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IV.
Rochefort e l'assassinio di Victor Noir.
Nous étions trois cent mille étouffaiit nos sanglots,
Prêts à mourir debout devant les chassepots.
(Chanson de Victor Noir, 1870)
L'anno 1870 sorge tragicamente su l'assassinio di Vittorio Noir, consumato da Pietro Bonaparte, nella sua casa d'Auteuil, dove egli s'era recato con Ulrico di Fonvielle quale testimonio di Pasquale Grousset.
Questo delitto perpetrato freddamente, portò il colmo all'orrore che ispiravano i Bonaparte.
E la folla fremeva, come freme il toro nel circo agitando i fianchi colpiti dalle frecce.
I funerali di Vittorio Noir sembravano indicati per decidere una soluzione. Il delitto era uno di quegli avvenimenti fatidici che abbattono la tirannide più potente e più salda. Quasi tutti coloro che seguivano il feretro di lui, pensavano di ritornarsene a casa sotto il governo repubblicano, o di non tornarci più.
Ci si era armati di tutto ciò che poteva servire per una lotta suprema, dal revolver al compasso. Pareva che quei giorno avremmo dovuto gettarci alla strozza del mostro imperiale. Io m'era provvista di un pugnale rubato a mio zio, già da parecchio tempo, sognando di Armodio, e m'ero vestita da uomo per non impacciare gli altri, nè sentirmi in soggezione.
I Blanquisti, molti rivoluzionari, tutti quelli di Montmartre erano armati; la morte passava nell'aria; si sentiva prossima la liberazione.
Da parte sua l'impero aveva chiamato a raccolta tutte le sue forze: uguale spiegamento di forze non s'era più visto dal dicembre in poi.
Il corteo si allungava immenso, suscitando intorno un certo senso di spavento: in certi momenti strane impressioni provavamo: avevamo freddo, eppure gli occhi bruciavano come di fiamma; ci immaginavamo d'essere una forza, alla quale nulla potesse resistere: già la repubblica appariva trionfante.
Ma durante il tragitto, il vecchio Delescluze, che pochi mesi dopo seppe morire eroicamente, si ricordò di dicembre; e temendo il sacrificio inutile di tante migliaia di uomini, dissuase Rochefort dal portare il cadavere in giro per Parigi, accogliendo l'opinione di quelli che volevano portarlo al cimitero. Chi può dire se il sacrifizio sarebbe stato inutile? Tutti credevano che l'impero avrebbe provocato, e si tenevano pronti.
La metà dei delegati delle camere sindacali erano d'opinione che il corpo si dovesse portare in Parigi fino alla redazione della «Marseillaise», l'altra metà invece voleva proseguire direttamente al cimitero.
Luigi Noir, che si credeva fosse propenso ad una vendetta immediata, troncò la questione dichiarando di non volere per suo fratello funerali sanguinosi. Quelli che volevano portare il feretro per le vie di Parigi, si rifiutarono dapprima di obbedire. L'opinioni erano così divise, che vi fu un momento in cui la folla rimase incerta: le onde umane si accavallarono l'una su l'altra, lasciando ampi spazi vuoti.
E si dovette rincasare, a testa bassa, come prima, sempre sotto l'impero: e parecchi pensarono al suicidio; ma ebbe il sopravvento la riflessione: si pensò che la frequenza dei delitti imperiali moltiplicava pure le occasioni di liberazione.
Era stata quella una magnifica occasione: ma l'opinione generale credette che sarebbe stata una completa carneficina, chè tutte le forze dell'impero erano presenti e pronte.
Varlin, sincero quanto Delescluze, scrisse dalla sua prigione che se la lotta fosse stata impegnata quel giorno, i migliori soldati della rivoluzione sarebbero periti; e si felicitò con Delescluze e con Rochefort di averla saputa evitare.
Pietro Bonaparte fu posto sotto processo a Tours nel giugno del 70, un processo ridicolo, nel quale si ebbe la sentenza irrisoria di 25000 franchi di indennità alla famiglia di Vittorio Noir, cosa che rese ancor più odioso il delitto.
Rochefort fu implicato in questo affare più di ogni altro, cosicchè più interessante riuscirà il suo racconto.
La discordia di Pietro Bonaparte con la famiglia di Napoleone III, non era un secreto. Badingue aveva insultato il congiunto suo indigente, che lo pregava di comprare le sue tenute di Corsica, e gli aveva rinfacciato l'illegalità de' suoi figli. Pietro Bonaparte se n'era vendicato scherzando sugli amorazzi di suo cugino con la signorina di Montijo.
