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Les
trôneurs aiguisent leur glaive
Et charpentent leurs échafauds,
La sera del 21 gennaio, i delegati di tutti i clubs si riunirono alla Reine-Blanche, a Montmartre, per prendere una risoluzione suprema, prima che ogni energia ed ogni speranza fossero stremate.
Le compagnie della guardia nazionale, di ritorno dai funerali di Rochebrune, si diressero anch'esse a Reine Blanche, gridando lungo il cammino: Dimissioni! dimissioni! Le guardie nazionali dei sobborghi deliberarono di trovarsi armate, il giorno dopo a mezzogiorno in piazza del Municipio.
Le donne dovevano accompagnarle per protestare contro l'ultima distribuzione di pane. Anche la fame si sarebbe sopportata, purchè fosse per la libertà.
In fatto di proteste, io deliberai di prendere il mio fucile come i miei compagni.
La misura essendo traboccante di bassezze e di vergogne, non vi furono opposizioni al comizio fatto per costringere il governo a dimettersi.
Non c'è pane, era stato detto, che fino al 4 febbraio; ma non ci si arrenderà, dovessimo morire sulle rovine di Parigi.
I delegati di Batignolle promisero di condur seco il sindaco e la giunta, nei loro paludamenti di gala, fino al Palazzo di città.
Quelli di Montmartre si presentarono tosto al municipio. Essendo assente Clemenceau, i consiglieri promisero, e ci vennero difatti.
Un accordo generale ebbe luogo fra i comitati di vigilanza, i delegati dei clubs, e la guardia nazionale. La seduta fu levata al grido di: Viva la Comune!
Durante le ore pomeridiane del 21 gennaio, Enrico Place, conosciuto allora sotto lo pseudonome di Varlet, Cipriani e parecchi del gruppo Blanquista si recarono alle prigioni di Mazas, dove Greffier chiese di poter vedere un custode ch'egli aveva conosciuto durante la prigionia. Lo si lasciò passare insieme a quelli, che l'accompagnavano: egli osservò che c'era lì una sola sentinella alla porta d'entrata. A destra di questa porta ce n'era un'altra più piccola a vetri, dove stava giorno e notte un guardiano, e per la quale si poteva penetrare nelle carceri.
In faccia un corpo di guardia, dove dormivano parecchie guardie nazionali dell'ordine: era un picchetto. Arrivati alla rotonda interna del fabbricato, chiacchierando con il custode, Varlet gli chiese dove si trovasse il Vecchio. (Così si chiamava Flourens, come molto dopo Blanqui, che era realmente vecchio).
– Corridoio B, cella 9, rispose ingenuamente il custode. Difatti a destra della rotonda, videro un corridoio segnato con la lettera B.
Chiacchierarono d'altre cose, e quand'ebbero visto tutto ciò che a loro importava, se ne uscirono.
La sera, alle 10, in via delle Corone, a Belleville, essi trovarono all'appuntamento settantacinque uomini armati.
La piccola schiera, presa la parola d'ordine, si finse una pattuglia, rispondendo alle altre pattuglie che avessero potuto incontrarla.
Un caporale con due soldati vennero a riconoscerla, e soddisfatti, la lasciarono passare. Il colpo di mano poteva riuscire, se eseguito con la massima sveltezza.
I primi dodici uomini dovevano disarmare la sentinella, altri quattro impadronirsi del custode della porticina a vetri.
Altri trenta dovevano precipitarsi nel corpo di guardia, mettersi fra i fucili e le brande di campo sulle quali dormiva la guardia, e metterla nell'impossibilità di fare il minimo movimento.
Gli altri venticinque dovevano raggiungere la rotonda, impadronirsi dei sei guardiani, farsi aprire la cella di Flourens, dove poi li avrebbero rinchiusi, chiudere a chiave la piccola porta che dava sul viale ed allontanarsi.
Il piano fu eseguito con una esattezza matematica.
«Non ci fu, narra Cipriani, che il direttore che si fece tirar un po' le orecchie: ma davanti alla rivoltella spianata sul suo viso, dovette cedere e Flourens fu liberato.»
