tuilleries, rese deserte per la fuga dell'Imperatrice e del servidorame, la maggior parte del quale aveva giurato di morire per lei, io potei avere la prova materiale di questa complicità di Morny, il quale approfittando della promessa fattagli da Jecker, di cedergli ventidue milioni su settantacinque, ci trascinò in una guerra liberticida che doveva costarci più d'un miliardo e preparare Sédan.
«Questo Jecker, svizzero di nascita, aveva da un giorno all'altro ottenuto certificati di naturalizzazione francese, e fu appunto in suo nome che all'intrepido Juarez era stata fatta l'imposizione di pagamento.
«Un'impresa simile, del resto, fu ricominciata press'a poco alla stessa maniera nella spedizione di Tunisi.
(H. Rochefort. «Memorie» I. vol.).
Un duello all'americana fra il giornalista Ulisse Barot, e il banchiere Jecker, avvenuto poco dopo la guerra del Messico, fece tanto più rumore, in quanto che Barot, che era stato spacciato come morto, per una palla ricevuta in pieno petto, cominciò a poco a poco a star meglio, finchè guarì interamente, quasi per dimostrare che i nemici dell'impero avevano la pelle dura.
Ma abbiamo visto dopo, delle imprese finanziarie anche più indecenti di questa. Durante e in opposizione alle leve in massa per la guerra, si avevano dimostrazioni di pace, fatte da studenti, internazionalisti, rivoluzionari.
Avendo Rochefort scritto sui fogli del «La Marseillaise» che la marcia su Berlino non sarebbe stata una semplice passeggiata, vide le macchine di questo giornale fracassate, dagli agenti vestiti da operai, ch'erano chiamati le blouse bianche, e che avevano con loro degli incoscienti.
Tuttavia il grido di «La Pace! la pace!» copriva spesso quello delle bande imperiali: A Berlino, a Berlino!
Parigi si staccava sempre più dal Bonaparte: l'aquila aveva già penne di piombo nell'ali.
La rivoluzione invocava quanti erano giovani, ardenti, intelligenti. – Oh, com'era, bella allora la Repubblica!
«La Lanterne» di Rochefort vagante attraverso i luoghi pericolosi, ne rischiarava l'oscure profondità: e sopratutti, alta nell'aria, passava la voce squillante dei Châtiments:
Sonne aujouaid'hui le
glas, bourdon de Notre-Dame,
Sonne aujourd-hui le glas et demain le tocsin.
Malon ha tracciato degli ultimi anni dell'impero un quadro, che è d'una meravigliosa realtà.
«Allora, egli dice, la camicia di forza, nella quale soffocava l'umanità, si rompeva d'ogni parte: un fremito nuovo agita i due mondi. Il popolo indiano si rivolta contro i capitalisti inglesi. L'America del Nord combatte e trionfa per la libertà dei negri. L'Irlanda e l'Ungheria si agitano. La Polonia è in rivolta. L'opinione liberale in Russia impone un principio di liberazione nei paesi Slavi. Mentre la giovane Russia entusiasmata dai discorsi di Tchernichenski, di Herzen, di Bakunin, si fa banditrice della rivoluzione sociale, la Germania svegliata dalle nuove idee di Carlo Marx, Lassalle, Boeker, Bebel, Liebknecht, entra nel movimento socialista. Gli Operai inglesi, nel ricordo di Ernesto Jones e di Owen, tendono vivamente a stringersi in leghe. Nel Belgio, in Svizzera, in Italia, in Ispagna, gli operai si accorgono infine che i loro politicanti li ingannano e cercano di migliorare la loro condizione.
«Così l'operaio francese si sveglia dal letargo in cui l'avevano gettato giugno e dicembre. Dovunque il movimento s'accentua, e i proletari si uniscono per facilitare la rivendicazione delle loro aspirazioni, ancor indecise ma ardenti!»
(J. B. Malon. «Terza disfatta del proletariato»).
Tutti gli uomini intelligenti e di buon senso avversavano la guerra. Michelet scriveva ad un giornalista amico suo, questa lettera perchè fosse pubblicata:
Nessuno vuole la guerra; si fa, e si vuol far credere all'Europa che noi la vogliamo. Ma questo è un colpo di sorpresa, un brutto tiro giuocato. Milioni di contadini hanno ieri votato alla cieca. Perchè? Credendo d'evitare un malanno che li spaventava, forse ch'essi hanno creduto di votare la guerra, la morte dei loro figliuoli?
È orribile che si abusi di una votazione fatta così di sorpresa. Ma il colmo dell'ignominia, la disfatta della morale, sarebbe se la Francia oggi si lasciasse trascinare contro ogni suo sentimento, contro ogni proprio interesse. Facciamo il nostro plebiscito, ma seriamente consultiamo con calma dalle classi più ricche alle più povere, cittadini e contadini; interroghiamo la nazione prendiamo tutti quelli che finora hanno formata questa maggioranza dimentica delle fatte promesse; ad ognuno di essi si dica: Sì, ma sopra tutto, nessuna guerra!
Essi l'hanno dimenticato, ma la Francia ricorda. Essa segnerà con noi un proclama di fratellanza per l'Europa, di rispetto per l'indipendenza spagnuola. Innalziamo il vessillo di pace. Guerra a quei soli che vogliono la guerra in questo mondo.
Il grande storico non poteva ignorarlo: quelli che poggiano il loro potere sulla forza non s'arrendono al buon senso. La forza usata in servizio del diritto contro Napoleone III e Bismark poteva, sola, arrestare il loro complotto contro tante vite umane buttate in pasto ai corvi.
Il 15 luglio la guerra era dichiarata. Il maresciallo Lebeuf annunciava il giorno dopo che nulla mancava all'esercito, neppure un bottone a un paio di ghette!