«Il mondo politico – scrive Rochefort – era perfettamente al corrente di questi rancori di famiglia, ed egli, Pietro Bonaparte, era diventato quasi un individuo interessante. Cosicchè fui meravigliato quando ricevetti alla redazione della Marseillaise una lettera concepita in questi termini:
«Signore,
«Dopo avere oltraggiati ad uno ad uno tutti quelli della mia famiglia, non risparmiando nè le donne, nè i bambini, ora insultate anche me, per mezzo di uno dei vostri redattori: è naturale, doveva venire il mio turno.
«Solamente io forse ho un vantaggio sulla maggioranza di quelli che portano il mio nome: sono cioè un semplice privato, pur essendo un Bonaparte.
«Io vi chiedo adunque se il vostro calamaio è garantito dal vostro petto, e vi confesso di non avere che una mediocre speranza nella riuscita di questo mio tentativo.
«So, infatti, dai giornali, che i vostri elettori vi hanno dato l'ordine tassativo di rifiutare qualsiasi riparazione d'onore, e di conservare la vostra preziosa esistenza.
«Tuttavia, io oso tentar l'avventura, nella speranza che un ultimo, lieve sentimento francese, vi farà transigere a mio riguardo dalle misure di precauzione dietro le quali vi siete trincerato.
«Se per caso dunque voi acconsentite ad aprire le porte protettrici che rendono doppiamente inviolabile la vostra onorevole persona, non mi troverete nè in un palazzo, nè in un castello.
«Io abito semplicemente al n. 59 di Via d'Auteuil, e vi prometto che se voi vi presenterete non vi diranno che io sono uscito.
«In attesa di una vostra risposta, signore, ho ancora l'onore di salutarvi
«Questa lettera, oltrechè ingiuriosa, era affatto scorretta dal punto di vista di ciò che si è convenuto di chiamare una provocazione. L'articolo che l'aveva motivata non era mio, ma d'un mio collaboratore, Ernesto Lavigne: rispondeva in termini quasi moderati ad un passo d'un documento firmato Pietro Bonaparte, nel quale si leggeva questa frase ignobile all'indirizzo dei repubblicani: «Quanti valorosi soldati, cacciatori arditi, e quanti valenti marinai non conta la Corsica, i quali odiano i sacrileghi, e che già li avrebbero sbudellati, se non fossero stati trattenuti!»
«In secondo luogo quando si desidera una soddisfazione, si scrive al proprio offensore: Io mi considero offeso per il tale o tal'altro periodo del vostro articolo, e perciò vi mando due dei miei amici, che vi prego di mettere in relazione con i vostri.
«Pietro Bonaparte, ch'era stato condannato a Roma per un assassinio commesso in Italia, s'era già battuto parecchie volte per sapere che le vertenze d'onore si regolano con l'intervento di padrini e non fra gli avversari stessi.
«Questa strana brama di attirarmi in casa sua, dove io nulla avevo da fare, avendo cura anche di indicarmi che non l'avrei trovato nè in un palazzo nè in un castello, rassomigliava ad un trabocchetto, nel quale a forza d'oltraggi, aveva sperato di farmi cadere.
«A dir vero, le sue impertinenze non avevano ragione d'essere, dato che io non m'ero mai rifiutato di battermi, ed era appunto perchè mi ero battuto troppo spesse volte che in una riunione elettorale, alla quale io non assistevo neppure, gli elettori avevano votato un ordine del giorno col quale m'ingiungevano di non ricominciare.
«Com'era strano del resto che il Bonaparte, che mi domandava soddisfazione in nome della sua famiglia, era quello stesso che aveva ingiuriosamente rinfacciato e Napoleone III la sua unione con la signorina di Montijo!..
«Quale dunque la causa di questo voltafaccia? È presto indovinata. Il principe Pietro non s'era pavoneggiato nella sua dignità di proscritto che momentaneamente: l'aveva provata abbastanza la miseria, e con un gran buon senso, aveva capito che la strada più sicura per rappacificarsi con suo cugino era di sbarazzarsi della mia persona.
«Ma io era giovane e svelto; maneggiavo se non bene, certo pericolosamente la spada; mentr'egli era piuttosto indebolito, di più soffriva della gotta, e se io lo avessi, come si dice, tolto di mezzo, sarebbe stato, come si dice ancora, un buon motivo per la fanfara bonapartista.