Dopo Mazas, la piccola truppa che aveva cominciato con un trionfo, si rivolse al municipio del XX dipartimento di cui Flourens era stato nominato consigliere: qui si fan suonare le campane a martello, e in una ventina proclamano la Comune; ma nessuno rispose all'appello, nel timore che fosse un agguato del partito dell'ordine.
Al Municipio i membri del governo tenevano seduta quella notte; sarebbe stato facile arrestarli tutti quanti.
Flourens, nella sua prigione, non aveva visto l'importanza del movimento rivoluzionario: argomentò che si fosse in pochi.
Ma il primo colpo di audacia non era forse riuscito? Una decisione pronta ed estrema, fa, con la violenza, lo stesso effetto della pietra lanciata dalla fionda.
Il mattino del 22 gennaio, un manifesto violento di Clement Thomas, che sostituiva Tamisier nel comando delle guardie nazionali, era appiccicato per Parigi. Con esso si mettevan fuor della legge i rivoluzionari, che vi erano trattati come fautori di disordini; ed era fatto appello ai poliziotti per sterminarli.
Cominciava così:
«Ieri sera un pugno di faziosi ha preso d'assalto le prigioni di Mazas, mettendo in libertà il loro capo Flourens».
Seguivano minaccie e ingiurie.
La presa di Mazas e la scarcerazione di Flourens aveva spaventato i membri del governo: temendo un nuovo 31 ottobre, ne avvisarono Trochu, il quale fece circondare il Palazzo di città dai suoi bretoni. Li comandava Chaudey, la cui ostilità per la Comune era notissima.
A mezzogiorno una folla immensa – per lo più disarmata – stanziava in piazza davanti al Municipio. Moltissimi, fra le guardie nazionali, avevano i fucili senza munizioni; quelli di Montmartre erano armati. Parecchi giovanotti, arrampicati sui fanali, gridavano: Abbasso il governo! – e fra tutti, agitantesi, si vedeva la testa arruffata di Bauer.
Di tanto in tanto alte grida, ed un vociar confuso. Tutti quelli che avevano promesso, ed anche quelli che nulla avevano detto, erano là; vi erano anche parecchie donne: André Leo, le signore Blin, Excoffon, Poirier, Danguet.
Le guardie nazionali che non si erano provviste di munizioni cominciavano a pentirsene.
Si preparava una giornata: non se ne poteva dubitare. – Che cosa sarebbe successo l'indomani? Il palazzo comunale già fin dalla vigilia era zeppo di zaini; le guardie bretoni di cui rigurgitava, pigiate nelle insenature delle finestre, ci guardavano colle loro faccie pallide immobili, gli occhi celesti fissi su di noi come lampi d'acciaio.
Per essi la caccia ai lupi era aperta.
Come il 31 ottobre la folla veniva, veniva continuamente: dietro la cancellata, davanti alla facciata, stavano il tenente colonnello dei bretoni, Léger, e il governatore del palazzo municipale, Chaudey, di cui si diffidava.
– I più forti, aveva detto costui, fucileranno gli altri! – E il governo poteva contare sulle forze maggiori.
Furono mandati dei delegati perchè riferissero che Parigi affermava ancora la propria volontà di non rendersi mai, nè di essere da altri tradita; domandarono di essere ricevuti; inutilmente, tutte le porte erano chiuse, e i bretoni stavano sempre alle finestre.
In quel momento il palazzo del municipio sembrava una gran nave con i suoi sabordi aperti sul mare, le onde umane ebbero da principio momenti di irrequietezza, poi attesero immobili.
Nessuno ormai dubitava della maniera con cui il governo avrebbe ricevuto i delegati che non volevano si parlasse di resa.
Ad un tratto Chaudey entrò nel palazzo: – Va, si mormora, a dar l'ordine di tirar sulla folla! – Si tentava intanto di prender d'assalto la cancellata dietro la quale alcuni ufficiali insultavano grossolanamente.
– Voi non sapete ciò che vi attende opponendovi alla volontà del popolo! – disse agli insultatori il vecchio Mabile, uno dei fucilieri di Flourens.