«Il fatto è – e questo è il punto grave della avventura per quanto riguarda il suo buon nome – che dopo avermi indirizzata personalmente la più atroce delle provocazioni, non aveva neppur nominati i suoi padrini. Dunque ciò ch'egli aspettava a casa sua non erano i miei padrini, ma io stesso in persona.
«Solamente più tardi, rileggendo la sua lettera, dopo l'assassinio di Vittorio Noir, compresi tutta la sua perfidia dissimulata: ma al primo momento io non ci trovai che una sequela d'ingiurie, ed incaricai Milliére e Arturo Arnould, due miei collaboratori, d'andare ad abbocarsi con lui per uno scontro immediato.
«Io avrei capito come Ernesto Lavigne, autore e firmatario della lettera, che io non conoscevo neppure, volesse sostituirsi a me, cosa che io del resto avrei rifiutato: ma io mi sono spesso domandato a quale ossessione abbia obbedito il nostro collaboratore Pasquale Grousset nel mandare a sua volta i suoi padrini al principe Pietro Bonaparte, che non l'aveva neppure nominato e che non aveva nessuna ragione di occuparsi di lui.
«Gli era dunque – mi pare – come corrispondente del giornale La Revanche, tirato in ballo dal cugino dell'Imperatore, che P. Grousset s'era preso l'incarico di arrischiare la partita, che non poteva attecchire, dato che era evidente che il principe ricercava me e nessun altro, facendosi d'improvviso paladino di tutta la sua famiglia.
«Vittorio Noir che fu assassinato, non era dunque, come si è generalmente creduto e ripetuto, il mio padrino, ma quello del nostro redattore Grousset, che l'aveva inviato ad Auteuil insieme con Ulrico de Fonvielle, senza neppur prevenirmi.
«Fu solo durante il giorno ch'io seppi di questo passo, che ritardava e contrariava il mio scontro. Tuttavia, siccome ero certo che Pietro Bonaparte non avrebbe tenuto in nessun conto questa nuova vertenza, io aspettavo al Parlamento il ritorno dei miei padrini Millière e Arnould, che dovevano combinare con quelli del principe il mio duello per l'indomani.
«Feci vedere a parecchi deputati la lettera di sfida ch'egli m'aveva mandata, ed Emanuele Arago vi sospettò subito un tranello. – Prendete tutte le precauzioni possibili sul terreno – mi diceva, e sopratutto non andate in persona da lui: egli ha di già sul conto suo parecchi affari loschi.
«E la cosa sarebbe andata certo malamente per me, poichè i padrini di P. Grousset lo trovarono nel suo salotto, in veste da camera, con un revolver carico nella tasca: non essi aspettava, ma me invitandomi ad andare da lui in quella maniera che avete letto; egli aveva calcolato che le sue ingiurie avrebbero esasperato la suscettibilità di cui mi faceva capace, e della quale aveva dato prova, schiaffeggiando il tipografo Rochette.
«Egli era dunque là ad attendermi senza testimoni, mentre avrebbe dovuto sceglierseli prima ancora di inviarmi la lettera di sfida; e in ogni caso avrebbe dovuto designarli subito dopo. Quale infatti sarebbe stata la sua posizione, se io gli avessi mandato i miei padrini per dirgli, come del resto era mia intenzione ed abitudine, non avendo mai voluto, in simili circostanze, tirar le cose per le lunghe: Andiamo subito?
– Aspettate, bisogna che io cerchi due persone disposte ad assistermi. – Cosa che, dopo le sue spacconate, sarebbe stata per lui vergognosa e ridicola.
«La mia convinzione si formò subito col seguirsi degli avvenimenti; egli non aveva mai avuto volontà di battersi con me, ed aveva, semplicemente deciso di assassinarmi per entrare nelle grazie dell'Imperatore e sopratutto dell'Imperatrice.
«Dopo il 4 settembre un vecchio servitore delle Tuileries mi confidò che non Napoleone III ma sua moglie era al corrente delle macchinazioni del cugino suo.
«Questo domestico mi fece il nome di un altro membro della famiglia che aveva servito d'intermediario fra la Spagna e il principe corso. Tuttavia non essendo questa informazione avvalorata da nessun'altra testimonianza nè da prova scritta, non le ho attribuito che un'importanza minima.
«Verso le cinque di sera mi disponevo a lasciar Palazzo Borbone per andarmi ad esercitare un po' la mano in una sala d'armi, quando ricevetti questo telegramma da Pasquale Grousset: «Victor Noir è stato colpito dal principe Pietro Bonaparte con un colpo di revolver ed è morto.»
«Io ignoravo che i suoi padrini avessero preceduto i miei alla casa d'Auteuil, cosicchè la cosa mi parve a tutta prima inesplicabile. Solamente negli uffici del giornale, dove arrivai precipitosamente, potei sapere con tutti i particolari come si era svolta la cosa.
«Vittorio Noir era un giovane ardito e buono, di circa ventun anni, dall'ingegno gaio, scintillante, espansivo; ci regalava spesso degli articoletti e delle novelle d'occasione per il nostro giornale. Sempre pronto ad unirsi a noi, nelle circostanze pericolose: un vero amico della redazione.
«La sua fine tragica, alla quale non pareva destinato, ci commosse così da riempirci di una rabbia folle. Millière ed Arnould ch'erano giunti alla casa del delitto dieci minuti dopo Noir e Fonvielle, furono impediti dalla folla che si raggruppava già davanti al numero 59 della via di Auteuil.
– Non entrate qui – fu loro gridato – qui si assassina!...
«Videro il povero Noir disteso sul marciapiede, col petto squarciato; e raccolsero il suo cappello che gli era sfuggito di mano.
«Assai contrariato dall'arrivo di estranei in luogo di chi egli attendeva, Pietro Bonaparte, dopo poche parole scambiate con essi, aveva levato dalla tasca della sua vestaglia la rivoltella di dieci colpi, pensando naturalmente che se il primo falliva, ne restavano ancora nove: poi aveva fatto fuoco su Victor Noir a bruciapelo, con quell'arma micidialissima, che dal punto di vista dell'armeria francese si poteva ritenere l'ultimo grido, il grido di morte.
«Dopo aver tirato anche su Ulrico de Fonvielle altri due colpi, che fortunatamente andarono a vuoto, per spiegare la sua aggressione contro Vittorio Noir, inventò la favola che indubbiamente aveva preparata per me. Pretese infatti di sostenere che la sua vittima gli aveva allungato uno schiaffo, come del resto avrebbe sostenuto ch'io l'avevo bastonato, se mi fossi recato da lui.
«Io ero stato condannato a quattro mesi di carcere per aver aggredito il tipografo Rochette; gli sarebbe quindi stato facile di persuadere i giurati, abilmente scelti, i quali non domandavano che di lasciarsi convincere dell'innocenza del loro accusato, che io mi ero lasciato trasportare a suo riguardo dalla solita violenza, mettendolo nella necessità di una legittima difesa.
«Quest'impostura non sarebbe stata spiegabile, perchè il principe dal revolver a dieci colpi, lo portava nella tasca della vestaglia, in vista di un abboccamento inevitabile, voluto da lui stesso: per questo s'era ben guardato dal costituirsi i testimoni; ma io ero un nemico, e i consiglieri generali, dei quali era composta l'alta corte che doveva giudicar l'assassino, non avrebbero mancato di proporre all'Imperatore la liberazione di costui.
«L'imperatrice ebbe poi, alla notizia dell'assassinio, una frase che dipinge meravigliosamente lo stato dell'animo suo e quello della sua corte.
« – Ah, che bravo parente! – gridò essa, parlando dell'assassino senza più curarsi dell'assassinato.
«I giornali ufficiali, col candore dell'incoscienza, non ebbero alcuna difficoltà a riportare questa frase, ascrivendogliela ad onore.
«La commozione suscitata in Parigi da questo misfatto fu immensa. Io non so se riuscì a pacificare Pietro Bonaparte con le Tuileries, certo inimicò le Tuileries con la Francia.
«Io ero stato avvertito del delitto verso le cinque di sera: alle sei redigevo questo articolo che era piuttosto un grido di protesta, tenuto calcolo dello stato d'animo in cui fu composto:
– «Io ho avuto la debolezza di credere che un Bonaparte potesse essere qualcosa di diverso da un assassino.
«Io ho osato illudermi che un duello leale fosse possibile in questa famiglia, dove l'assassinio e l'agguato sono una tradizione.
«Il nostro collaboratore Pasquale Grousset ha diviso il mio errore, ed oggi noi piangiamo il nostro povero e caro amico Vittorio Noir, trucidato dal brigante Pietro Bonaparte.