– Io me ne infischio, – rispose l'ufficiale che aveva lanciato le invettive, e puntò il suo revolver su un compagno di Mabile che a sua volta s'era fatto avanti.
Alcuni istanti dopo l'entrata di Chaudey nel palazzo, si sentì come un colpo battuto coll'elsa della spada dietro una delle porte, poi un colpo di fucile tuonò isolato: mezzo minuto dopo una fucileria compatta spazzava la piazza: i proiettili fischiavano e battevano sul selciato come la gragnuola di un temporale estivo.
Quelli armati risposero dalla piazza: freddamente, incessantemente i bretoni tiravano; le loro palle entravano nella carne viva: passanti, curiosi, uomini, donne, fanciulli, cadevano intorno a noi.
Parecchie guardie nazionali confessarono più tardi di aver tirato non su quelli che sparavano contro noi, ma sui muri, dove infatti si potè vedere la traccia dei loro proiettili.
Io non fui di quelli; se si agisse così sarebbe l'eterna disfatta coi suoi mucchi di morti, le strazianti miserie, il tradimento.
Da principio, davanti alle finestre maledette, io non potevo staccare gli occhi da quelle pallide faccie di selvaggi che senza emozione, con movimenti meccanici, tiravano sopra di noi come avrebbero fatto con delle bande di lupi.
Vicino a me, davanti ad una finestra fu uccisa una signora in lutto, alta e che mi rassomigliava, ed un giovane che l'accompagnava. Non abbiamo mai potuto sapere i loro nomi, e nessuno li conosceva.
Due vegliardi, alti sulla barricata di via Vittoria, tiravano tranquillamente. Li avresti dette due statue dei tempi omerici: erano Mabile e Malezieux. Questa barricata, fatta con un omnibus rovesciato, sostenne per un po' il fuoco contro il palazzo municipale.
Quando Cipriani riuscì a guadagnare la via Vittoria, con Dussali e Sapia, ebbe l'idea di fermare l'orologio del Municipio e tirò al quadrante che si spezzò erano le 4 e 5 minuti.
In questo momento fu ucciso Sapia con un colpo nel petto.
Enrico Place ebbe le braccia spezzate; ma come sempre il maggior numero di vittime era dato da persone inoffensive, venute là per caso. Alcuni passeggeri furono uccisi nelle vie circostanti con proiettili di rimbalzo.
Dopo aver resistito il più lungamente possibile, sparando da alcune impalcature dal lato opposto della piazza, dovemmo ritirarci.
La prima volta che si difende la propria causa con le armi, si vede così distintamente la lotta; che non si è, noi stessi, altro che un proiettile.
Alla sera vedemmo il vecchio Malezieux, con la sua redingote bucata dalle palle come un crivello. Dereure, che per un momento da solo aveva occupato la porta del municipio, rientrò a Montmartre con la sua sciarpa rossa alla cintola.
– Accidenti, quanto piombo ci vuole per ammazzare un uomo, ripeteva Malezieux, il vecchio insorto di giugno.
Ce ne voleva, sì, per uccider lui, così che tutte le palle di quella settimana di sangue fischiarono attorno a lui senza toccarlo: ma al ritorno dalla deportazione si suicidò egli stesso perchè i borghesi lo trovarono troppo vecchio per il lavoro.
Le persecuzioni per i fatti del 22 gennaio incominciarono subito. Il governo, giurando di non arrendersi mai tentò di far rientrare nel silenzio i comitati di vigilanza, le camere federali, i clubs; ma tutto allora invece divenne club, la via una tribuna, i marciapiedi insorsero!....
Migliaia di mandati di cattura furono spiccati, ma non si poterono operare che i primi arresti immediati, rifiutandovisi i municipi per non provocare ribellioni. Ci si è spesso chiesto perchè, fra tutti i membri del governo, de' quali nessuno si mostrò all'altezza degli eventi, Parigi abbia sopratutto orrore di Giulio Ferry: ma gli è solamente a causa della sua spaventosa doppiezza.
Il giorno dopo del 22 gennaio, egli fece affiggere per Parigi questo manifesto menzognero:
22 gennaio, ore 4 e 52 minuti di sera.