«E sono già diciott'anni che la Francia è nelle mani insanguinate di questi assassini, che non contenti di mitragliare i repubblicani per le vie, li attirano in tranelli infami per sgozzarli a domicilio.
«Popolo francese, decisamente non credi tu che ciò possa bastare?
«Questo suonar di campana a martello fu subito portato innanzi al tribunale, come se fosse un appello alle armi, benchè potesse sembrare piuttosto un appello al suffragio universale.
«Nello stesso tempo che mi si puniva per la mia malavoglia a lasciarmi sgozzare, si arrestava l'assassino, per dare un'ombra di soddisfazione alla folla minacciosa; Pietro Bonaparte fu condotto alla Conciergerie, negli appartamenti del Direttore, col quale divideva la tavola.
Subito dopo, appena tirato il colpo del revolver, il principe aveva mandato a chiamare un medico, il quale naturalmente s'era affrettato a constatare sulla guancia dell'assassino la traccia di uno schiaffo, giacchè i medici constatano tutto ciò che si vuole, pronti a rilasciare ogni giorno a delle graziose attrici certificati di malattie, che possono impedir loro di recitare alla sera, ma non di andare a cena nei più lussuosi ristoranti della città.
«In secondo luogo non si potrà dubitare che se Vittorio Noir, scelto come padrino da Pasquale Grousset, con la missione che comporta questo titolo, se ne fosse dimenticato al punto da schiaffeggiare l'avversario del suo cliente, io sarei stato informato personalmente di quest'atto di violenza e dei motivi che l'avevano provocato.
«Ulrico de Fonvielle, sul quale Pietro Bonaparte aveva scaricato due colpi, avrebbe potuto avere un interesse speciale a negare in tribunale il preteso schiaffo; ma a me, suo collaboratore e redattore in capo nulla avrebbe taciuto. Ora egli mi ha sempre affermato – dò qui la mia parola d'onore – che non solo il nostro povero amico non ha dato il minimo schiaffo, ma che tenendo il cappello nella sua mano inguantata, si era mantenuto perfettamente sempre calmo, nè aveva fatto il più piccolo gesto che potesse lasciar supporre la minima intenzione di reagire. Ad ogni modo nessuno prese abbaglio da questa impostura, nè i consiglieri generali, che assolsero per ordine ricevuto, nè il procuratore generale Grandperret, che falsò nell'arringa ogni cosa, nè l'infame Emilio Ollivier, il quale, in quest'affare come nella questione della guerra franco-tedesca, si mostrò il più basso complice delle vendette napoleoniche.
«Il miserabile ministro non ebbe una parola di biasimo per l'assassino, nè una parola di rimpianto per la giovane e leale vittima. Spinse il suo servilismo fino all'estremo limite dell'abbiezione.
«Se invece d'ascoltare la voce della sua sciocca ambizione, egli avesse, dopo questo delitto, buttato risolutamente il suo portafoglio ai piedi dell'imperatore, quell'imbecille si sarebbe creata una posizione superba, anche nell'opinione dei moderati ch'egli voleva attirare a sè, e si sarebbe nello stesso tempo risparmiata la responsabilità di tutti gli altri disastri. Le sue dimissioni, presentate la sera stessa della morte di Vittorio Noir, gli avrebbero evitata, di lì a qualche mese, una destituzione vergognosa e il disprezzo di tutta una nazione.
«Ma il tristo ministro aveva fatto troppo lunga anticamera per decidersi ad uscire dal palazzo dove aveva potuto infine entrare e sedersi.
«Alla fulminea notizia del delitto, si organizzarono parecchie riunioni di protesta. Amoreux che fu membro della Comune, condannato ai lavori forzati dal consiglio di guerra versagliese, e morì consigliere municipale di Parigi, avvolse la tribuna di un lungo velo nero. Grida di furore s'innalzavan lungo le vie e sulle piazze: si formarono gruppi di gente che volevano correre a Neuilly, a prendere il cadavere, depositato in una casa privata, e portarlo a Parigi, negli uffici del mio giornale «La Marseillaise», donde il corteo si sarebbe poi mosso. Era tutto un delirio di vendetta.
«In realtà l'arresto dell'assassino non aveva sortito altro scopo che di sottrarlo alla folla, che l'avrebbe certamente linciato. Si parlava di correre ad assaltare la Conciergerie e di sgozzarvi il pseudo-prigioniero.
«L'insuccesso del complotto – così mi fu narrato dopo il 4 settembre – aveva sconcertato il mondo delle Tuileries, che ci teneva alla mia morte e per nulla affatto a quella di Vittorio Noir, che stava per farla pagar così cara al governo.