«Poche guardie nazionali ribelli, appartenenti al 101° reggimento di linea, hanno tentato ieri di assalire il Palazzo comunale; hanno sparato sugli ufficiali, e ferito gravemente un aiutante maggiore della guardia mobile: la truppa ha risposto: il Palazzo comunale è stato mitragliato dalle finestre delle case dirimpetto ch'erano state antecedentemente occupate.
«Hanno lanciato sopra di noi bombe e proiettili esplosivi: l'aggressione è stata la più bassa e la più odiosa dal principio alla fine, giacchè furono tirati più di cento colpi addosso al colonnello ed agli ufficiali, nel momento ch'essi congedavano una delegazione, ammessa pochi momenti prima nel palazzo, nè meno vergognosa dopo, chè mentre fatta la prima carica, sfollata la piazza, il fuoco era cessato da parte nostra, noi fummo ancora presi di mira dalle finestre di faccia.
«Raccontate queste cose alla guardia nazionale, e sappiatemi dire se tutto è rientrato nella calma.
«La guardia repubblicana e la nazionale occupano la piazza e i dintorni.
Uno scrittore simpatico al governo della difesa nazionale, e che conosceva il modo di pensare dei borghesi, fa candidamente questa confessione, spoglia d'artificio, a proposito della repressione del 22 gennaio «Bisognò accontentarsi di condannare a morte in contumacia Gustavo Flourens, Blanqui e Felice Pyat.
(Sempronius, Storia della Comune).
Sia che Giulio Favre comprendesse che abolire le armi a Parigi sarebbe stato un tentativo inutile, causa di una rivoluzione certa, o gli fosse rimasto questo sentimento di giustizia, che la guardia nazionale bisogna conservarla, non fece mai questione di disarmo, per quanto il suo manifesto del 28 gennaio annunciasse l'armistizio, contro il quale Parigi si era sempre sollevata.
Era la resa certa; rimaneva solo incerta la data in cui l'armata d'invasione sarebbe entrata nella città datale in mano.
Coloro che per lungo tempo avevano gridato che il governo non si sarebbe mai arreso, che Ducrot sarebbe tornato o vincitore o morto, che non un palmo di terreno, non una pietra di fortezza sarebbe stata abbandonata al nemico videro finalmente d'essere stati traditi.
La sera del 22 gennaio era stato affisso un decreto che chiudeva tutti i clubs in Parigi.
Finchè il bombardamento di Parigi era certo, rimaneva anche la speranza di una lotta suprema. Quando quella certezza tacque, dopo il 28, ci sentimmo traditi, restava l'ultimo partito: morire, giacchè la rivolta non poteva vincere.
Tutte le vittime già ammucchiate nei solchi, sui lastricati delle vie, i vecchi morti di miseria durante l'assedio, tutto ciò non avrebbe servito ad altro che a mostrare l'abbrutimento del popolo, e il nome di Repubblica non sarebbe che una maschera?
Ognuno che si fosse mostrato repubblicano, era dichiarato nemico della Repubblica.
Giulio Favre, Giulio Simon, Garnier-Pagès percorrevano i dipartimenti; Gambetta finiva di soffocare le comuni di Lione e di Marsiglia, che il 4 settembre aveva fatto insorgere, con quella stessa disinvoltura con la quale, il 15 agosto egli invocava la pena di morte per quelli ch'egli chiamava banditi della Villetta.
***
Secondo la capitolazione, l'assemblea di Bordeaux doveva essere eletta l'8 febbraio e riunirsi per stabilire le condizioni di pace.
L'impressione di questa ignavia era tale, che tanto nell'armata che nella flotta parecchi ufficiali si rifiutavano alla resa, come vi si rifiutava Parigi: ed i loro piani erano ben logici e semplici.
Gli scritti postumi di Rossel e quelli che furono trovati in casa di Lullier dimostrano ancor una volta, che anche secondo la scienza guerresca, era possibile resistere e vincere l'invasione.
«La lotta a oltranza, la continuazione della lotta sino alla vittoria, non è un'utopia, non è un errore.
«La Francia possiede ancora un immenso materiale di guerra, ed un buon numero di soldati.