«Il giorno dopo, quando entrai nella sala delle udienze, al parlamento, vi fui accolto da un silenzio più minaccioso per l'Impero che per me.
«Io sapevo già d'essere stato deferito da Ollivier ai giudici suoi servitori, e l'avevo sentito rispondere, nei corridoi, ad un deputato che gli faceva capire tutto il pericolo di una simile condotta:
« – Bisogna finirla, è impossibile governare con Rochefort!
Domandai subito la parola e riproduco dall'Officiel l'incidente che ne seguì:
« – Enrico Rochefort. – Io desidero indirizzare una domanda al Ministro della Giustizia.
«Il Presidente Schneider. – Lo avete già preavvisato?
« – Rochefort. – No, signor Presidente.
«Schneider. – Avete la parola; il signor ministro giudicherà se vorrà rispondervi immediatamente.
« – Emilio Ollivier. – Sì, immediatamente.
« – Rochefort. – Ieri, è stato commesso un assassinio contro un giovane rivestito d'un mandato sacro, quello di padrino, cioè di parlamentare. L'assassino è un membro della famiglia imperiale. Io domando al ministro della Giustizia se ha l'intenzione di sollevare al processo ed alla condanna probabile, delle eccezioni, come quelle che si sollevano contro i cittadini che sono stati defraudati e bastonati da alcuni alti dignitari dell'impero. La situazione è grave, l'agitazione enorme (Interruzioni). L'assassinato è un figlio del popolo (Rumori).
« – Schneider. – Ieri si è convenuto che le interrogazioni presentate sarebbero state esposte sommariamente, senza lungo svolgimento. La vostra interrogazione è stata posta: è chiara e precisa. Tocca al ministro ora il dire s'egli vuol rispondere oggi stesso. (Proprio questo!)
« – Rochefort. – Io dico che l'assassinato è un figlio del popolo. Il popolo domanda di giudicare da sè l'assassino... Domanda che la giuria ordinaria.... (Interruzioni e rumori).
« – Schneider. – Noi siamo tutti qui figli del popolo; tutti siamo uguali davanti alla legge: e non tocca a voi far delle distinzioni (Benissimo!)
« – Rochefort. – E allora perchè scegliere dei giudici devoti alla famiglia?
« – Schneider. – Voi elevate dei sospetti sopra dei giudici che voi non conoscete neppure. Vi invito, ora, a limitarvi alla vostra interrogazione. Io non posso permettervi simili, apprezzamenti.
« – Rochefort. Ebbene, io mi domando, davanti a un fatto come quello di ieri, davanti a fatti che succedono da parecchio tempo, io mi domando se noi siamo in presenza dei Bonaparte o dei Borgia (Esclamazioni; grida: All'ordine! all'ordine) Io invito tutti i cittadini a prender le armi ed a farsi giustizia da sè stessi.
«Il bestione Ollivier s'affrettò a far segno a Schneider di chiudere il dibattito, che cominciava ad infiammare le tribune, e dopo aver chiesta la parola, qualificò il delitto della vigilia come «l'avvenimento doloroso».
« – Dite «l'assassinio!!» – gli gridò Raspail. E il ministro della giustizia spiegava che la legge, fatta specialmente per i membri della famiglia Bonaparte e datante dal 1852, non permetteva di tradurre il principe Pietro davanti alla giuria, che l'avrebbe condannato senza remissione; che tutto ciò che si poteva fare era di deferire il principe ad un'alta corte, di cui si sarebbero scelti i membri ad uno ad uno, con promesse di favori e di decorazioni in cambio di un verdetto assolutorio.
«E Ollivier, dopo aver vantato il suo ossequio all'eguaglianza, terminava con queste minacce rivolte a noi:
« – Noi siamo la moderazione, noi siamo la libertà, e se voi ci costringerete, noi saremo la forza».
«Questa levata di baionette era stata accolta con i più vivi applausi da parte di quella maggioranza che pochi mesi dopo andava a sprofondarsi nel fango, nel silenzio, nei rimorsi, a tal segno che i membri di essa si prosternavano davanti a me, ripetendomi: Come eravate nel vero!...
«Raspail indignato chiese la parola per rispondere agli applausi della turba ministeriale.
« – Si è commesso, disse, un misfatto tale che i delitti di Propman (un delinquente che allora appunto era sotto processo) non hanno prodotto uguale impressione, e tuttavia la giustizia alla quale voi li sottoponete non è giustizia: ciò che a noi preme gli è che la giuria non sia scelta fra i nemici della causa popolare. – E poichè gli si ricordava la imparzialità della magistratura, soggiungeva:
« – Oh, io le conosco le vostre alte corti! ci son passato sotto anch'io! A far parte d'una di esse fu chiamato persino uno condannato alla galera.
«Raspail fu interrotto dal presidente, il quale annunciava ch'egli aveva proprio allora ricevuto dal procuratore generale Grandperret una domanda d'autorizzazione a procedere contro di me per offese verso l'Imperatore, eccitamento alla rivolta, e provocazione alla guerra civile.
«Cinque minuti prima Emilio Ollivier dichiarava d'infischiarsi de' miei attacchi. Quella domanda non era certo segno della sua indifferenza.
«Io ho cercato ili mantenere per il pubblico la fisonomia di questa parte della seduta, nella quale io e Raspail fummo soli in scena. Si è potuto così constatare che neppure un membro della sinistra intervenne, neppure Gambetta, nè Giulio Favre, nè Ernesto Picard; quest'abbandono dava alle insolenze del cinico Ollivier una considerevole autorità sulla maggioranza. Il ministro aveva così il diritto – di cui usava ed abusava – di far osservare che tutti i miei colleghi dell'opposizione eccetto uno solo – rifiutavano di rendersi solidali con me.
«I funerali erano stati fissati per il giorno dopo, e la giornata si preannunziava come pericolosa e movimentata. Fin dal mattino la casa di via del Mercato a Neuilly, dove la bara riposava su due sedie, era stata invasa da una folla che ingrossò al punto da rendere la circolazione quasi impossibile. Come riuscire a far avanzare il carro funebre fino alla porta? Il problema pareva insolubile.
«Io arrivo estenuato, non avendo nè mangiato nè dormito da tre giorni e da tre notti, talmente le emozioni mi avevano pervaso. Mi si fa passare a forza di gomiti fino alla porta di casa: salgo e mi trovo con Delescluze e Luigi Noir, il noto romanziere fratello della vittima.
«Giunge presto anche Flourens, e subito la prima lotta si delinea fra coloro che vogliono la inumazione a Parigi, anzi al Pêre Lachaise, dove si porterebbe il cadavere, e quelli invece che vogliono la sepoltura a Neuilly.
«Centomila uomini di fanteria e di cavalleria erano stati mobilizzati dalle guarnigioni circostanti per affogare nel sangue ogni tentativo di rivolta. Del resto la folla era senz'armi; sorpresa dal colpo di folgore partito dalla casa d'Auteuil, non aveva avuto tempo nè d'organizzarsi nè d'intendersi, era venuta spontaneamente a fare una manifestazione contro due assassini, quello delle Tuilleries e l'altro.
«Tanto io che Delescluze avevamo arringato i nostri amici, e la grande maggioranza degli intervenuti era decisa ad ascoltarci ed a seguirci, quando a mezza via del cimitero d'Auteuil, Flourens e parecchi di coloro che lo circondavano, e dei quali disgraziatamente con la sua generosa buonafede non controllava sempre e sufficientemente i sentimenti, si gettarono alla testa dei cavalli, tentando di farli volgere verso Parigi. E siccome il cocchiere del carro funebre si rifiutava a questo mutamento d'itinerario, si credettero in dovere di tagliar le cinghie e di trascinar essi stessi il carro sinistro.
«Il dolore mi seguiva, o meglio io seguivo il mio dolore; e stretto da un mare umano, che per farmi scorta mi soffocava, ero stato parecchie volte serrato contro le ruote, che al minimo deviamento sarebbero passate sul mio corpo. Mi fecero salire sullo stesso carro funebre; mi sedetti accanto alla bara, colle gambe penzoloni; dall'alto di questo lugubre osservatorio io vedevo la gente ammucchiarsi, cadere, rialzarsi, passare fin sotto ai piedi dei cavalli e sotto la vettura in continuo pericolo di farsi stritolare. Avevo un bell'affannarmi a gridar loro di guardarsi: le mie parole, nel vocìo del corteo non giungevano fino a loro. Per colmo di sventura, il vento a cui ero esposto aveva rivoltato il mio stomaco, vuoto già da tre giorni, risvegliandomi in corpo una fame indiavolata che mi tolse i sentimenti. Ad un tratto, senza alcun motivo visibile, la testa cominciò a girarmi, e caddi inanimato giù dal carro funebre. Quando ripresi i sensi, mi trovai in una vettura pubblica con Giulio Vallès e due redattori della Marseillaise. Gridai subito: – Andate a prendermi qualcosa da mangiare, che muoio di fame!