«La linea della Loira, che è un'eccellente posizione strategica, è stata appena toccata, così che Bourges non è perduto; ma fosse pure in mano ai nemici l'attacco delle provincie meridionali è difficile per l'ostacolo grave dell'Auvergne, che obbliga il nemico a dividere i suoi sforzi fra Lione e Bordeaux, e una sconfitta dei Prussiani in uno di questi punti, li sgombra tutti e due.
«Al contrario la resistenza ad oltranza ha delle probabilità favorevoli: ricordatevi della battaglia di Cannes, la conquista dell'Olanda fatta da Luigi XIV alla testa di quattro armate, le più potenti di Europa, comandate da Turrenne e Condé; l'invasione di Spagna tentata da Napoleone nel 1808. Ecco tre situazioni che erano ben più disperate, più accascianti, e che lasciarono sperare minori probabilità ad un esito onorevole della nostra dopo la presa di Parigi.
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«Gambetta era divenuto improvvisamente un uomo politico, bisognava ch'egli diventasse un uomo di guerra; questa era la nostra speranza dacchè chiusi in Metz, avevamo compresa la nullità dei nostri generali. Ma Gambetta non volle esserlo.
«Noi abbiamo obbedito a tutti i podagrosi dell'annuario militare: essi hanno accettata la responsabilità, strappandosi i capelli per lo spavento, e sono caduti più per la loro incapacità che per l'abilità dei loro avversari. – Tutte le operazioni furono manchevoli.
«La marcia di Bourbaki verso l'Est è inqualificabile.
«Se Gambetta avesse agito personalmente invece di mettersi a disposizione di un vecchio soldato logoro, che marciava malvolentieri, la splendida operazione ch'egli avena concepito non sarebbe finita in un vergognoso disastro.
«La Repubblica in ciò è colpevole quanto l'Impero, perchè come lui incapace a scegliersi i capi.
«Che il governo di Bordeaux accusi quello di Parigi è giusto: ma gli è pur anche giusto che noi protestiamo contro quello di Bordeaux.
«Essi avevano un compito determinato cui provvedere entro un tempo determinato – istruire le reclute; a questo compito s'era aggiunto l'altro di inalzare entro il medesimo tempo dei baraccamenti numerosi per collocarvi le nuove divisioni.
«L'artiglieria non ha voluto sacrificare neppure il minimo chiodo del suo materiale ottimo e durevole: i suoi cannoni, gli affusti, i cassoni e i suoi fornimenti, dureranno quarant'anni, è vero, ma essi non saranno compiuti che a guerra finita.
«Occorrendo di far in fretta, abbiamo saputo semplificare il nostro armamento? No. Noi anzi l'abbiamo complicato adottando il cannone rigato. Le nostre disfatte non sono dovute ad un armamento difettoso, ma ad un ordine di cose ben più elevato.
«Il cannone è buono per i minchioni! abbiamo dei cannoni lisci, cerchiamo di servircene.
«Anche la cavalleria ha voluto essere scolasticamente metodica come l'artiglieria, ed altrettanto incapace sui campi di battaglia».
La marcia sull'Est, che, secondo Rossel, era stata un abuso, fu ugualmente stigmatizzata da Lullier, ufficiale di marina, che la disperazione della disfatta gettò verso la Comune, e che l'affare del Mont-Valérien in cui egli (fidando nella parola d'onore del comandante questo forte, volse in disastro la prima sortita contro Versailles) rese poi soggetto a terribili accessi.
Già fin dal 25 novembre 1870 Lullière aveva inviato un suo piano di guerra, nel quale aveva la massima fiducia, e che rimase invece senza risposta.
È curioso oggi vedere come sarebbe stato facile almeno tentare di rompere l'accerchiamento intorno a Parigi che non domandava che di difendersi eroicamente. Egli cercava di far comprendere la necessità di liberare Parigi e poi metteva tutta la sua scienza e sapienza militare, terminando coll'invocazione che «così può e deve essere salvata militarmente la Francia».
La Francia non fu salvata nè militarmente nè rivoluzionariamente, ma sgozzata dai borghesi degenerati: ciò nondimeno l'avvenire è per la Rivoluzione liberatrice.