«Vallès stesso scese di carrozza e corse da un panattiere: comprò una pagnotta di due libbre che divorai a metà, ed una bottiglia di vino, di cui bevvi una sorsata. Giungemmo così all'entrata del viale dei Campo Elisi, vicino alla barriera dell'Etoile.
«Mi ricordo vagamente d'essere stato portato in una farmacia, dove mi avevano spruzzata la testa con dell'aceto, d'aver fatto chiamare la vettura pubblica, nella quale m'ero poi risvegliato.
«Questa è la storia dello svenimento, che dalla reazione bonapartista mi fu spesso rinfacciato, e che in realtà era dovuto allo sfinimento fisico, cui m'avevano ridotto settantacinque ore d'intensa occupazione, passate senza toccar cibo e prender sonno. Le energie umane hanno dei limiti: questi limiti io li avevo oltrepassati rendendomi, nell'impossibilità di rimanere più oltre in piedi.
«Questa spiegazione, la sola vera ed anche la sola plausibile, giacchè in mezzo a duecento mila persone, tutte quante devote a me fino alla morte non potevo correre alcun pericolo, non impedì agli ufficiosi d'accusarmi di codardia. Per me, ripeto, non avevo nulla da temere: dopo qualche minuto d'incertezza infatti, il buon senso prese il sopravvento, e la sepoltura secondo il desiderio di Delescluze e mio, aveva avuto luogo a Neuilly.
«Fu invece a Parigi dove rischiai il pericolo. Compiuta la cerimonia, parecchi di noi erano rientrati a piedi per l'Arco di Trionfo. All'altezza dell'incrocio con i Campi Elisi, ci incontrammo in parecchi squadroni di cavalleria con la sciabola alla mano incaricati di disperdere la folla, per quanto, in vero, non si trovassero davanti che individui che, ritornando da una sepoltura, erano obbligati a rientrare per la sola via che li riconduceva a casa loro.
«Ma quell'imbecille di Ollivier voleva far vedere ch'egli era la forza, come ci aveva minacciati; così ad un tratto vedo farsi avanti, verso il mio fiacre, un commissario di Pubblica Sicurezza, con la fascia tricolore, il quale mi annuncia ch'egli farà caricare dopo la terza intimazione.
«Rinvigorito dal mio pasto frugale e improvvisato, salto giù dalla vettura, mi avvicino al commissario e gli grido queste testuali parole che io ritrovo in un numero del «Marseillaise» nel resoconto di questa giornata.
« – Signore, i cittadini che mi circondano, prendono, di ritorno da un funerale, la via che avevano già presa per andarvi; vorreste loro sbarrare il cammino?
« – Tuttociò che voi direte sarà inutile, mi risponde quello dalla sciarpa: ritiratevi; si farà uso della forza e voi sarete sciabolato.
« – Io sono deputato – replico mostrandogli la medaglietta – lasciatemi passare.
« – No, mi, risponde; voi sarete sciabolato per il primo.
« Allora mi guardo in giro; la piazza era quasi vuota, chè la maggior parte dei dimostranti s'era ritirata lungo i viali.
« – Ritiratevi anche voi, dico allora agli altri. – È inutile che vi facciate massacrare: del resto per quanto faccia, oramai l'impero ha ricevuto il suo colpo di grazia.
«Tutti mi obbedirono, cosicchè la cavalleria, non volendo rinunciarvi, fece la sua brava carica contro le piante dei Campi Elisi. Uno dei soldati anzi cadde e fu trascinato sotto il proprio cavallo, restando sul terreno privo di vita: la quale cosa fece molto ridere il pubblico che si teneva al sicuro dalla carica: il cadavere d'un nemico ha sempre buon profumo.
«Ma se il processo dell'ospite della Conciergerie andava a rilento, il mio andava a passo di corsa: la discussione delle domande a procedere contro di me ebbe luogo il giorno dopo la proposta. Ollivier, che la sosteneva dichiarò ch'egli non voleva giornate di ritardo.
« – E la giornata del 2 dicembre, voi volete bene di quelle, gli gridai dal mio posto.
(Henry Rochefort, Les aventures de ma vie).